21 gennaio 2008
Renzo Penna:
Il documento che segue, firmato – tra gli altri – da Paolo Leon, Fabiano Crucianelli, Sergio Ferrari e Mauro Beschi, analizza criticamente la situazione di Sinistra Democratica e avanza considerazioni e proposte che l’Associazione Labour “Riccardo Lombardi” nella sostanza condivide e sente come proprie.
Dai rifiuti di Napoli al conflitto fra politica e magistratura, dalla questione sociale ai conti pubblici , dalla legge elettorale alla legalità non vi è problema del paese che non sia segnato dalla confusione, dallo scontro permanente e dall’emergenza . E’ una condizione che produce gravi danni nell’immediato e rischia , soprattutto, di ipotecare qualsiasi progetto ambizioso della politica . Il risultato più grande della strategia Berlusconiana , grazie anche agli errori del centro – sinistra , è proprio quello di aver imposto quotidianamente al governo , alla sua maggioranza e al paese l’amletico dubbio fra l’essere e il non essere . Con questo intervento vogliamo consapevolmente evitare ciò che l’emergenza quotidianamente ci consegna e , prima che sia troppo tardi vogliamo riprendere una riflessione sulla sinistra e sul suo futuro . Nei giorni , nelle settimane , forse nei mesi che verranno la vicenda italiana può arrivare a un suo passaggio decisivo grande è il rischio che la destra torni al governo del paese, grande è il pericolo che la sinistra vi arrivi esaurita dall’esperienza del governo e senza una bussola per il domani .
Se gli Stati Generali dell’8 e 9 dicembre saranno stati un “nuovo inizio ” o un falso movimento, lo si deciderà nei prossimi mesi, intanto dobbiamo registrare le luci e le ombre della situazione attuale, tenere aperta la discussione politica e, con questo documento, affermare un punto di vista e un percorso con esso coerente. La nostra convinzione è che oggi la priorità sia proprio quella di avere una riflessione, una discussione aperta, partecipata, libera da ogni tentazione burocratica e sugli organigrammi. Intendiamo contribuire ad affrontare quel “vuoto “a sinistra che è vuoto di politica e assenza di confronto sulle strategie.
L’assemblea di Roma ha confermato che nel popolo di sinistra esistono una spinta unitaria e una volontà di partecipazione reale. Il desiderio di unità che vi si è espresso è stato però contraddetto nella fase precedente agli ” Stati Generali ” dal modo per il quale le scelte sono state sequestrate dai vertici dei diversi partiti e poi, a conclusione dell’assemblea romana, trasformando l’esigenza di partecipazione in proposte più apparenti che reali. E’ un errore. Non solo perché così si frustra la volontà di tanti, ma, in primo luogo, perché si continua a rimuovere la crisi profonda della politica, che ha coinvolto tutto e tutti, destra e sinistra. La crisi della politica è così forte che ha investito le istituzioni e, al fondo, la stessa democrazia, una crisi che va ben oltre la congiuntura e gli stessi confini nazionali. E’ crisi di cultura e di partecipazione, è crisi dei partiti e del sistema istituzionale. Senza una vera rottura non si uscirà da questo tunnel, intanto, almeno sul terreno della partecipazione, è bene registrare due eventi importanti: il rerferendum sindacale al quale hanno partecipato più di cinque milioni di lavoratori e le primarie del Partito democratico. Primarie che si possono e per diverse ragioni criticare, critiche che trovano forza e argomenti nella realtà organizzata del Pd e nei suoi
orientamenti politici, ma sarebbe un errore di arroganza e di miopia quello di “buttare il bambino (oltre tre milioni di votanti) con l’acqua sporca”.
E non è un caso, che l’assemblea non abbia fatto alcun passo in avanti e abbia anzi mancato l’obiettivo di delineare l’orizzonte politico della sinistra, di esplicitarne la sua fisionomia e il suo progetto. Si è arrivati a questo appuntamento in un deserto di partecipazione, sull’onda di una rottura strisciante con il governo Prodi e nel vivo di una contraddizione acuta con gran parte della C.G.I.L. Sono, questi, problemi grandi e che è bene discutere per quelli che sono, senza attenuazioni, con tutte le implicazioni strategiche che ne derivano .
Non solo. Dopo gli Stati Generali non si è verificato quel che pur era stato auspicato, i comportamenti non sono cambiati e le prese di posizione politica dei diversi partiti si sono, semmai, irrigidite. La proposta della federazione si è rivelata essere, come era prevedibile, una soluzione tattica più che un impegno strategico. Anche il conflitto fra Pdci e Rc, emblematico sulla legge elettorale, ma esteso ben oltre questa, testimonia quanto siano distanti gli interessi e gli intendimenti sulla strategia politica dei partiti della cosiddetta “cosa rossa”.
Il dilemma della sinistra nei 20 mesi del governo Prodi
La situazione di incertezza strategica e di grande difficoltà politica della sinistra ha dietro di sé un dilemma, una contraddizione irrisolta che è tornata in primo piano in questi ultimi mesi, ovvero quella di una sinistra che, nella sua ispirazione e nella politica, si divide fra radicalità e riformismo. La scelta convinta di Rifondazione comunista di far parte dell’esecutivo, il fatto che tutta la sinistra fosse insieme nella maggioranza e nel governo, sembrava aprire nel 2006 una nuova stagione politica, capace di mutare proprio il rapporto fra sinistra e governo, fra radicalità e riformismo. Le cose si sono però da questo punto di vista complicate e per molte ragioni: le difficoltà finanziarie del Paese hanno fatto prevalere fin dal primo giorno le ragioni del risanamento e del rigore su quelle dello sviluppo e della redistribuzione della ricchezza; la debolezza del governo senza una maggioranza certa al Senato, e che la formazione del Pd ha contribuito a destabilizzare ancor più; il ricatto centrista di alcuni frammenti della vecchia Margherita. Ma a questi motivi di difficoltà in varia misura esterni alla sinistra occorre aggiungere l’incapacità della sinistra di valorizzare i risultati ottenuti e l’errore di aver alimentato una conflittualità delle opinioni permanente, della quale ha finito per essere lei stessa la prima vittima. Infine, la debolezza, se non l’assenza, di proposte in materia di qualità dello sviluppo e di politiche industriali, ha lasciato libero un terreno che avrebbe dovuto essere ricondotto ad una mediazione più generale e strategica. Così un circuito che poteva essere virtuoso si è trasformato in un corto circuito che ha ridotto la maggioranza di governo a un campo di battaglia e ha spinto i partiti a tornare ai vecchi copioni, nel tentativo ognuno di difendere se stesso, la sua identità, la sua ragione sociale e la sua base elettorale.
Le buone intenzioni si sono in gran parte perse e la possibilità di un laboratorio politico-istituzionale che vedesse insieme riformisti e radicali, socialisti e comunisti, è rimasta sulla carta. Di ciò avrebbero dovuto discutere gli Stati Generali, proprio a partire da questa occasione sin qui mancata, per riprendere il filo di un ragionamento e di una riflessione strategica. Così non è andata. Oggi siamo ad un bivio e fare un passo indietro vorrebbe dire compromettere ciò che di buono pure si è fatto. Bisogna essere consapevoli che se si dovesse riscoprire – e diversi sono i segnali in questa direzione – la “teoria delle due sinistre” e riproporre la dicotomia classica fra riformisti e radicali, i rischi di compromettere l’esperienza di governo e la prospettiva nel medio periodo di una nuova e ambiziosa sinistra sarebbero molto alti, se non definitivi.
Il socialismo europeo
In Italia più che altrove abbiamo avuto straordinari movimenti di massa critici con la guerra e la globalizzazione, protagonisti di una nuova stagione democratica nel mondo del lavoro e nella società. Movimenti critici con le spaventose ingiustizie sociali, con gli effetti distruttivi del sistema economico-sociale sull’ambiente, con il riarmo e con i conflitti militari, ma anche e molto più che in passato, movimenti ricchi di progettualità e di proposte alternative. Il forum mondiale di Porto Alegre è stato un inedito e straordinario laboratorio programmatico; la pace, fuori da ogni retorica, è diventata un valore primario, centrale e generale. Le grandi mobilitazioni sindacali, se pensiamo al nostro Paese, sono state il punto di massimo coagulo delle diverse forme di opposizione sociale al modello economico e culturale oggi egemone. Cosa ne è di questi movimenti? Dove è finito questo grande capitale sociale e intellettuale? Cosa ha sedimentato nella politica? Si dirà: i movimenti sono ciclici, sono carsici, segnano in profondità e non sempre la superficie ne porta traccia. Tutto vero, ma non basta. In realtà la radicalità delle idee e la concretezza di quegli obiettivi – che pure hanno mosso una grande parte della società italiana agli inizi degli anni 2000 – non hanno incontrato la politica, né un progetto riformista e di governo, né una prospettiva in Europa. Per questa fondamentale ragione gran parte di quel potenziale di movimento si è perso. Eppure non se ne è abbastanza consapevoli, se solo pensiamo alla resistenza di una parte importante della sinistra nell’affrontare il nodo del “socialismo europeo” – inteso non come appartenenza ad un credo ideologico, ma come scelta di un campo di forze decisivo per poter affrontare il futuro dell’Europa e una nuova politica nel mondo. Il socialismo europeo è attraversato da grandi divisioni ed è privo di una sua identità, i partiti socialisti e socialdemocratici spesso sono in grande difficoltà. Quel campo di forze resta però un investimento strategico, se non vogliamo rinunciare nel futuro a un ruolo della politica e della sinistra, se vogliamo sperare di governare e non subire le poche luci e le molte ombre dei processi di globalizzazione. Quelli che abbiamo alle spalle sono stati anni duri e difficili. Il terrorismo internazionale, la guerra in Afghanistan e in Iraq, la tragedia senza fine dei palestinesi, il nuovo conflitto con la Russia, la ripresa del riarmo, l’instabilità e la difficoltà profonda dell’economia americana e europea, il collasso ambientale sono la testimonianza di un fallimento, di una crisi e di un’impotenza. Il fallimento dell’amministrazione Bush, la crisi dell’egemonia politica e culturale degli Stati Uniti nel mondo, l’impotenza dell’Europa e della sinistra europea che poco e male ha contrastato la strategia dell’amministrazione repubblicana e, soprattutto, non ha messo in campo un disegno strategico alternativo. Nei prossimi mesi nello scenario internazionale si possono aggiungere nuove e molto aspre prove , è sufficiente riflettere al grande rischio iraniano e all’incognita dei Balcani. Però, dalle elezioni negli Stati Uniti, può venire una straordinaria svolta, per gli americani e per lo stesso futuro del mondo. Le primarie per le elezioni di novembre e, ancor più, le primarie nel campo dei democratici questo ci dicono. L’America può cessare di essere un grande problema per tornare ad essere una risorsa per la comunità mondiale, non sarà un percorso semplice, né lineare. Molto dipenderà dalle scelte dell’Europa e da un nuovo protagonismo del socialismo europeo, dalla sua capacità di dare senso, attualità e concretezza a quelle idee fondamentali di libertà, pace e eguaglianza che sono state alla base della parte migliore della storia europea del ‘900.
Noi abbiamo criticato il Pd e la sua ambiguità sulla collocazione politica in Europa, sul suo possibile abbandono di quel che è stato e fin qui resta l’unico referente politico europeo ed internazionale di sinistra. Ma tanto più incomprensibile è la rimozione di una questione tanto decisiva nel dibattito degli Stati Generali della sinistra. Se questa bussola, al di là della retorica, dovesse smarrirsi nella stessa sinistra democratica, sarebbe grave. Con essa si perderebbe infatti anche una delle ragioni alla base dell’ultima battaglia nel congresso dei Ds, e di quest’ultima andrebbe smarrito il significato più forte, perché se venisse meno tale orizzonte strategico unitario, la stessa unità a sinistra non potrebbe che esaurirsi nell’area ” radicale e massimalista”.
Il centro-sinistra come scelta strategica e una nuova centralità del lavoro
I mesi che abbiamo alle spalle ci consegnano una lezione che tarda ad arrivare nel concreto della politica di governo e la vicenda sul welfare ne è una testimonianza esemplare.
La nostra opinione è che sul “protocollo sociale” si siano commessi errori di merito, ma soprattutto non si è tenuto conto dello straordinario evento democratico che ha portato più di 5 milioni di lavoratori a votare sull’accordo tra governo e sindacati. In particolare, è stato un errore formulare nella manifestazione del 20 ottobre l’obiettivo improbabile di forzare in Parlamento il protocollo sul welfare. Ne è seguita la sconfitta del voto di fiducia, una sconfitta tanto più amara, perché sull’altro versante c’era anche la C.G.I.L e il voto di quei 5 milioni di lavoratori.
Certo è indubitabile che, nella maggior parte dei casi e sulle scelte importanti di questo governo nelle scelte di politica interna, l’interpretazione moderata del programma abbia prevalso sulle proposte che la sinistra con caparbietà ha avanzato; ma spesso è emerso anche un nostro limite ad assumere il governo come terreno e strumento fondamentali per affrontare da sinistra le grandi questioni che investono la nostra società e attraversano il sistema mondo. Non si tratta di moderare più o meno le proprie vocazioni radicali, nella sostanza di restare identici a se stessi, ma un po’ più moderati. E’ il punto di vista che va mutato.
In primo luogo, nel senso di una nuova centralità del lavoro. Assumere il lavoro, la sua dignità, la sua crescita, la sua funzione sociale come chiave di lettura per l’iniziativa politica è molto di più e di diverso che inseguire il sindacato con atteggiamenti parasindacali. Vuol dire declinare in termini nuovi la questione democratica sul terreno delle strategie politiche, delle scelte programmatiche, dei modelli di relazione con il movimento operaio e con la CGIL in particolare.
Il lavoro perde di centralità politica, perché la stessa sinistra elude l’esigenza della costruzione concreta di un nuovo equilibrio tra le ragioni del lavoro e le forze centrifughe del mercato, tra la qualità del lavoro nei settori pubblici e la volontà di privatizzare parti decisive dello stato sociale, perché rimuove l’esigenza di una nuova relazione tra i lavoratori e la rappresentanza politica, oggi sempre più frammentaria e minimalista. Da qui nasce anche l’ incapacità di leggere le tendenze corporative presenti in vasti strati del mondo del lavoro e di contrastarle con politiche capaci di generare solidarietà e coesione. E’ quindi essenziale un programma di breve e medio termine che permetta alla politica di riconquistare sovranità nel mercato e nelle scelte d’impresa, aggredendo il tema della precarietà contrattuale, dell’unitarietà delle aziende e della funzione sociale del lavoro pubblico. In una società bloccata dai grandi interessi finanziari e dai veti di mille corporazioni, in una società povera di formazione e innovazione, occorre un programma che permetta al lavoro di essere sia il motore di un nuovo e diverso sviluppo, sia uno strumento di mobilità e giustizia sociale. E’ necessario un programma che sposti ricchezza dalla rendita al mondo del lavoro, che investa nella ricerca, nel campo della riconversione ambientale e tecnologica dell’apparato produttivo, che sappia guidare le opportunità offerte dalla conoscenza verso una diversa qualità dello sviluppo e che affronti grandi questioni di civiltà, dal precariato alla monetizzazione della salute nei luoghi di lavoro, dai diritti civili alla laicità dello Stato.
Infine è decisiva la piena consapevolezza che la dimensione dei problemi – le grandi e moderne difficoltà sociali, il collasso ambientale, i grandi movimenti migratori, la stagnazione economica, i nuovi nazionalismi e fondamentalismi, il terrorismo, il riarmo e i conflitti militari – impongono almeno uno scenario europeo, altrimenti il fallimento è garantito. E’ in tutte queste ragioni, è nella profondità dei problemi del Paese che trova significato la scelta del centro – sinistra come opzione strategica e la necessità di tentare la via di un nuovo “compromesso sociale”.
Nei mesi che abbiamo alle spalle, per una parte importante della sinistra, la coalizione dell’Unione e il governo sono stati vissuti come una parentesi e una scelta tattica antiberlusconiana, più che come una strategia del presente che guarda e prepara il futuro. Questo errore di ieri è anche la tentazione di oggi. Assumere “l’interesse generale” non è parlar d’altro rispetto agli interessi dei lavoratori, dei precari e delle nuove generazioni. La “lotta di classe” e il contenzioso sui diritti democratici di chi lavora, sono oggi paradossalmente più acuti di ieri, come dimostra l’ultima tragedia di Torino. Tuttavia abbiamo il dovere di cercare quei “compromessi sociali” che sono fondamentali per affrontare la crisi italiana e i processi di globalizzazione, per tutelare, non solo a parole, i diritti e gli interessi degli ultimi. Infine, non è possibile ripensare una sinistra ambiziosa in questo Paese, una sinistra che voglia andare oltre i confini attuali e che si ponga con convinzione il nodo del governo e del cambiamento, senza una relazione forte con il mondo sindacale. Proprio per questo è incomprensibile, se non dentro una logica minoritaria, la rottura che si è voluta con il movimento sindacale.
Occorre, quindi, riprendere il percorso unitario correggendone gli errori, occorre come Sd riprendere e sviluppare il progetto originario. La scelta strategica di investire in un processo di unità a sinistra era e resta giusta, una scelta – come più volte si è detto – difficile e dall’esito incerto. La questione aperta è enorme. La fine dei Ds mette in forse la possibilità di una forza di sinistra autonoma, di governo e riformista, capace di tenere insieme la cultura radicale e quella socialista. Si è aperto un percorso accidentato e che per essere tentato richiede almeno una condizione essenziale. La scelta di unità, il rifiuto di costituirsi in partito da parte di Sd, non può significare precarietà, subalternità politica e culturale, né uno scioglimento di fatto. Un nuovo progetto a sinistra non è un minuetto, o una passeggiata, ma richiede un confronto vero e, talvolta, una lotta politica. Confondere l’unità con lo smarrimento della propria identità politica è un danno per se stessi e per lo stesso processo unitario. Se si segue questa via, è certa anche la dispersione del consenso e delle aspettative che hanno accompagnato la nascita di Sd e sarà non meno inevitabile la riduzione del progetto unitario a una sommatoria di sigle e accordi elettorali.
La verifica di gennaio
Non possiamo essere certi sugli effetti che sulla maggioranza di governo e sugli equilibri politici più generali produrrà la vicenda giudiziaria che ha chiamato in causa il ministro Mastella. Proviamo a pensare che il governo riesca a superare questa ennesima emergenza.
Si è chiesto da sinistra e giustamente una verifica politico – programmatica del governo e della maggioranza per gennaio. Si è detto che il programma dell’Unione rischia di non esistere più. E’ solo una scoperta tardiva: quel programma, ancorché generico, è figlio di un altro momento e non ha fatto i conti con i rapporti di forza reali nel Paese e soprattutto nel Parlamento e al Senato. Le questioni all’ordine del giorno sono evidenti: la dignità del lavoro e una redistribuzione salariale e fiscale; la debolezza ormai cronica della domanda interna e una strategia che affronti alla radice il nodo del precariato; il rilancio dell’economia e la qualità sociale e ambientale dello sviluppo. Infine la riforma della legge elettorale, una delle questioni decisive se si vuole affrontare il degrado della vita politica. La stabilità del sistema politico – istituzionale, il superamento della frammentazione, la rappresentanza reale del Paese e il bipolarismo sono le possibili coordinate per una riforma che voglia contrastare l’esaltazione dei particolarismi, i mali di una democrazia truccata e il trasformismo come sistema.
Il confronto di gennaio non sarà semplice, ma sarebbe un errore per la sinistra affrontare la discussione nella maggioranza di governo con atteggiamento recriminatorio e rivendicativo, per poi magari dar corso a una nuova e confusa stagione di governo. E particolarmente grave sarebbe se, ancora una volta, come già è stato per la discussione sul “protocollo”, una parte della sinistra dovesse affrontare questo passaggio, in particolare sulle questioni economico – sociali, con spirito di competizione nei confronti delle organizzazioni sindacali.
O si cambia registro tutti, sinistra compresa, oppure saranno inevitabilmente altri, la destra nell’immediato e per un periodo che potrebbe non essere breve, a prendere nelle proprie mani le chiavi del governo e del futuro del Paese.
FIRMATARI: Massimo Cialente, Famiano Crucianelli, Angelo Lo Maglio, Mauro Beschi, Felice Besostri, Sergio Ferrari, Paolo Leon, Nicola Manca, Carla Cantone, Raffaele Minelli, Paolo Nerozzi, Enrico Panini, Morena Piccinini, Carlo Podda, Walter Schiavella