Di Leonello Tronti – 26 dicembre 2021 (socialismoitaliano1892.it).
“La questione salariale in Italia è (finalmente) entrata sotto i riflettori del circo mediatico dopo un lungo, infinito, periodo di silenzio interessato. Lo ha fatto grazie anche – si sa – al lavoro di forte e documentata denuncia svolto per anni da validi ricercatori a titolo individuale e, più di recente, ripreso dal Sindacato, da alcune organizzazioni internazionali e persino da istituti di ricerca privati di provata fede governativa. I salari italiani sono bassissimi: il loro potere d’acquisto è fermo da trent’anni. Una vita o quasi. L’Ocse certifica che nei trent’anni tra il 1990 e il 2020 la retribuzione lorda media annua dei lavoratori italiani – unico caso tra i 35 paesi aderenti all’organizzazione – ha addirittura perso il 2,9 per cento del suo potere d’acquisto. Negli altri paesi le retribuzioni reali sono ovviamente aumentate, dal minimo del Giappone (+4,4 per cento) al massimo della Lituania (+276,3%). Questo è il nudo dato di fatto, semplicemente eclatante.
Sul perché dei trent’anni della questione salariale italiana abbiamo già scritto più volte, ma oggi vale la pena di riprendere il tema e di collocarlo in un contesto culturale più ampio, perché sembra che sia possibile avere un po’ più di attenzione. Inoltre, proprio perché del tema si comincia finalmente a discutere anche tra non specialisti, credo sia giunta l’ora di provare a sfatare tre gravi errori di valutazione, tre semplificazioni errate dell’argomento che circolano da decenni senza smentite nelle esternazioni della politica, degli accademici troppo vicini al potere e, purtroppo, anche di alcuni responsabili delle parti sociali.
Il primo e più grave errore è quello fondamentale della microeconomia marginalista, che teorizza che l’occupazione sia funzione inversa del livello dei salari, ovvero che la bassa occupazione si vinca bloccando o addirittura reprimendo la crescita salariale (che taluni si azzardano a definire “inflazione salariale” ogniqualvolta i salari accrescono il loro potere d’acquisto, senza tenere in alcun conto il contemporaneo andamento dei profitti e delle rendite). La contrapposizione tra occupazione e salari si basa su una visione statica e parziale dell’equilibrio dell’impresa, che nel contesto dell’intera economia non si può evitare di dichiarare profondamente errata. Se per la singola impresa il lavoro rappresenta esclusivamente un costo (a meno che, come nel caso di Henry Ford, i lavoratori non siano al tempo stesso acquirenti del loro prodotto), il suo equilibrio economico dipende però, più che dalle retribuzioni dei suoi dipendenti, da quelle degli altri lavoratori (o delle loro famiglie) che – ovunque lavorino – acquistano i suoi prodotti.
Si tratta di un gioco di difficile soluzione, che spinge l’impresa minimizzatrice dei costi da un lato a comprimere i salari dei propri dipendenti, ma dall’altro a sperare che (come avevano ben compreso prima Adam Smith e poi Karl Marx) le altre imprese facciano esattamente l’opposto, in modo che molti siano i lavoratori che possono acquistare i suoi prodotti ad un prezzo adeguato. Per l’insieme delle imprese la soluzione di questo gioco non può che essere un salario compreso tra il minimo accettato dai lavoratori e il massimo che ciascuna impresa desidererebbe che le altre imprese (ma non la propria) pagassero. Un compromesso, certamente non ottimale, ma comunque ben diverso dalla compressione senza fine di tutti i salari che, come da anni ammonisce Larry Summers (ex ministro dell’economia di Bill Clinton – insomma, non proprio un bolscevico), porta alla “stagnazione secolare” dell’intera economia.
Per liberarsi dall’incantesimo marginalista e comprendere meglio il ruolo dei salari nell’economia e, in particolare, il rapporto tra salari e occupazione, bisogna anzitutto riconoscere che la domanda di lavoro è una domanda derivata: una domanda che non esiste da sola (non dipende dalla buona volontà delle imprese), ma riflette invece la domanda che si rivolge ai beni e servizi che le imprese nazionali possono produrre, per acquirenti interni (domanda interna al netto delle importazioni) o internazionali (esportazioni). Ora, l’entità della domanda interna netta e la sua crescita – che nonostante la globalizzazione restano e devono restare gli elementi fondamentali dell’economia – dipendono in misura determinante proprio dal potere d’acquisto delle retribuzioni (e delle pensioni). Per questo la crescita dell’economia si regge in gran parte su quella della remunerazione del lavoro, presente o passato; ovvero, detto in altri termini, su quanta parte del prodotto del proprio lavoro i lavoratori stessi possono comprare.
Veniamo dunque al secondo errore di valutazione, tanto diffuso da essere stato interiorizzato quasi inconsapevolmente da tutti i commentatori che si occupano di salari e redditi. Come dicevamo, la domanda di lavoro dipende dalla domanda interna netta e da quella internazionale (esportazioni). Ci sono dunque due frontiere lungo le quali si dispiega la competizione tra il lavoro nazionale e quello estero: la prima è quella delle importazioni, cioè di quali e quanti beni gli italiani preferiscono comprare all’estero perché caratterizzati da un miglior rapporto qualità/prezzo o semplicemente perché in Italia non si producono. In larga misura le importazioni sono sostitutive di lavoro italiano, ovvero sostituiscono beni che potrebbero essere prodotti in Italia ma non sarebbe conveniente produrre; mentre in misura minore non sono sostitutive perché si tratta di beni che in Italia non vengono prodotti (o, se lo sono, si producono in quantità insufficienti), e non potrebbero nemmeno essere prodotti. La seconda frontiera è quella delle esportazioni. In questo caso la linea di conflitto è quella della concorrenza globale tra i beni prodotti in Italia e quelli prodotti in qualunque altra parte del mondo, secondo una logica che, in ogni paese, riproduce quella che abbiamo descritto per le importazioni in Italia.
In entrambi i casi la competitività di prezzo (che si basa in parte ma non in tutto, lo vedremo dopo, sul costo del lavoro e dunque sui salari) è un elemento indubbiamente molto importante, sia per mantenere l’ampiezza della domanda interna soddisfatta da produzioni italiane, sia per assicurare la domanda estera dei beni prodotti in Italia. Dunque, per l’esito della competizione con i prodotti esteri, sul mercato interno come su quello internazionale, il peso dei salari e del costo del lavoro sui beni e servizi italiani è senza dubbio un elemento strategico, che condiziona il livello dell’occupazione del settore esportatore. Ma, attenzione: nonostante l’Italia dal 2012 sia in avanzo commerciale (cioè esporti più di quanto importa), e dal 2015 l’avanzo oscilli tra i 40 e i 50 miliardi di euro l’anno, il settore esportatore produce meno di un terzo del prodotto lordo. Anche qui, dunque, ci troviamo di fronte ad un gioco la cui soluzione ottimale non è semplice.
I salari dovrebbero essere minimi nel settore esportatore e in quello in concorrenza con le importazioni, così da assicurare la convenienza di costo dei prodotti italiani rispetto ai concorrenti; ma, all’opposto, dovrebbero essere massimi in quello che produce beni che consumano gli italiani – la domanda interna netta, che vale all’incirca il 70 per cento del prodotto – in modo da assicurare il massimo tasso di crescita della quota di domanda complessiva comandata dai salari e, con essa, dell’economia e della stessa occupazione.
È chiaro che, anche in questo caso, poiché non è possibile fissare salari troppo differenziati tra il settore esportatore e quello interno (le differenze ci sono, e molto elevate, ma non dipendono da un obiettivo di massimizzazione del benessere), la soluzione del gioco è subottimale, di compromesso tra il minimo accettabile e il massimo desiderabile. Si può aggiungere che al gioco interno all’Italia si dovrebbe aggiungere una terza dimensione, quella del salario dei lavoratori dei paesi concorrenti, che la soluzione ottimale vorrebbe fosse il massimo possibile, così da abbattere la competitività di prezzo con i prodotti italiani sul mercato internazionale.
Veniamo quindi all’ultimo errore della valutazione comune della questione salariale, quello riferito al ruolo della produttività. Non si tratta, in effetti, che dell’altra faccia della medaglia, perché per nessun tipo di lavoro il salario è alto o basso in assoluto, ma lo è in rapporto alla produttività di quel lavoro: il valore del lavoro è più o meno elevato a seconda del valore che produce. La produttività è, in altri termini, la variabile chiave dello sviluppo economico ed è legata a doppio filo con i salari. È infatti nel rapporto dinamico tra salari e produttività che si gioca il terzo e più difficile gioco della questione salariale: se il sindacato non vuole incidere sui profitti delle imprese, deve mantenere gli aumenti salariali al di sotto della crescita della produttività.
Ma la crescita della produttività non viene né da Marte né dal laboratorio di Archimede Pitagorico: se si escludono le innovazioni che si dimostrano davvero game changer, capaci di cambiare in modo radicale i processi produttivi, le imprese (che solo in minima parte sono guidate da imprenditori schumpeteriani, innovatori ferventi), e specialmente quelle di piccola e piccolissima dimensione (che sovrabbondano in Italia), non assumono il rischio di finanziare esperimenti innovativi che potrebbero aumentare la produttività del lavoro a meno che la stessa frusta salariale (termine utilizzato dai coniugi Webb, fondatori del movimento fabiano, e più recentemente ripreso da Paolo Sylos Labini) non li obblighi a farlo mettendone a rischio la sopravvivenza. In altri termini, il gioco del rapporto tra produttività e salari è, in essenza, che i salari non possono crescere più della produttività se non intaccando i profitti delle imprese, ma le imprese non vogliono investire in innovazioni che aumentano la produttività a meno che una pressione salariale sui profitti non li induca a farlo, pena la sopravvivenza stessa dell’impresa.
La soluzione “classica” di questo gioco è la cosiddetta “regola aurea” delle politiche salariali, che fino agli anni dell’aggancio all’euro era di comune dominio del sindacato. I contratti fissavano incrementi salariali nella stessa misura della produttività, o magari anche qualcosa in più, e le imprese regolavano gli investimenti in innovazione per evitare di compromettere i profitti. La regola aurea è stata abbandonata negli anni ’90 del secolo scorso quando l’Italia, messa a confronto con i paesi europei più avanzati, si è accorta che aveva pochi occupati dipendenti e, in particolare, poche donne occupate. Da allora è prevalsa una diversa soluzione del gioco, che si trova in qualche modo codificata nel protocollo Ciampi di riforma del modello contrattuale del 1993: i lavoratori accettano una regolazione stringente dei salari (che, come si vedrà dopo qualche anno, inchioderà i salari per trent’anni al potere d’acquisto del 1993); le imprese, in cambio, dovrebbero investire i risparmi sui salari per fare tutti gli ammodernamenti necessari a sviluppare tecnologicamente le imprese e mettere così l’economia in grado di sostenere adeguatamente l’urto della concorrenza nel mercato unico europeo e, più ancora, nel mercato mondiale globalizzato, mantenendo e anzi possibilmente ampliando l’occupazione.
Questa soluzione del gioco, però, ha funzionato poco e male, perché è purtroppo sbagliata. In mancanza della frusta salariale, la produttività è cresciuta poco (i dati sulla sua crescita di lungo periodo, da poco aggiornati dall’Istat, sono a dir poco disperanti). I salari reali sono semplicemente rimasti al palo e l’occupazione anche, seppure oggi dispersa tra mille diverse tipologie di lavoro flessibile, precario e nero: nel 2019 25,5 milioni di occupati (nel 2008 25,4), ma con un monte annuo di 1.710 ore lavorate per occupato contro 1.807 (e negli anni precedenti erano anche più).
In sintesi, per giocare bene il gioco dello sviluppo è dunque necessario tenere presente:
1) che l’economia cresce se cresce il potere d’acquisto dei salari, altrimenti ristagna;
2) che per tenere il passo con la concorrenza globale non basta tenere basso il costo del lavoro (cosa che rispetto al punto 1 si dimostra controproducente), ma bisogna fare innovazioni e produttività (un obiettivo in cui la mano pubblica è elemento indispensabile, oggi più che mai);
3) che la concorrenza non basta a stimolare la crescita della produttività – specie in un mercato interno polverizzato, come quello italiano, in una miriade di piccole e piccolissime imprese – ma sono necessarie tanto la frusta salariale e un sistema di relazioni industriali in grado di gestirla in modo adeguato, quanto una mano pubblica programmatrice, che favorisca la creazione dell’innovazione e spinga le imprese ad adottarla. Lo strumento indispensabile perché il sistema di relazioni industriali accompagni questa terza soluzione è che la contrattazione si trasformi in programmazione concertata dello sviluppo, a livello tanto nazionale quanto settoriale, territoriale e aziendale. L’attuazione del PNRR è un ottimo momento per intraprendere senza tentennamenti questo cammino.