Keynes blog 23 gennaio 2017 – In “Economisti che sbagliano- Le radici culturali della crisi” Alessandro Roncaglia affermava nel 2010 che la crisi economica che stiamo ancora vivendo non è comparabile (come si vorrebbe far credere) a un evento iscritto nell’ “ordine naturale delle cose”, ma il prodotto di valutazioni e di scelte di politica economica guidate da una precisa “visione del mondo” che – come sottolineava lo stesso Schumpeter – “costituisce l’ineliminabile retroterra preanalitico sul quale edificare le costruzioni teoriche”. Con la recente uscita di “Breve storia del pensiero economico” (Laterza, 2016) questo messaggio ne esce rafforzato: Roncaglia rilancia la riflessione sviluppata ne “La ricchezza delle idee” (2001) sul valore metodologico che sottende lo studio dell’economia politica e sull’impatto che le diverse “visioni del mondo” possono avere sul corso degli eventi economici. Riportiamo qui una presentazione del libro a cura dello stesso l’Autore presso l’Accademia nazionale dei Lincei.
Questo libro, uscito tre mesi fa, copre sostanzialmente lo stesso campo del mio precedente lavoro, La ricchezza delle idee, pubblicato nel 2001, cioè la storia del pensiero economico dalle origini ai giorni nostri. In sedici anni, La ricchezza delle idee ha avuto varie ristampe in italiano e in inglese, traduzioni in cinese e in spagnolo, e ha circolato ampiamente in edizioni elettroniche pirata scaricabili gratuitamente dal web.
Ora, piuttosto che preparare una nuova edizione aggiornata della Ricchezza delle idee, ho preferito scrivere un testo nuovo, aggiornato e drasticamente ridotto nelle dimensioni – circa la metà – nella speranza di far emergere meglio quello che considero il contributo principale del libro, l’interpretazione delle linee di sviluppo della ricerca economica.
Su questo tema lavoro ormai da cinquant’anni, e nel corso del tempo ho pubblicato vari lavori su alcuni autori e problemi, da Petty a Torrens, da Smith e Ricardo alla teoria della probabilità di Keynes. Nella Ricchezza delle idee ho aggiunto materiale su punti specifici, ad esempio la soluzione ante litteram di Abelardo al problema del contrasto tra olismo e individualismo metodologico, l’influenza di Thomas Mann sulla teoria del ciclo vitale delle imprese di Marshall, la contrapposizione tra lo scetticismo di Galiani e lo spirito di sistema dei fisiocrati, o i limiti del liberismo di Mandeville.
Può sembrare meno originale l’interpretazione complessiva della storia del pensiero economico. In effetti riprendo come base la dicotomia proposta da Sraffa tra impostazione degli economisti classici e impostazione marginalista, basata sulla contrapposizione tra due immagini dell’economia: il flusso circolare (o meglio a spirale, come suggerito da Sylos Labini) di produzione, distribuzione, consumo e accumulazione per gli economisti classici; la strada a senso unico che porta dalle risorse scarse – i cosiddetti fattori di produzione – al soddisfacimento dei bisogni e dei desideri dei soggetti economici per i marginalisti. Questa base ormai tradizionale, anche se respinta dagli storici mainstream, lascia tuttavia varie questioni aperte. Ne accenno alcune.
In primo luogo, è importante considerare esplicitamente i concetti di base: quella che Schumpeter chiamava la fase di concettualizzazione della teoria economica, che precede la costruzione dei modelli e l’analisi empirica. Questi concetti assumono significati profondamente diversi non solo tra classici e marginalisti, ma anche all’interno dei due filoni. Per fare un solo esempio, il concetto di mercato nella teoria marginalista corrisponde a un punto nel tempo e nello spazio – la fiera medievale, la Borsa valori moderna – in cui si incontrano domanda e offerta; mentre per i classici il mercato è una rete di relazioni ripetitive, che in un’economia basata sulla divisione del lavoro permette a ogni settore dell’economia e a ogni impresa di procurarsi periodo dopo periodo i mezzi di produzione utilizzati. Ma poi il concetto di mercato di Marshall è diverso da quello di Walras: il primo riprende il caso della Borsa valori anglosassone, il continuous dealing ormai dominante nelle borse di tutto il mondo; il secondo quello delle Borse continentali, la contrattazione per chiamata ormai caduta in desuetudine.
In secondo luogo, le differenze tra le varie teorie non riguardano solo la teoria del valore, su cui tradizionalmente si è concentrata l’attenzione, ma tutto il sistema di concetti, ad esempio le motivazioni dell’agente economico, che nella tradizione classica hanno natura multidimensionale – le passioni e gli interessi – per cui ad esempio la nozione smithiana di interesse personale è molto più complessa del semplice egoismo, mentre nella tradizione marginalista queste motivazioni vengono ridotte alla massimizzazione dell’utilità, o comunque di una grandezza monodimensionale. Questo mi porta a rivalutare il ruolo di Smith rispetto a Ricardo nella costruzione del sistema teorico classico, con una differenza importante rispetto alla tradizione sraffiana.
In terzo luogo, come ho già accennato, vi sono differenze importanti all’interno dei due filoni principali, ad esempio tra la scuola austriaca di Menger, quella inglese di Jevons e quella francese di Walras; e vi sono autori – come Keynes o Schumpeter – che sono stati considerati atipici rispetto alla dicotomia sraffiana.
La ricostruzione di analogie e differenze tra le varie teorie è ovviamente in qualche misura diversa da quella proposta da altri storici del pensiero economico: ad esempio, la mia interpretazione di Schumpeter, che lo colloca nella tradizione marginalista, è diversa da quella che ne aveva dato Sylos Labini, che di Schumpeter era stato allievo e che ne metteva in rilievo i legami con l’impostazione classica.
Infine, un campo largamente inesplorato è il tentativo di inquadrare il dibattito economico più recente, dal secondo dopoguerra ad oggi. Questo è stato l’aspetto su cui ho lavorato di più, nel passaggio dalla Ricchezza delle idee a questo libro, e su cui sto lavorando ancora, con la speranza di arrivare a un nuovo libro.
Ho chiamato questo periodo l’età della disgregazione: gli economisti, ormai divisi per aree e sottoaree e per impostazioni di ricerca, sembrano avere perso di vista i collegamenti con l’insieme della nostra disciplina; cerco di mostrare che questo fatto ha avuto molto spesso l’effetto di un utilizzo acritico della teoria marginalista di base, con effetti deleteri non solo per il lavoro teorico ma anche per il dibattito di politica economica che perfino di fronte alla crisi non è riuscito a rimettere in discussione le proprie fondamenta.
Alessandro Roncaglia