di Renzo Penna – Questa volta il compito dell’Istituto Cattaneo nel calcolare i flussi dei voti riguardanti le Elezioni Europee 2019 non è risultato particolarmente gravoso. La Lega “pigliatutto” di Salvini ha conquistato voti dall’alleato di governo, dai partiti di centrodestra, in particolare Forza Italia (10%), e (qualche volta) anche dal Pd; Il M5S ha “traghettato” in maniera consistente voti verso la Lega (17%) ed è stato fortemente penalizzato dall’astensione; Il Pd ha limitato le perdite, ma non attratto nuovi elettori.
La Lega, che nei confronti delle elezioni politiche dello scorso anno ha raddoppiato la sua percentuale passando dal 17,4 al 34,3%, vede crescere i propri consensi attingendo sia dalla generazione dei “Baby Boomers” (persone nate dal 1946 al 1964), che dalla generazione “Z” (persone maggiorenni nate dopo il 1997), rispettivamente +19 e +21%. Analogamente il M5S li vede ridursi del -11 e del -25%. Da questi due gruppi di votanti il PD raccoglie il 25% (+1%) e il 23% (+9%). Per quanto riguarda i flussi delle categorie sociali e considerando solo le tre principali forze politiche, circa la metà degli operai, il 48%, vota la Lega (+29%), il 19% sceglie il M5S (-20%), e solo il 13% il PD (-1%). Anche i cittadini più poveri premiano il partito di Salvini con il 47% (+18%), scelgono con il 20% il M5S (-17%) e con il 9% il PD (+6%). Più equilibrata la distribuzione del voto del ceto medio: il 35% vota la Lega (+15%), il 20% il M5S (-14%), il 18% il PD (+2%).
Un andamento confermato anche dai risultati delle Elezioni regionali in Piemonte dove la coalizione di centrosinistra ottiene, con il 33,3%, il peggiore risultato della storia in questo tipo di competizione. Mentre il centrodestra raggiunge il 53,5% dei consensi. Il M5S, con il 12,6%, registra un tracollo (-7,7%). Nei confronti delle Regionale di cinque anni fa il PD passa dal 36,2 al 22,4% (-13,8), La Lega, ancora Nord, dal 7,3 al 37,1% (+29,8%) e Forza Italia dal 15,6 all’8,4% (-7,2%).
Di fronte a questi risultati che vedono la Lega, diventato partito nazionale, sopra il 40% in tutte le regioni del Nord e con oltre il 30 nel resto del Paese, con la sola eccezione di Sud e Isole dove si attesta al 22,1%, ci si può, da parte del centrosinistra, anche consolare ritenendo che, per la bassa partecipazione al voto e la nuova propensione degli italiani a mutare con frequenza il proprio orientamento elettorale, si tratti di un successo legato alle condizioni del momento e destinato a non durare. Come, del resto, è capitato lo scorso anno al Pd di Matteo Renzi e, in queste elezioni, al M5S di Luigi Di Maio.
Al contrario ritengo che a supporto del voto a Salvini stiano giocando elementi strutturali, interni e internazionali, tutt’altro che improvvisati e di breve periodo. La lega è ormai l’unico partito italiano dotato, specie al Nord, di radicamento territoriale e può contare su un numero significativo di amministratori locali. Le conseguenze negative, poi, della mondializzazione nei confronti dell’occidente: concentrazione della ricchezza in poche mani, aumento delle diseguaglianze e della povertà, incertezze e preoccupazioni sul futuro, stanno gonfiando le vele delle destre che colgono consensi tra i lavoratori e un ceto medio preoccupato e impoverito. Si alimentano strumentalmente le paure per l’immigrato, lo straniero, il diverso, promettendo di rinsaldare i confini, alzare barriere, chiudere, illusoriamente, porti e valichi. E, soprattutto, si promette di tutelare “prima” gli italiani, difendendo l’identità, la cultura e, fin’anche, la religione dai nuovi “nemici”. Con la riproposizione di una sovranità nazionale minacciata, una ricetta che, sovente, invece di dare soluzione ai problemi li aggrava, ma, in assenza di valide alternative, viene accolta e sostenuta proprio dalla parte più debole e fragile della popolazione.
Come ha dimostrato negli Stati Uniti l’elezione alla presidenza del “populista” Donald Trump, il campione dei muri e dei dazi che non sopporta l’Unione Europea. Considerato, non a caso, dal capo della Lega come un modello da imitare, al pari di Jair Bolsonaro in Brasile, il quale aggiunge al populismo la xenofobia, o il leader ungherese Viktor Orban che teorizza l’ossimoro della democrazia “illiberale”.
Uno “storytelling”, quello offerto dai partiti populisti-sovranisti e dalle destre, che risulta persuasivo e convincente anche perché i partiti socialisti, socialdemocratici, di centrosinistra, accogliendo e perseguendo l’indirizzo politico-economico del neoliberismo hanno, quando sono stati al governo, ridimensionato la spesa pubblica, tagliato il welfare, privatizzato settori e servizi strategici dello Stato e ridotto i diritti e le tutele del lavoro. Accettando, o subendo, di dare priorità alla concorrenza dei prezzi al posto dell’obbiettivo della piena e buona occupazione e del mantenimento dell’universalità dello Stato Sociale. Facendo si che il loro racconto a chi è precario, disoccupato o abita a Torre Maura o a Casal Bruciato, così come nei quartieri depressi di Londra, Manchester o Birmingham, non arrivi, risulti estraneo e per nulla convincente.
Se per la sinistra e i partiti socialisti in alcune realtà dell’Europa – Spagna, Portogallo, Inghilterra, Danimarca – si intravede, con diverse ricette, una certa ripresa, la situazione italiana si presenta problematica e difficilmente in grado di competere con le attuali formazioni di destra-centro nel caso di elezioni politiche anticipate. Anche per questo si comprendono con difficoltà le ragioni delle ripetute e invocate richieste di elezioni da parte dell’attuale dirigenza del Partito Democratico. Per non parlare delle formazioni alla sinistra del Pd che sono andate recentemente incontro ad un, prevedibile e perciò ancora più colpevole, disastro elettorale.
L’attuale centrosinistra italiano avrebbe bisogno, per tornare ad essere ascoltato e accettato dalle classi popolari, dai lavoratori e dai giovani, di ricostruire la propria identità politica, etica, culturale e, di conseguenza, programmatica. Una identità forte che non ricerca la soluzione nella visione personale e improvvisata di un Leader, ma la costruisce con un lavoro collettivo, mettendo insieme e contando sull’impegno delle persone. Un’identità socialista finalmente affermata che sappia fare della libertà e dell’uguaglianza i riferimenti della sua politica. Un lavoro di lunga lena che non si improvvisa e a cui affidare il compito di costruire una nuova e più credibile classe dirigente.
Così facendo forse non assisteremmo al paradossale dibattito che attualmente porta noti esponenti del Pd a ricercare la soluzione in una ipotetica conquista del “centro moderato” e a considerare finito lo spazio alla propria sinistra. Come se il Partito Democratico, votato in prevalenza nelle aree centrali delle grandi città e fortemente penalizzato nelle periferie, non sia già oggi il riferimento principale dei ceti moderati, con livelli di istruzione più elevati e una condizione economica rassicurante. Quasi che una sinistra socialista, degna di questo nome, non ritenesse suo fondamentale compito quello di tornare a discutere, farsi comprendere e cercare di rappresentare le istanze dei milioni di cittadini delle classi popolari, del lavoro dipendente, dei meno abbienti che oggi votano i partiti di destra o, sfiduciati, si rifugiano nel non voto.
Un mondo del lavoro che in questi mesi sembra, però, aver ritrovato un riferimento solido nel Movimento sindacale, ritornato a credere e a praticare l’unità. E che con la mobilitazione degli edili, dei pensionati, del pubblico impiego e quella programmata per il 14 giugno dai metalmeccanici, rappresenta, oggi, la controparte più credibile nei confronti del governo.
Alessandria, 9 giugno 2019