Il Patto della Fabbrica: prove di partnership sociale
di Leonello Tronti (Università di Roma Tre)
Un patto bilaterale – Quasi a sancire la fine di una lunga stagione di accordi separati, il 25 gennaio 2016 Cgil, Cisl e Uil hanno presentato ad associazioni datoriali, Governo e Paese, un progetto unitario di riforma del sistema di relazioni industriali mirato a realizzare “uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro”. Molti gli ambiti di notevole rilievo toccati: la conferma del doppio livello contrattuale (nazionale e decentrato), una politica salariale più espansiva, il ruolo della partecipazione dei lavoratori nell’innovazione dell’impresa, l’attuazione del Testo unico sulla rappresentanza del 2014, la validità erga omnes degli accordi e altri ancora. Da allora le tre confederazioni sindacali hanno stipulato unitariamente accordi di applicazione di quel testo con varie associazioni padronali del commercio, dell’artigianato, della piccola impresa. Ma c’è voluto più di un anno di trattative per arrivare, il 9 marzo 2018, a chiudere un’intesa anche con Confindustria, la maggiore associazione imprenditoriale italiana. L’accordo interconfederale, battezzato Patto della Fabbrica con terminologia tipica di una Confindustria lontana nel tempo e non solo (si veda il discorso inaugurale della presidenza Merloni del 1980), si distingue dai precedenti del 1993 e del 2009 anzitutto perché è bilaterale e non trilaterale. Esso viene infatti sottoscritto solamente da sindacati e associazione padronale; il Governo non vi ha ruolo, nemmeno come datore di lavoro del pubblico impiego, anche se Renzi aveva più volte sollecitato le parti sociali ad accordarsi per dare attuazione al Testo Unico sulla rappresentanza, prospettando in alternativa di intervenire con una norma che ha poi trovato comunque spazio nei programmi elettorali tanto del PD come dei 5 Stelle.
Chiusura –
Il Patto bilaterale si può definire un documento double-face: si distingue bene in esso uno sforzo difensivo del nucleo storico del sistema delle relazioni industriali italiano, a cui si contrappone uno slancio progettuale aperto al futuro e, in particolare, ad un futuro di social partnership tra i firmatari, uno slancio che dovrebbe finalmente accompagnare (se non guidare) il riallineamento del sistema produttivo italiano alle performance dei sistemi concorrenti nell’euro, dopo una lunga e grave sofferenza nelle spire della Grande recessione e anche prima di essa.
La parte più impegnativa e stringente dell’accordo è dunque quella deputata all’attuazione del Testo Unico su rappresentanza e rappresentatività, e alla sua piena ed esplicita estensione all’organizzazione datoriale. In particolare, i partner sociali si vogliono tutelare dalla cosiddetta pirateria contrattuale messa in atto da imprese e organizzazioni padronali e sindacali non rappresentative per praticare una concorrenza sleale nei confronti delle imprese aderenti a Confindustria, attraverso forme di dumping salariale rispetto ai CCNL. Non si può quindi evitare di notare che il patto è stato sollecitato anche (se non soprattutto) dalla necessità di reagire a un crescente stato di debolezza, non solo del sindacato, ma anche (se non soprattutto) dell’associazione padronale, duramente colpita dalla fuoriuscita di aziende rilevanti come FIAT-FCA, IBM, Luxottica e altre, e di interi comparti come quello della Nautica.
Va peraltro ricordata, in proposito, la difficoltà di misurare in modo efficace e corretto la rappresentanza, sindacale ma ancor più datoriale, misurazione mai tentata prima d’ora. Sotto il profilo concreto, l’accordo rimette quindi al CNEL (che dalla misurazione dovrebbe trarre un po’ di credibilità e autorevolezza) il compito di mappare i perimetri della contrattazione e di accertare l’effettiva rappresentatività e appartenenza ai comparti di riferimento dei firmatari degli accordi compresi nei perimetri. Ciò ad evitare anche lo shopping contrattuale, ovvero la disinvoltura con cui alcune imprese decidono di applicare l’uno o l’altro CCNL a seconda della convenienza economica, indipendentemente dal settore di attività economica in cui si collocano, come anche a rilevare l’ampiezza del fenomeno della diffusione di imprese (circa 20 mila: si vedano Istat-CNEL 2015 e Paolo Pirani su Industri@moci di aprile) che, a livello aziendale, praticano una contrattazione esclusivamente individuale, escludendo del tutto il sindacato. Implicitamente poi, una definizione rigorosa dei contratti nazionali in vigore e dei loro perimetri contrattuali, soprattutto se supportata dall’applicazione del principio costituzionale della validità erga omnes, contrasterebbe la possibilità che il Parlamento vari per legge un salario minimo interprofessionale, sull’esempio dei tanti casi al mondo in cui lo strumento esiste (oltre a Stati Uniti e Gran Bretagna, nell’UE Spagna, Portogallo, Olanda, Grecia, Francia, e di recente anche Germania), ma anche contro l’esperienza dei paesi dove invece il salario va sempre contrattato con i sindacati, anche nel caso di minimi territoriali interprofessionali (Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda). Il CNEL, però, non sarà in grado di esercitare con efficacia il compito che il Patto gli affida a meno che il Governo non lo sostenga con una norma che gli conferisca le risorse e i poteri necessari ad esercitare una funzione di magistratura della rappresentanza, della rappresentatività e della correttezza negoziale mai assolta prima.
Apertura –
Sotto il profilo dell’apertura quasi progettuale del Patto a principi e temi, se non ancora a vere e proprie regole, destinati a ispirare i comportamenti degli attori, va notato che questi definiscono i lineamenti di una social partnership intesa come capacità di coordinamento nei confronti di obiettivi comuni, proposta di una visione macroeconomica condivisa (nella direzione dell’attenuazione del dilemma economico micro/macro che sempre contrappone la singola impresa all’associazione datoriale oltre che ai sindacati), capacità di autogoverno e forza di interlocuzione politica dei partner, non solo in Italia nei confronti di governi e amministrazioni locali e centrali ma anche in Europa, soprattutto se su posizioni convergenti con quelle del governo nazionale. In quest’ultima direzione si segnala anche un implicito riconoscimento del ruolo fondamentale dell’unità sindacale, proprio ai fini di garantire il rispetto delle regole fissate di comune accordo, ma anche la credibilità e la forza politica del sistema delle relazioni industriali e dell’intera partnership sociale.
Politica della domanda –
Poi, sempre nell’ambito dei principi, il Patto delinea gli elementi di un percorso di politica economica da promuovere assieme. Dal lato della domanda il documento segnala la necessità di un rilancio degli investimenti, tanto pubblici (e qui riemerge il tema dell’autorevolezza nell’interlocuzione con gli organi di governo locali, nazionali e comunitari) che privati, accennando anche a possibili sperimentazioni di forme di programmazione concertata dello sviluppo (riferite purtroppo al solo ambito contrattuale aziendale). Significativa sotto il profilo economico è anche l’indicazione esplicita dell’opportunità di una crescita del salario reale, così come l’ampliamento del ruolo di autorità salariale del contratto di primo livello nella fissazione tanto del TEM (trattamento economico minimo) quanto del TEC (trattamento economico complessivo, comprensivo del welfare aziendale), con indicazione degli spazi salariali percorribili dalla contrattazione di secondo livello.
Politica dell’offerta –
Dal lato dell’offerta, invece, il documento specifica che si tratta di un patto per l’innovazione che, nella previsione degli effetti del processo di digitalizzazione che sta investendo le imprese (esemplificato dal Piano Industria e ora Impresa 4.0), individua la necessità di mettere la persona al centro del cambiamento (disegnando i tratti del lavoro 4.0), e di gestire al meglio, in modo coordinato, le future crisi aziendali che purtroppo la digitalizzazione e lo sviluppo della competizione globale porteranno certamente con sé. Dal riconoscimento della necessità della digitalizzazione così come del bisogno di affrontarla assieme discende l’individuazione del ruolo centrale dell’economia della conoscenza (seppure non nominata), nella fattispecie della centralità della formazione (ma senza riconoscerla come diritto soggettivo, come fa invece il contratto dei meccanici) e, soprattutto, della partecipazione organizzativa. Quest’ultima però, nonostante la ormai ricca letteratura scientifica ne testimoni l’assoluta centralità (con riferimento a temi 4.0 come la reingegnerizzazione dei luoghi di lavoro, le pratiche di lavoro ad alta performance, il ruolo centrale della partecipazione cognitiva ecc.), resta in Italia un oggetto ignoto al dibattito pubblico, un ambito vuoto, de jure condendo, lasciato alla fantasia e all’autonomia delle parti.
Il disegno di politica dell’offerta delineato dal Patto si sofferma anche sulla bilateralità, da rafforzare come strumento centrale della partnership sociale, con riferimento alle attività di formazione e accompagnamento del cambiamento, come elemento di diffusione e pratica di una vera e propria cultura della sicurezza sul lavoro (ancora, purtroppo, tragicamente carente) e anche (con specifico riferimento alla previdenza integrativa) come fonte di investimenti nell’economia reale italiana.
In conclusione –
Il Patto della fabbrica è un ottimo accordo, che delinea i contorni di una partnership sociale chiamata a rafforzare il sistema delle relazioni industriali, ad accrescerne la governabilità e la trasparenza e a renderlo più chiaramente uno strumento fondamentale dello sviluppo economico e sociale del Paese, così come della trasformazione e modernizzazione del sistema economico. Se ancora non fissa le regole che dovranno presiedere al governo della partnership, in larga misura demandate alla sperimentazione dell’autonomia delle parti a livello di comparto e aziendale, tuttavia ne stabilisce il fondamento nella misurazione certa della rappresentatività e della rappresentanza, e ne indica principi, obiettivi e linee fondamentali di sviluppo.
Certo mancano ancora gli elementi di riforma della contrattazione necessari a favorire la ripresa di un ruolo economico di sviluppo, mettendo fine agli attuali disincentivi alla cooperazione sociale per la crescita e favorendo una più robusta espansione dei consumi e del mercato interno attraverso la manovra del salario reale, nella misura in cui gli attivi commerciali consentono. E certamente si sarebbe desiderata un’apertura più netta e lungimirante su temi cruciali come il coordinamento della contrattazione con la politica economica, la riorganizzazione dei luoghi di lavoro, la programmazione partecipata (della crescita, dell’occupazione, della produttività, dei salari reali), la contrattazione della distribuzione funzionale del reddito, la diffusione della contrattazione territoriale. Ma queste mancanze, che non si può purtroppo evitare di notare, non erano (ancora) all’ordine del giorno. Intanto il Patto c’è e speriamo che ne venga il rafforzamento del sistema delle relazioni industriali e con esso della capacità di affrontare assieme i nodi che restano ancora da sciogliere