17 Settembre 2007
di Sergio Ferrari
Il problema dei necessari interventi per controllare il mutamento del clima è affrontato per molti aspetti più con la mente tesa a valutare l’influenza delle diverse strategie sui rapporti di potere che a trovare le soluzioni più efficaci. Ne è un esempio la politica italiana sulle fonti rinnovabili.
Sulla crisi ambientale sarà opportuno intanto distinguere due componenti. La prima, di ordine generale, è quella che riguarda il degrado non solo dei beni naturali ma anche di quelli costruiti. Beni paesaggistici, beni culturali, sistemi viventi sono oggetto di uno sfruttamento e di un utilizzo che traducono uno sviluppo consumistico a sua volta non sempre corrispondente ad un effettivo sviluppo qualitativo. La questione ovviamente non è affatto nuova, si intreccia con i mutamenti nella distribuzione internazionale del lavoro e con la traduzione che questo processo riceve nei contesti culturali e sociali dei diversi paesi, sino al caso dei rifiuti in Campania. Da un punto di vista politico-economico si tratta di una questione che sarà sempre più difficile rincorrere solo con i divieti e le prescrizioni ma che dovrebbe essere affrontata richiamando quelle riforme di struttura che pongono il tema del cambiamento della domanda. In questo senso si tratta di una questione squisitamente politica.
Diversa è la crisi ambientale dovuta al cambiamento del clima. Dopo molti anni di studi e di dibattiti tra esperti si è arrivati ad una conclusione ormai ampiamente condivisa secondo la quale, al di là di altri possibili fattori, l’utilizzo dei combustibili fossili – carbone, metano e petrolio – provoca un aumento della concentrazione della CO2 nell’atmosfera che a sua volta, attraverso il conseguente effetto serra, provoca una maggiore concentrazione di energia nell’atmosfera con un conseguente inasprimento dei fenomeni atmosferici e un generale innalzamento delle temperature.
Gli effetti di questo processo non sono propriamente politici nel senso che non colpiscono i bianchi piuttosto che i neri, i ricchi piuttosto che i poveri. Che a sinistra ci sia una maggiore sensibilità per questo fenomeno in parte è comprensibile ma in parte deriva dall’ipotesi di poter mettere in discussione l’economia capitalistica recuperando quelle certezze sulla sua crisi finale perse con il crollo del muro di Berlino. Una posizione critica accentuata anche dal fatto che quei combustibili fossili – metano e petrolio in particolare – si sono trasformati da merce di scambio a merce di controllo e di potere geopolitico da parte di quello stesso sistema economico. Eliminare l’utilizzo di quei prodotti energetici significherebbe allora eliminare quel potere. Una ipotesi, a nostro parere, del tutto ingenua, tutta da dimostrare e probabilmente indimostrabile.
Resta dunque la questione “apolitica” almeno nel senso di “destra-sinistra”, degli effetti dei cambiamenti climatici. Occorre dire che i rimedi che a livello internazionale – perché questa è ovviamente la dimensione – via via vengono definiti attraverso infinite discussioni possono essere ritenuti validi se espressi in termini di entità della riduzione di emissioni necessaria per recuperare un qualche equilibrio. Si tratta infatti in questo caso di calcoli degli esperti, discutibili in termini tecnico-scientifici data l’enorme complessità dei modelli necessari, ma comunque discutibili sempre su questo piano scientifico. Ma come raggiungere questi obiettivi di riduzione delle emissivo di gas serra, è ovviamene un’altra questione.
In linea del tutto generale la diffusione dell’economia occidentale a pressoché tutto il mondo, con l’esclusione parziale dell’Africa, ma con livelli di sviluppo nettamente differenziati, crea un obiettivo contrasto non facilmente risolubile: i paesi ricchi dovrebbero ridurre le loro emissioni più di quanto le accrescono i paesi in via di sviluppo o almeno trovare un punto di equilibrio. Ma poiché sono i paesi avanzati che impongono determinate produzione e tecnologie, a questi toccherebbe anche l’onere di individuare tecnologie di produzione e di consumo dell’energia comunque alternative a quelle oggi maggiormente correnti.
Le ricette in materia sono attualmente due: l’uso razionale dell’energia, il risparmio energetico e il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili. Che tutto questo possa chiudere positivamente il cerchio non è affatto detto sopratutto perché le fonti rinnovabili delle quali maggiormente si parla possono dare un contributo ma non sembra siano risolutive. Ci sono anche altre potenzialità ma a scadenze ancora lontane nel tempo e da verificare sul piano della fattibilità tecnologica ed economica.
Resta poi sullo sfondo l’attuale realtà della natura politica del controllo delle attuali fonti energetiche fossili che potrebbero essere investite da queste nuove soluzioni. Su questa questione non si dice nulla anche se è proprio su questo che si giocherà il nostro futuro non solo climatico. Quello che ad oggi appare è che su questi cambiamenti delle tecnologie energetiche si giocherà una partita rilevante nella distribuzione internazionale dei costi e dei benefici economici. Nel caso delle fonti rinnovabili il peso economico comunque maggiore rispetto a quello delle tecnologie tradizionali, della componente “impianto” e il suo prevedibile contenuto tecnologico, offrono ai paesi avanzati delle opportunità già rilevabili. Si tratta di una dimensione centrale di questi sviluppi, che molto spesso viene dimenticata dagli ambientalisti.
Rispetto al nostro paese, per ora due possono essere le considerazioni: per quanto riguarda la riduzione delle emissioni siamo in ritardo e inadempienti rispetto agli accordi con la Comunità Europea. Abbiamo un sistema energetico e, in particolare, un sistema produttivo che tende ad aumentare la propria intensità energetica contrariamente a quanto avviene mediamente in Europa. Sul piano della capacità di cogliere le opportunità tecnologiche siamo sostanzialmente esclusi in virtù dell’arretratezza tecnologica accumulata e di una politica che tende alla diffusione delle fonti rinnovabili, cioè ad una operazione commerciale che rende disponibile ad altri il nostro mercato ma non a sviluppare le opportunità di lavoro e di innovazione. Una strada già seguita in materia di tecnologie dell’informazione che ci costa, in questi specifici settori, svariati miliardi di euro di deficit commerciale all’anno. Nel caso delle fonti rinnovabili per ora il deficit si misura ancora in milioni di euro.
Articolo tratto dal sito www.eguaglianzaeliberta.it