di Renzo Penna
Alessandria, 30 agosto 2011
La teoria neoliberista che con lo sviluppo abnorme e senza regole del sistema finanziario rappresenta la principale responsabile dell’attuale disastrosa crisi mondiale, pone da sempre tra i suoi obiettivi la riduzione dei diritti del lavoro e nel lavoro, il ridimensionamento del ruolo autonomo dei sindacati, l’azzeramento dei servizi pubblici e dei sistemi di protezione sociale, la privatizzazione – dove ancora sono pubblici – di sanità, scuola, previdenza e pensioni e la sistematica distruzione dell’ambiente che pretende di “valorizzare”.
Le risorse pubbliche degli stati e di tutti noi tornano ad essere utili, come è accaduto dopo il 2007, quando si tratta di salvare dal fallimento istituzioni finanziarie, grandi banche e compagnie di assicurazione private, cresciute in maniera patologica. Per citare un dato, dal 2008 al 2010, i soli governi dell’Unione Europea, hanno impegnato per salvare la finanza globale dai suoi errori la bellezza di 4,6 trilioni di euro![1] Soldi pubblici che potevano essere, con ogni probabilità, più utilmente impiegati per ridurre le conseguenze della crisi e contrastarne gli effetti.
E senza che ciò abbia provocato turbamento o scalfito le certezze dell’ideologia neoliberista, nonostante questa non abbia, come promesso, risanato i conti dello Stato, ridotto la pressione fiscale alle famiglie e aumentato l’occupazione, ma, al contrario, prodotto una ingiustizia sociale intollerabile, allargato a dismisura le distanze fra ricchi e poveri, sia nei singoli paesi che a livello globale, sfruttato sistematicamente i beni della natura e causato crisi sempre più catastrofiche.
A quest’ultimo proposito nel 2007 si contavano nel mondo oltre un miliardo di persone affamate e altri due miliardi che non avevano acqua e cibo in quantità adeguata per condurre una vita normale. Mentre i 1000 individui più ricchi del mondo possiedono un patrimonio netto di poco inferiore al doppio del patrimonio totale dei 2,5 miliardi di individui più poveri. E l’Italia, con il Regno Unito e gli Stati Uniti, fa parte del gruppo dei paesi sviluppati che presentano gli indici più elevati di diseguaglianza economica: nel 2008 al 10% delle famiglie più ricche apparteneva il 26,3 per cento del reddito totale delle famiglie italiane.[2]
Ma il sistema finanziario internazionale è pronto a riproporre le medesime ricette del risanamento quando un Paese – in questo caso il nostro – è chiamato a sistemare i propri conti e ad attivarsi per una ripresa dell’economia. Sono le convinzioni, ad esempio, della destra repubblicana che negli Stati Uniti ha, di recente, imposto di tagliare l’assistenza ai poveri e si è opposta nel tassare i super-ricchi, sostenendo che, in questo modo, si creano nuovi posti di lavoro. Posizioni che il governo Berlusconi, pur nell’attuale fase di evidente confusione e totale inadeguatezza, ha dimostrato in più occasioni di condividere.
La capacità di attribuire ad altri le cause della crisi, rappresenta – per dirla con Luciano Gallino – il “capolavoro” del finanzcapitalismo: far dipendere il crescente debito pubblico degli stati, non dagli errori, i vizi e le sregolatezze della finanza, ma dalle condizioni di lavoro e di uno stato sociale considerati troppo generosi. Facendo in questo modo pagare il costo della crisi a coloro che ne stanno già sopportando le conseguenze. In primis: lavoratori dipendenti pubblici e privati, pensionati, giovani e disoccupati. Stupisce, se mai, che tali proposte continuino a trovare ascolto, se non condivisione, tra esponenti del centro sinistra italiano. L’area politica naturalmente chiamata, nell’attuale sistema bipolare, ad avanzare un programma di riforme capaci di incidere sulle responsabilità reali della crisi, credibilmente alternativo a quello dell’esecutivo in carica.
Così, da più parti, si è tornati a sostenere la necessità di abolire la “giusta causa” nei licenziamenti e dei tagli al sistema delle nostre pensioni pubbliche, denunciando i rischi futuri di tenuta del bilancio degli istituti di previdenza. Quando in realtà la “cassa” più consistente dell’Inps, quella dei lavoratori dipendenti, continua a registrare un notevole e stabile, anche nelle previsioni, attivo. Mentre i pensionati italiani, pressoché unici in Europa, pagano le imposte con le stesse elevate aliquote degli altri contribuenti, restituendo al bilancio dello Stato oltre due punti di Pil.[3]
Le sacrosante preoccupazioni per il futuro pensionistico degli attuali lavoratori e delle giovani generazioni, più che con modifiche all’attuale sistema, devono, trovare risposte nel superamento di modalità di lavoro e occupazione oggi sempre più precarie e discontinue. Le quali stanno provocando, con l’andata a regime del sistema contributivo, il rapido abbassamento dell’ammontare delle future pensioni verso la metà e, per i lavoratori “flessibili” e a bassa qualificazione, un terzo dell’ultimo salario. Un salario, così come le pensioni, il cui potere d’acquisto è fermo a quello di metà degli anni ’90, mentre ad aumentare, in particolare da noi, sono stati i profitti e le rendite.
Questioni strutturali che reclamano il manifestarsi – e non solo a livello nazionale – di una sinistra vera, capace di rappresentare gli interessi del lavoro e presentare al paese un programma economico, sociale ed ambientale alternativo al neoliberismo rovinoso degli ultimi due decenni. Prendendo, finalmente, atto delle caratteristiche strutturali di una crisi dovuta a un modello di sviluppo non più sostenibile in quanto incentrato sulla crescita continua dei consumi e la quantità dei prodotti. Una sinistra finalmente liberata dalle suggestioni liberiste, quelle che, dalla metà degli anni ’80, raccontano e praticano che bisogna siano ridotti i salari e i diritti dei lavoratori, allungati gli orari, precarizzato il lavoro, tagliate le pensioni, ridotte le prestazioni sanitarie, abbassate le ore e gli anni dell’istruzione pubblica e privatizzati a prezzi stracciati i servizi pubblici. Una sinistra capace di una nuova elaborazione critica che sappia prendere atto dei rischi dell’attuale situazione e affrontare con decisione le vere questioni: la ridistribuzione del reddito dalle rendite finanziarie e speculative al lavoro, la riduzione delle imposte sul lavoro, il sostegno alla lotta all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva, gli incentivi alla ricerca e all’innovazione, la definizione di una nuova politica industriale, l’avvio di un piano di investimenti pubblici nei settori strategici, lo sviluppo dell’economia verde, il risparmio energetico e le fonti rinnovabili.
Un compito difficile o, addirittura, impossibile? Secondo Curzio Maltese è, purtroppo, più verosimile la seconda evenienza visto il profondo pessimismo ch’egli manifesta – in piena consonanza con Luciano Gallino – sulla capacità dei partiti della sinistra, in tutto l’occidente, non di praticare, ma solo di immaginare il cambiamento che sarebbe necessario.[4] Quello di rappresentare gli interessi dei lavoratori e dei soggetti più deboli, rimanendo collegati a sindacati forti e capace di fornire una ricetta economica alternativa al neoliberismo. Come dargli torto se, da noi, la formazione più consistente dell’opposizione, il Partito Democratico, non trova niente di meglio che dividersi sullo sciopero generale opportunamente e tempestivamente deciso dalla Cgil per il prossimo 6 settembre contro una manovra-pasticcio del governo, oltretutto, giudicata, da tutto il centro sinistra, come iniqua ed inefficace!
[1] Report Commissione Europea, dicembre 2010
[2] Luciano Gallino – “Finanzcapitalismo”, 2011 Ed. Einaudi
[3] La Repubblica, 5 luglio 2007: “Lettera aperta all’Inps sulle pensioni italiane”.
[4] Curzio Maltese, Il Venerdì di la Repubblica – 19 agosto 2011