SANITA’ PUBBLICA: UNA SITUAZIONE DRAMMATICA
Pubblicato sul numero 101 della rivista “dalla parte del torto“, di Parma
Dall’anno della riforma, il 1978, il diritto alla salute e lo stato del Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale non sono mai stati cosi a rischio. Nel Documento di economia e finanza (Def) il governo sta programmando la riduzione della spesa sanitaria che nel 2024, rispetto all’anno in corso, si ridurrà del 2,4% e che, in rapporto al Pil, a partire dal 2025, scenderà al 6,2%, rappresentando il valore più basso degli ultimi decenni. Considerando che già oggi la spesa per la salute in Italia è ben al di sotto della media europea e lontanissima da paesi come la Francia e la Germania, la situazione che emerge non può che essere definita drammatica. Questa condizione è pienamente confermata dall’ultimo rapporto di “Cittadinanzattiva”, sia per quanto riguarda i tempi di attesa per visite, screening e interventi che per la condizione deficitaria del personale (medici, tecnici e infermieri), da cui, in particolare, dipende la generale condizione critica dei pronto soccorso. Per non parlare della pressoché totale assenza dell’assistenza domiciliare e dell’insufficiente numero dei consultori. Sul fronte del personale la CGIL sostiene che: “nel Def non c’è assolutamente nulla, né per i rinnovi dei contratti, né per un indispensabile piano straordinario di assunzioni e tantomeno per il superamento del blocco della spesa del personale”.[1]
Se questo è il quadro non si può che constatare come vi sia, da parte del governo, un preciso intento volto a ridurre sempre più il perimetro della sanità pubblica per ampliare gli spazi e la presenza della sanità privata convenzionata, privata legata alle assicurazioni e privata “pura”. Un disegno che, una volta affermatosi, finirà con il dividere i cittadini tra coloro che saranno in grado di “comprare” il proprio diritto alla salute e altri che, non essendo in condizione di poterlo fare, si dovranno “accontentare” di una sanità pubblica sempre più dequalificata e residuale. Un indirizzo chiaramente in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione per il quale la salute è “fondamentale diritto dell’individuo” ed è “interesse della collettività”.[2] La salute è forse il termometro che più fedelmente registra le ingiustizie sociali. Per questo la Costituzione, consegnandoci un’idea di società giusta, proclama la salute non solo come diritto individuale, ma anche come interesse generale. E non è certo un caso che i presupposti della legge istitutiva del SSN[3], si siano formati negli anni ’60 e ’70. Un periodo spesso citato, dai suoi detrattori, solo per la presenza del terrorismo, mentre dovrebbe essere ricordato come il tempo delle grandi riforme che hanno cambiato la vita di milioni di persone sia nel campo dei diritti sociali che civili, come il lavoro, la previdenza, la salute, l’istruzione, la famiglia, il divorzio e l’aborto.
Quando sinistra e sindacato scoprirono la cultura della salute
Il dibattito sullo stato della salute degli italiani prende il via nel 1959 con la pubblicazione del pamphlet “La salute è malata”, a firma di Giovanni Berlinguer e Severino Delogu, che inaugura un filone saggistico di denuncia della disastrosa condizione sanitaria del Paese.[4] Va rilevato che la riforma del SSN si realizza quando in Europa era già iniziata la fase di riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberista e, sui contenuti del welfare, il modello socialdemocratico stava entrando in un lungo processo di revisione. Una peculiarità italiana dovuta all’onda lunga del biennio 1968-‘69 e al legame instauratosi, nei primi anni ‘70, tra le lotte operaie e studentesche e il nuovo movimento di rinnovamento della medicina. Un ruolo decisivo ebbero le riflessioni maturate in seno ai due principali partiti della sinistra, Pci e Psi, e al sindacato. Nel 1958 fu la CGIL ad approvare un documento nel quale, per la prima volta, si chiedeva l’istituzione di un Servizio sanitario nazionale a fronte della mancanza in Italia di “una politica sociale efficace e di una moderna politica sanitaria”.[5] In questo percorso emersero significative personalità di raccordo tra l’ambito medico-accademico, il mondo del lavoro e della fabbrica e lo spazio del confronto politico. Tra queste spiccarono alcune figure di studiosi, medici, biologi come Giovanni Berlinguer, Giulio Maccacaro, Alessandro Seppilli e Ivar Oddone. Ciò che si produsse in quella stagione fu una crescente convergenza culturale e politica volta a riformulare in termini universalistici e pubblici il sistema sanitario. Numerose iniziative si susseguirono sui temi della salute negli ambienti di lavoro e a livello territoriale, secondo un percorso che nel tempo si sarebbe articolato lungo la traiettoria salute-fabbrica-territorio. Nel 1961 si ebbe la prima inchiesta relativa alla nocività sul luogo di lavoro, condotta presso l’impianto chimico Farmitalia di Settimo Torinese, patrocinata dalla Camera del Lavoro di Torino e coordinata da Ivar Oddone. La Commissione all’uopo costituita, riuniva sindacalisti, lavoratori, medici, assistenti sociali. Una pratica che si diffuse e portò a una nuova consapevolezza operaia sui temi della salute. Un elemento che finì per condurre larga parte del mondo sindacale ad abbandonare la linea, sin lì adottata, della “monetizzazione della salute” per arrivare a sostenere i principi espressi nel celebre slogan “la salute non si vende”[6] che accompagnò nell’autunno caldo la nuova cultura operaia e sindacale della lotta contro la nocività in fabbrica. Lo testimonia, nel ’69, la pubblicazione della dispensa “L’Ambiente di lavoro”, edita dalla Fiom e frutto della ricerca condotta dalla Commissione medica della Camera del lavoro di Torino. Nel 1965, per iniziativa di Gastone Marri, si istituì presso l’INCA-CGIL il Centro ricerche e documentazione rischi e danni da lavoro, insieme alla rivista Rassegna di medicina dei lavoratori. In questa iniziativa fu utilizzato il metodo basato sulla “non delega” e sulla “soggettività operaia” che portava i lavoratori, attraverso le loro esperienze, a contribuire in modo originale alle conoscenze dei medici con una valutazione delle conseguenze dell’ambiente di lavoro sulla loro salute analoga a un’indagine epidemiologica.[7] Il CDR svolse un ruolo fondamentale di diffusione e coordinamento delle esperienze e delle lotte operaie e sindacali per il controllo dell’ambiente di lavoro e contro la nocività. Tra il 1970 e il ’73 le lotte sull’ambiente e l’organizzazione del lavoro si diffusero e all’assemblea di Rimini del marzo 1972, indetta da Cgil, Cisl, Uil proprio sulla salute nelle fabbriche, vennero annunciati oltre 3 mila accordi aziendali. E nei contratti nazionali di lavoro, tra il 1969 e il 1974, furono inseriti nuovi diritti per il controllo dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e l’organizzazione del lavoro. Intanto sul versante legislativo uno storico risultato veniva sancito nello Statuto dei lavoratori (L/n. 300/’70, art. 9) con il riconoscimento del diritto dei lavoratori a partecipare alla prevenzione in azienda. Dalle fabbriche il movimento si estese al territorio con la formazione di Centri di lotta contro la nocività che dovevano contribuire, insieme ai Consigli sindacali di zona, al collegamento delle iniziative tra le fabbriche e l’azione per realizzare la riforma sanitaria. La riforma entrò a far parte dell’agenda politica per iniziativa del ministro della Sanità, il socialista Mariotti, che la propone nel 1967 e la ripropone nel ‘70. Nel frattempo, nel febbraio 1968, diventa legge la riforma degli Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera (L/n. 132) che sancì l’universalità del diritto al ricovero. Ad ostacolare il percorso della riforma scesero in campo gli interessi di alcune grandi mutue (in primis Federmutue, espressione degli interessi dei coltivatori diretti, legata alla DC), dell’industria farmaceutica e degli stessi medici. La riforma, infine, venne approvata sul finire del 1978, sotto il dicastero di Tina Anselmi, con molti anni di ritardo dalla sua elaborazione, ma frutto di progetti di cambiamento, mobilitazioni sociali e concrete esperienze capaci di esprimere un potere dal basso, nei luoghi di lavoro e nel territorio. E i cui principi fondamentali, in attuazione dell’art. 32 della Costituzione, furono l’universalità, l’uguaglianza e l’equità.
Per salvare la sanità pubblica tornare a dare valore alla Prevenzione
I migliori principi, per restare tali, hanno, però, bisogno di essere adeguatamente supportati e non svuotati con i “tagli” e le degenerazioni. E occorrerà avere il coraggio politico di riflettere seriamente sull’indirizzo ideologico che negli ultimi due decenni ha indotto i governi a ridurre progressivamente il ruolo del pubblico nella sanità. Mettendo, soprattutto, in discussione la concezione “aziendale” e speculativa della sanità, introdotta nel 1995 con l’adozione del DGR (Diagnosis Relatid Groups). Il sistema che stabilisce un prezzo, una tariffa per le prestazioni sanitarie che le regioni rimborsano agli ospedali.[8] Soldi pubblici in grandi quantità finiti impropriamente alla sanità privata anziché investiti nel sistema socio-sanitario del territorio. Un indirizzo politico che ha soprattutto penalizzato la medicina territoriale. Ma la prevenzione nell’attuale contesto non “rende” e gli ospedali per reggere economicamente devono realizzare un certo numero di “prestazioni”, di interventi chirurgici. Un sistema che di fatto ha messo in crisi anche l’ospedale pubblico. Così come occorrerà accantonare ogni ipotesi di autonomia differenziata regionale; i problemi sono comuni a tutte le realtà e vanno affrontati a livello nazionale. Quando, oggi, si invoca la necessità di rafforzare la medicina del territorio, la rete dei distretti, potenziare l’assistenza domiciliare, valorizzare il ruolo e ampliare i compiti dei medici di base, investire in risorse umane, strutture, servizi più vicini alla cittadinanza, sarà necessario che, analogamente, gli ospedali pubblici tornino ad essere valutati e compensati in base alle vere esigenze epidemiologiche del territorio. Riassegnando alla prevenzione un ruolo di guida e di indirizzo. Organizzando e finanziando i Dipartimenti in maniera adeguata. Ma per riorientare e sanare il SSN ancorandolo ai suoi originari principi, sconfiggendo i propositi revisionisti dell’attuale governo, tornerebbe quanto mai utile quella mobilitazione dal basso degli anni ‘60-’70 e la valorizzazione di professionalità: docenti, medici, biologi che, anche negli ultimi anni, hanno continuato ad operare, credere, difendere e valorizzare la sanità pubblica.
Renzo Penna
Alessandria, 20 giugno 2023
[1] Roberta Lisi: “Sanità in perenne emergenza”. Roma, 16 maggio 2023 – Collettiva.it
[2] Gustavo Zagrebelsky: “La vita, prima di tutto”. Da ‘La Repubblica’, 29 maggio 2020
[3] Legge n. 833 del 23 dicembre 1978
[4] Chiara Giorgi e Ilaria Pavan: “Storia dello Stato sociale in Italia”. Il Mulino, 2021
[5] “Rassegna Sindacale”, n.3, 1958
[6] “Quaderni di Rassegna sindacale”, n.28, 1971
[7] Diego Alhaique: “Quando il sindacato scoprì la cultura della salute”. Collettiva.it 20 dicembre 2019
[8] Riccardo Iacona: “Mai più eroi in corsia”. Piemme, 2020. Intervista a Giuseppe Remussi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, pag. 2018