di Leonello Tronti (Università degli Studi Roma Tre), intervento al convegno dell’Associazione Labour: “Fausto Vigevani: l’innovazione nel Sindacato e nella politica”, CGIL Nazionale, 11 giugno 2018
1. Premessa
Purtroppo non ho mai la fortuna di conoscere personalmente Fausto Vigevani e, non avendo sufficientemente approfondito la sua opera e la sua figura, non ritengo opportuno parlare di lui direttamente. Vorrei quindi rifarmi al suo impegno in modo indiretto, partendo dal momento storico in cui maturò il decreto di San Valentino: una fase davvero critica per il sindacato italiano e in particolare per la componente socialista della CGIL. In quella fase Vigevani, che dal 1982 era membro della segreteria nazionale della CGIL, fu chiamato a svolgere un ruolo molto difficile, di minoranza e non condivisione, se non di aperta opposizione alla linea confederale. Un ruolo di difesa dell’embrione di unità sindacale, costruito con fatica sulla base dell’impulso della FLM di Trentin, Carniti e Benvenuto, contro la posizione largamente maggioritaria del suo stesso sindacato.
Credo che quel momento sia stato davvero cruciale rispetto ai successivi sviluppi della società e dell’economia e che pertanto, avendo a mente la posizione di Vigevani, sia opportuno discutere sinteticamente di come la fragilità dell’unità sindacale abbia condizionato sino ad oggi la storia sociale ed economica del nostro Paese. Dall’esame delle condizioni critiche che si sono venute a creare da allora è quindi utile passare ad esaminare le prospettive si aprono oggi, in un momento di relativo consolidamento della prospettiva unitaria, su temi quali la riforma del modello contrattuale, la politica industriale e il ruolo delle relazioni industriali nel disegno di una fase di accelerazione dello sviluppo e di lotta alla crisi sociale del Paese.
2. La crisi degli anni ’80 e l’arresto dell’unità sindacale
Erano gli anni ’80; alimentata dagli shock di prezzo del petrolio e delle materie prime e tenuta in quota dal meccanismo infernale della scala mobile, l’inflazione decimava il potere d’acquisto di chi era privo di scudi protettivi o potere di mercato: i disoccupati e chi viveva di piccole rendite, i piccoli proprietari di immobili affittati e di titoli pubblici, i piccoli negozianti e imprenditori, i lavoratori autonomi, i piccoli professionisti. La ricetta monetarista prevedeva di combattere l’inflazione con la restrizione dell’offerta di moneta, che chiudeva i rubinetti del credito alle imprese, faceva fallire le aziende più fragili, lasciava disoccupate schiere di lavoratori e ricomponeva l’esercito industriale di riserva, arrestando la pressione sociale delle lotte operaie con l’assenza di lavoro e l’impoverimento dei dipendenti delle aziende più deboli.
Per Ezio Tarantelli, che in quegli anni aveva lasciato il Servizio Studi della Banca d’Italia per dedicarsi completamente alla sua proposta di predeterminazione concertata della scala mobile all’Isel, l’Istituto per gli Studi dell’Economia del Lavoro che gli aveva messo a disposizione Pierre Carniti alla Cisl, l’inflazione andava combattuta in tutt’altro modo che con “la corda del boia” della stretta monetaria. Tarantelli voleva offrire un luogo di applicazione costruttiva al grande consenso sociale conquistato dal movimento sindacale nei decenni precedenti: un consenso sociale che ormai era divenuto a tutti gli effetti, potere di opinione e politico. Il sindacato doveva “entrare nella stanza dei bottoni”, prendere parte attiva al coordinamento degli attori della politica economica (il Governo, la banca centrale, le rappresentanze datoriali) nel perseguimento di obiettivi e comportamenti di risanamento. Obiettivi e comportamenti condivisi in accordo con un modello di “partecipazione dall’alto” che combinava e interpretava in modo inedito e creativo (per l’Italia) gli articoli 46 e 3 della Costituzione. Il sindacato doveva porre su quel tavolo la disponibilità a prendere parte, con la moderazione delle richieste salariali, a una manovra di disinflazione dell’economia perseguita congiuntamente da Governo (su tariffe, prezzi amministrati e fisco), banca centrale (sull’offerta di moneta) e imprese (sui prezzi di beni e servizi), chiedendo in cambio – nella logica di uno “scambio politico” win-win, capace di migliorare le posizioni di tutti i contraenti – modifiche favorevoli ai lavoratori nel fisco, nella protezione sociale, nelle politiche del lavoro.
Non tutto il sindacato e non tutta la politica erano però pronti a questa responsabilità. Dopo la prova abbastanza riuscita del lodo Scotti (22 gennaio 1983, governo Fanfani), nel 1984 con il governo Craxi l’unità sindacale salta e invece dell’accordo si fa il decreto. Giunti ormai dopo lunghe trattative in prossimità della firma di un impegno tripartito, il PCI impone alla CGIL l’arresto. Si giunge così alla prima, drammatica rottura dell’unità sindacale, e giunge a termine l’abbozzo di Federazione unitaria CGIL-Cisl-Uil in una situazione in cui anche la FLM, la federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici, si era già fermata: la Fim aveva deciso il proprio autoscioglimento, non la Fiom.
Nel 1985 Tarantelli viene assassinato. Al referendum indetto da PCI e CGIL per abrogare il decreto vince il no e Carniti lascia la Cisl, per problemi di salute, ma forse anche perché non se la sentiva di impegnarsi personalmente nella ricostruzione di quell’unità sindacale alla cui edificazione aveva dedicato tanto impegno e che si era così brutalmente lacerata di fronte al rifiuto della componente comunista della Cgil di dare avvio alla stagione della concertazione. Nel 1987 la scala mobile viene riformata; nel 1990 Confindustria (presidente Pininfarina) disdetta la scala mobile. Il Governo Andreotti ottiene il ritiro della disdetta ma, poi, il meccanismo verrà definitivamente disdettato l’anno seguente.
3. I patti di luglio e il real wage cap
Alla disdetta fanno seguito i Patti trilaterali di luglio: quello del 1992 che accetta l’abrogazione, assume la tutela del potere d’acquisto dei salari come priorità politica del Governo (Amato) e promette a breve un nuovo modello contrattuale concertato; e soprattutto quello del 1993 (Ciampi) che un anno dopo vara effettivamente il nuovo modello contrattuale: la concertazione sociale della politica dei redditi e dell’inflazione programmata, il doppio livello contrattuale, il libro dei sogni dell’ammodernamento dell’intero sistema produttivo. La concertazione, nelle speranze di Ciampi è “un nuovo modo di governare”. Nelle sue parole, il valore dell’esperienza andrà giudicato sulla base dei risultati della terza parte del protocollo di luglio 93: un vero programma di governo, di ammodernamento dell’apparato produttivo, del sistema delle relazioni industriali e dell’intero sistema economico, che dovrebbe essere considerato dal sindacato la contropartita nello scambio politico in cui ha concesso regole di stretta moderazione della dinamica salariale, ma appare in realtà più un programma politico di medio-lungo periodo che una posta nel quadro di un patto sociale.
L’attuazione del programma, dello scambio politico win-win tra i tre contraenti, richiede almeno due presupposti politici: anzitutto l’affidabilità delle procedure di concertazione (di cui l’unità sindacale
è presupposto fondamentale) e poi un governo cosciente del ruolo della concertazione stessa come strumento di governance, di riforma, di programmazione dello sviluppo, non solo ai fini del rientro dell’inflazione ma per l’intera gestione della difficile fase in cui è entrata l’economia, chiamata a rispondere contemporaneamente su tre grandi fronti: la realizzazione del grande Mercato Unico Europeo, l’adozione della moneta unica e la globalizzazione degli scambi commerciali.
Il meccanismo dello scambio politico si incepperà su entrambi i fronti, ma immediatamente sul secondo. Nel 1994 entra infatti in politica Berlusconi e la sua caratterizzazione ideologica è semplicemente dirompente rispetto al quadro precedente. Il centrosinistra torna al governo nel 1996, dopo la breve parentesi tecnica del governo Dini, ma già nel 1998 con il Patto di Natale si tocca un limite anche sul primo fronte. È lo stesso esecutivo a richiamare infatti l’entrata nella fase della cosiddetta riforma “federalista” del Titolo V della Costituzione per affermare che la concertazione va decentrata dal livello nazionale a quello regionale: qualcosa che visibilmente stenta a decollare ancora oggi, nonostante i buoni propositi del Piano del lavoro 2013 della CGIL.
Nel frattempo sul modello contrattuale del 1993 si erano manifestate le critiche della commissione di verifica, prevista dal Protocollo stesso, istituita nel 1997 e presieduta da Gino Giugni. Le critiche erano su tre piani: a) la concertazione è afflitta da un problema giuridico di collocazione nel disegno istituzionale previsto dalla Costituzione; b) esiste un rilevante problema culturale, soprattutto sindacale (ma non solo), a gestire in modo opportuno i due livelli contrattuali; c) esiste un altrettanto evidente problema macroeconomico legato alla struttura della contrattazione: seppure in una situazione in cui il contratto nazionale mostra di tutelare in modo adeguato il potere d’acquisto delle retribuzioni, la diffusione della contrattazione decentrata si dimostra del tutto insufficiente ad assicurare una crescita adeguata delle retribuzioni reali.
Col senno di poi possiamo dire senza tema di smentita che il modello contrattuale disegnato dal Protocollo del 1993 e rimasto in questo inalterato fino ad oggi, grazie all’insufficiente diffusione della retribuzione decentrata, ha imposto alla dinamica negoziale dei lavoratori italiani un real wage cap: un vero e proprio “tappo” alla crescita delle retribuzioni reali. Il vincolo ha prodotto un risultato di stagnazione del potere d’acquisto dei lavoratori italiani che dura ormai da un quarto di secolo e non trova paragone alcuno in altri paesi avanzati, né nell’area dell’euro né altrove, con gravi ripercussioni sulla crescita dei consumi e dell’intera economia. Tuttavia, è proprio grazie alla stagnazione delle retribuzioni reali, che l’Italia riesce in quegli anni a frenare significativamente l’inflazione (da sopra il 4 al 2%) nonostante l’ultima svalutazione della lira (settembre ’92: 30% sul marco) ottenendo di entrare nell’euro alla prima chiamata, e al tempo stesso riesce ad arginare prima e a rovesciare poi la crisi occupazionale del 1992-95, con il sostegno ad adjuvandum della liberalizzazione dei rapporti di lavoro realizzata (anche se non proprio secondo le indicazioni europee) con il Pacchetto Treu. Ai fini del benessere delle famiglie, la stagnazione salariale viene almeno in parte compensata dall’aumento dell’occupazione, in particolar modo femminile, seppure con contratti sempre più flessibili e a tempo parziale. Tra il 1990 e il 2007 il tasso di occupazione complessivo cresce dal 55 al 58,6%, mentre quello di disoccupazione scende dall’8,9 al 6,2% senza alcun surriscaldamento delle rivendicazioni salariali.
4. Blairismo, nuova rottura dell’unità sindacale e crisi sociale
Nel 2001, con l’euro ormai al posto della lira, il centrodestra torna al potere. Con il Patto per l’Italia l’unità sindacale torna a rompersi e ha inizio la triste stagione degli accordi separati, destinata a durare un quindicennio. Possiamo datare ad allora l’inizio della crisi sociale? Forse no, perché la trasformazione in senso liberista dell’economia e la compressione del sistema di protezione sociale iniziano prima. Ma è certo che il modello contrattuale non funziona e non realizza un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori: impone un blocco ai salari reali senza contropartite, scarica sul lavoro l’onere dell’aggiustamento alle nuove condizioni europee e globali in cui si trova l’economia, non assicura la crescita dei consumi e del mercato interno, in una difficile situazione di adeguamento dell’economia alle nuove condizioni competitive globali. Il blocco del potere d’acquisto (non contrattato ma frutto di un accordo mal disegnato e peggio implementato) impedisce che la moderazione salariale faccia parte di uno scambio politico capace di ripartire in modo equo i sacrifici e di disegnare in cambio un sistema produttivo avanzato e in grado di assicurare investimenti, competitività e sviluppo; impedisce che la pratica concertativa dispieghi il suo potenziale di strumento di governo e di coordinamento, di programmazione, di riforma, di aggancio al futuro.
Diviso e indebolito, il sindacato appare irretito nella logica liberista. La sinistra, arretrata sulla linea blairista, accetta la svalutazione salariale come elemento cardine di competitività a salvaguardia della competitività del sistema e si affida ciecamente al mercato e alle grandi imprese, rinunciando a promuovere una sana e robusta politica industriale. Dopo aver posto mano al programma di privatizzazioni più cospicuo d’Europa, l’Italia si affida ciecamente agli autonomi sviluppi dei mercati internazionali e di un mercato interno che non si può proprio dire sia davvero ben regolato, tecnologicamente avanzato e in grado di promuovere trasparenza, concorrenza e merito.
5. Il grande assente: la politica industriale
In questo contesto la politica industriale italiana, falcidiata dalle privatizzazioni e dai tagli agli investimenti pubblici sacrificati al rispetto dei parametri di Maastricht, si concentra essenzialmente sui contratti d’area e sui patti territoriali, tentativi (spesso mal riusciti) di concertazione locale per lo sviluppo, l’emersione del sommerso, la risoluzione di situazioni di crisi occupazionali. Più che “piccolo è bello”, la logica di questi interventi è “distretto è bello”; e certo i distretti industriali della Terza Italia sono sede di molta flessibilità, poco conflitto, bassi costi e alta qualità delle produzioni. Ma ben presto, a fronte dell’allargamento del mercato unico e dell’apertura degli scambi al commercio globale, si rivela impossibile per le produzioni tradizionali competere con i nuovi concorrenti globali, nell’area euro e fuori. Il problema dell’ampia componente tradizionale delle produzioni italiane mostra il fianco alla sostituzione da parte delle importazioni in settori importanti come il tessile, ma anche la ceramica, l’arredamento, la meccanica.
Continua nel frattempo la sofferenza delle grandi imprese, e in parallelo si verifica l’esplosione delle microimprese con la conseguente polverizzazione del sistema produttivo. Tra il censimento del 1991 e quello del 2011 l’Italia registra la creazione di 1 milione e 126 mila imprese, cui corrisponde un aumento di soli (se paragonati alle imprese) 1 milione e 78 mila posti di lavoro: per il 98% si tratta infatti di microimprese (sotto i 10 addetti); la dimensione occupazionale media delle microimprese italiane (4 milioni e 215 mila) scende a 1,8 addetti. Si tratta del segmento dell’economia in cui lavora il 47 per cento della manodopera (7 milioni e 700 mila addetti!), ma che l’Istat giudica “strutturalmente inefficiente” (altro che piccolo è bello!). Siamo di fronte a importanti effetti generazionali (“la classe operaia va in paradiso”: i lavoratori espulsi o usciti dalle ristrutturazioni industriali si mettono in proprio, diventano padroncini creando lunghe e diramate catene di subfornitura in Italia e all’estero) e ad una plateale manifestazione del “complesso di Geppetto” (tanti italiani illusi dalla vittoria del capitalismo nella Guerra Fredda preferiscono essere relativamente poveri e insicuri ma indipendenti piuttosto che lavorare “a padrone”). La selezione delle imprese è frenata dalla scarsa contendibilità di troppi mercati interni (soprattutto dei servizi) e dagli effetti di bassa domanda causati dalla stessa moderazione salariale obbligata dal modello contrattuale, in un contesto di assenza non solo di una politica industriale ma anche di un traino sufficientemente poderoso da parte delle medie imprese nei confronti delle più piccole.
Invece di quella esplicita, l’Italia vara una (decisamente troppo) lunga e monocorde stagione di politica industriale implicita di riduzione generalizzata del costo del fattore lavoro: 1997, pacchetto Treu; 2003, legge Biagi; 2012, legge Fornero; 2015, Jobs Act. In combinato con la moderazione salariale e le riforme di riduzione dei benefici previdenziali, la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro produce una netta riduzione di costi diretti e indiretti del lavoro che, pur non selezionando esplicitamente le imprese da favorire, nei fatti avvantaggia soprattutto i settori ad alta intensità di lavoro, che pagano il wage bill più elevato: non la manifattura (nonostante la sua continua visibilità nell’arena dei media e delle relazioni industriali), ma soprattutto i servizi, in particolare quelli tradizionali, professionali e dove minore è l’impatto delle nuove tecnologie (servizi alla persona e alla famiglia).
L’economia attraversa dunque una stagione micidiale, di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, polverizzazione del tessuto imprenditoriale, assenza di politica industriale, di guida del cambiamento e, al tempo stesso, apertura del mercato italiano all’entrata (e all’uscita) di grandi player globali. I risultati si vedranno più tardi, con la lunga crisi del 2008-2013, ma le radici partono dal 1993 e forse prima ancora, dalla vittoria del blairismo e dell’idea che “le elezioni si vincono al centro” e il mercato è in grado di regolare l’economia meglio di quanto faccia lo Stato. La conseguente crisi sociale si innesta sulla crisi dei sistemi di governo della coesione; in Italia sul fallimento della politica di concertazione. Il potere differenziante della tecnologia, le varie segmentazioni indotte non solo dal contesto digitale ma anche dalla possibilità di accedere a nicchie del mercato mondiale frammentano la composizione tanto dell’apparato produttivo quanto delle classi sociali. La vittima più vistosa della crisi è la classe media, impoverita dal blocco dei salari reali e dal sovraccarico fiscale legato alla riduzione della progressività delle imposte e al mantenimento di un livello comunque non comprimibile della protezione sociale, in un contesto di arresto crescita del reddito complessivo. L’Italia furba, che sostituisce la politica (la liberazione dai “comunisti”) alla gestione dell’economia e del progresso sociale, soffre di non saper guardare al futuro, di non riuscire ad apprendere il funzionamento dell’economia della conoscenza e dei sistemi di nazionali di innovazione, costruiti con successo nei paesi scandinavi proprio grazie all’attribuzione alla coesione sociale del ruolo centrale di strumento diffuso di sviluppo della conoscenza, di apprendimento collettivo e di lotta all’entropia informativa e alla segmentazione digitale della società.
6. La centralità dell’impresa nel nuovo quadro di politica industriale
Oggi, l’ipotesi di una riforma che ricostruisca il futuro traguarda una nuova centralità dell’impresa. Il primo intervento di politica industriale innovativo e pervasivo dopo tanto assordante silenzio, il Piano Industria 4.0, cede ben presto il passo al Piano Impresa 4.0, che lo assorbe e lo integra. L’impresa moderna, digitalizzata, smart, robotizzata, dovrebbe essere il soggetto sociale di un nuovo aggancio dell’Italia al futuro. Da gran tempo le associazioni datoriali (e anche la Commissione Europea) insistono sulla necessità di trasferire per questa ragione il baricentro della contrattazione dal contratto nazionale al contratto di impresa. Se si mantiene la cornice istituzionale del modello contrattuale vigente è indubbio che, sotto il profilo macroeconomico, questa direzione potrebbe portare ad un rafforzamento delle dinamiche retributive reali assieme con lo sviluppo di una cultura negoziale relativamente diffusa di modernizzazione del lavoro, dell’organizzazione e delle relazioni sindacali, oltre che della tecnologia.
Ma da questa visuale risulta in buona sostanza escluso il tema delle relazioni tra imprese, che è invece di estrema rilevanza per la coesione sociale e per la tenuta del sistema delle relazioni industriali, particolarmente in un apparato produttivo spostato verso la piccola dimensione come quello italiano: legami che si compongono e si combinano dalle catene del valore (nazionali e internazionali) ai distretti, dalle filiere ai gruppi (nazionali e internazionali), dall’integrazione finanziaria ai consorzi e così via. Oggi più che mai la creazione del valore ben difficilmente si realizza all’interno della singola impresa, e si costruisce invece nell’interazione di reti tra imprese di diverso livello, diversa dimensione e localizzazione, e diverso potere di mercato, in configurazioni complesse al cui interno spesso gli unici strumenti di governo delle relazioni industriali e sindacali sono il contratto nazionale di categoria o i contratti territoriali (e nemmeno quelli, quando le reti sono sovranazionali).
Certamente il principio fondante della centralità dell’impresa nella transizione verso Impresa 4.0 costituisce la chiave di volta dell’ammodernamento delle imprese secondo la prospettiva della cosiddetta “reingegnerizzazione dei luoghi di lavoro”, in accordo con la logica dell’organizzazione per processi anziché per funzioni, della produzione snella, della learning organization e degli altri modelli alla base di ogni concezione moderna dell’impresa e della stessa possibilità di digitalizzazione dei processi. Ma proprio le differenze nelle concrete possibilità di riorganizzazione, così come nella disponibilità delle necessarie risorse economiche e di conoscenza (conoscenza tanto tecnica quanto umanistica), rendono quanto mai difforme la velocità di diffusione di questa “rivoluzione epocale” tra i settori, i territori e le stesse imprese; così che le distanze economiche e tecnologiche tra imprese aumentano continuamente, non diversamente da quanto accade tra persone.
Le relazioni industriali non sono soltanto procedure di relazione tra istituzioni (qui intese nel senso economico del termine, à la Williamson): l’impresa e i sindacati, l’impresa e le istituzioni pubbliche, l’impresa e il proprio personale, l’impresa e il mercato internazionale. Le relazioni industriali sono anche strumento di coesione sociale e di lotta alla disuguaglianza, di identità e appartenenza, e per questo di trasmissione di fiducia e di conoscenza, oltre che sperabilmente sempre più e sempre meglio strumenti di creazione di un valore diffuso, di scelta e di programmazione dello sviluppo economico e sociale.
7. Centralità dell’impresa e contratto nazionale
Per questa ragione l’ipotesi di scalzare il contratto nazionale dal ruolo di autorità normativa e salariale del sistema di relazioni industriali non può essere in alcun modo accolta se non a fronte di (o successivamente a) un parallelo, forte sviluppo della contrattazione non solo aziendale, ma anche se non soprattutto di filiera (meglio ancora di catena del valore), di territorio, di distretto, di rete e di altro raggruppamento al cui interno embrioni di concertazione dello sviluppo possano discutere di relazioni sindacali, contrattuali e sociali coinvolgendo non solo i dipendenti delle singole imprese, bensì i lavoratori del sistema di cui l’impresa è parte o espressione. In questa direzione, l’applicazione della tecnologia blockchain ai singoli anelli della catena del valore potrebbe portare rilevanti vantaggi di trasparenza e di ricomposizione della compagine economica, sociale e contrattuale.
A questo proposito non è inutile tornare a ricordare che in Italia, allo stato attuale, mentre i contratti nazionali coprono un’alta percentuale (85%) del lavoro dipendente, la contrattazione decentrata invece esclude ancora il 70% circa dei lavoratori delle aziende con almeno 10 dipendenti, e molto probabilmente il 100% di quelli occupati in imprese più piccole. A fronte di questi dati, il passaggio dalla centralità del contratto nazionale a quella del contratto aziendale è quanto meno problematica se non improponibile.
Quanto precede non pone in dubbio che l’attuale sistema nazionale di relazioni industriali difficilmente sia in grado, così com’è, di rispondere adeguatamente alle sfide lanciate dai nuovi paradigmi culturali, sociali, economici e tecnologici alla base dell’odierna fase di sviluppo delle economie avanzate. Ma denuncia più di un’incertezza sul fatto che la risposta adeguata possa trascendere dal patrimonio di consenso avviato da ormai più di 40 anni di relazioni unitarie e concertative tra le parti sociali, al livello nazionale e non solo, e da poco ravvivato con il documento unitario del 25 gennaio 2016 sulla riforma del sistema di relazioni industriali al fine di realizzare “uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro” e con le trattative concluse da allora tra le confederazioni e varie associazioni padronali, e il 9 marzo 2018 con l’accordo con Confindustria battezzato il Patto della Fabbrica. Quel patrimonio ha dato prova di sé fino a quando si è retto su obiettivi chiari e condivisi, in particolare sul rientro dell’inflazione e sull’aggancio all’Europa, con l’entrata nel club dell’euro.
Oggi, piuttosto che disfarsene dichiarandolo superato (rinunciando così al consenso e alla coesione sociale che esso è stato capace di produrre, sventuratamente lasciati deperire da troppi governi di vario colore), è quanto mai opportuno riprenderlo in mano, riplasmarlo e rindirizzarlo a compiti nuovi e più elevati: verso l’obiettivo della crescita, di una crescita sostenibile e inclusiva, morale, sociale ed economica, come elemento primario della necessaria politica di ridimensionamento relativo del debito pubblico, così come della posizione italiana in tema di riforma, in questa direzione, della stessa governance economica europea.
8. Centralità della persona, impresa moderna e partecipazione cognitiva
In questa prospettiva la centralità dell’impresa non va certo trascurata; ma va interpretata da un lato come forte e ineludibile necessità di riorganizzazione nella direzione di un’impresa nuova, flessibile, fondata sulla conoscenza e sulla partecipazione (oltre che sulla tecnologia), sull’apprendimento organizzativo dei lavoratori, sul governo possibilmente digitale dei processi e sulla piena disponibilità del lavoro all’innovazione, sull’internazionalizzazione.
Ma non si può nascondere che questa stessa riorganizzazione, profonda quanto necessaria, propone, inscindibilmente, il tema speculare e forse ancor più cogente della centralità della persona nel processo produttivo, ovvero il tema della trasformazione del ruolo del lavoro da una caratterizzazione prevalentemente (se non esclusivamente) esecutiva e passiva ad una attiva di partecipazione cognitiva, singolarmente o in gruppo: una partecipazione nelle forme che ciascuna impresa si vorrà dare, ma comunque incentrata sulla capacità del lavoro di controllare i processi, risolvere i problemi che man mano si riscontrano, adattare “sartorialmente” il prodotto/servizio alle esigenze del cliente, apprendere individualmente e collettivamente dai risultati stessi del lavoro, proporre suggerimenti di miglioramento continuo di condizioni di lavoro, processi, organizzazione e prodotti.
Il rafforzamento delle funzioni centrali dell’impresa in termini di formazione permanente, sviluppo, comunicazione, relazioni istituzionali e internazionali, gestione del personale e della contrattazione non esclude lo sviluppo della partecipazione cognitiva del lavoro al miglioramento – anzi se lo deve porre come obiettivo irrinunciabile, fondamento stesso dell’impresa moderna, pena l’insuccesso. Sotto questo profilo, nella singola unità produttiva, centralità dell’impresa e centralità della persona non sono che due facce della stessa medaglia, due lati inscindibili e inseparabili di un’unica politica di riorganizzazione del sistema produttivo e delle relazioni industriali, di una politica che deve vedere impegnati con uguale dedizione poteri pubblici, imprenditori e lavoratori, associazioni sindacali e datoriali.
9. A mo’ di conclusione: cenni su di una nuova architettura istituzionale
L’attenzione del legislatore all’assoluta rilevanza di questa riorganizzazione va manifestata anzitutto in un’arena concertativa, e la sua azione in questa arena va affinata e da questa arena va filtrata, anche se l’azione legislativa deve confermare la sua piena autonomia non risultando mai sottoponibile a veti di sorta. Si tratta quindi, sotto il profilo del governo del Sistema delle relazioni industriali, di proporre una ripresa del metodo concertativo in una versione non necessariamente decisionale ma consultiva: leggera, suggestiva, di coordinamento del sistema e di annuncio al Paese, nella severa tutela della reciproca autonomia.
Probabilmente, in questa direzione sarebbe estremamente utile che la Cabina di regia del piano Impresa 4.0 funzionasse da organo direzionale del processo, con le implicazioni politiche del caso; o almeno fungesse da momento di stimolo, sperimentazione, lancio e verifica di un processo non più solo tecnologico ma anche relazionale e organizzativo, di qualità delle relazioni industriali, come evidentemente già sta proponendosi.
A fianco a questo ruolo di coordinamento, informazione, comunicazione e rafforzamento del sistema, spetta al potere legislativo il compito di disegnare e varare strumenti di tutela dei diritti e dei doveri universali. Diritti e doveri che certamente attengono alla rappresentanza e alla rappresentatività negoziale, al potenziamento del CNEL come organo di magistratura dei perimetri del sistema contrattuale privato e, non ultimo, all’applicazione dell’art. 46 della Costituzione attraverso un’interpretazione aggiornata della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.
Tuttavia, per i motivi sopra enunciati, che riguardano tanto la tenuta del consenso che tradizionalmente raccoglie nel nostro Paese la concertazione sociale, quanto il concreto valore sperimentale dell’autonomia delle parti nell’innovazione delle forme delle relazioni industriali, non appare auspicabile alcuna riforma del sistema contrattuale realizzata prioritariamente per via legislativa. E questa considerazione si estende anche al tema del salario minimo interprofessionale, a meno che non si intenda istituire per norma un beneficio la cui misura ed estensione vada contrattata tra le parti, se del caso anche a livello territoriale. Il punto è di natura politica: la forza e la capacità di consenso del Sistema delle relazioni industriali risiede infatti nel principio di non abbandonare mai a spazi vuoti, di assenza della contrattazione (e dunque della concertazione sociale) parti o territori dell’apparato produttivo. Un principio-guida, una stella polare dell’azione delle parti sociali fortemente radicata nelle fibre della nostra stessa Carta Costituzionale.