Renzo Penna – 12 febbraio 2019. “Ritengo che uno degli aspetti più importanti della straordinaria manifestazione sindacale di sabato 9 febbraio a Roma sia stato il ritorno, dopo molti anni, all’unità d’azione di Cgil, Cisl e Uil. Un’unità del mondo del lavoro tanto più necessaria dopo che, nell’ultimo decennio, il sindacato ha duramente pagato lo scotto della crisi. Un evento di rilievo non solo per le tre Confederazioni, ma per il futuro della politica italiana e, in particolare, della sinistra che per ritrovarsi deve ripartire dalla centralità del lavoro, dalla sua dignità e dai diritti. Con una severa, ma indispensabile autocritica nei confronti delle idee neoliberiste, monetariste che, ad iniziare dagli anni ’90, sono state condivise in Europa anche dai principali partiti socialisti e socialdemocratici. Un’ideologia incentrata sul mercato senza regole, sul principio della concorrenza e della stabilità dei prezzi, il lavoro precario e sottopagato, la privatizzazione delle imprese pubbliche, il ridimensionamento dello Stato sociale universalistico e la riduzione del potere sindacale.
E’, inoltre, significativo che la nuova segreteria della Cgil abbia inaugurato il suo mandato con un’iniziativa unitaria e Maurizio Landini abbia posto al centro della sua elezione a Segretario Generale, come punto fondamentale dell’impegno Confederale, la rivendicazione e il sostegno in Italia, qui ed ora, ad una politica di investimenti pubblici e privati, unica in grado di far ripartire lo sviluppo, creare il lavoro e combattere la disoccupazione.
Siccome alcuni, che sostengono l’attuale maggioranza Lega-M5S, polemicamente domandano dov’era il sindacato in questi ultimi anni, mentre i governi che si succedevano approvavano leggi sul lavoro e il sociale regressive, mi piace ricordare – anche per avervi direttamente partecipato – che nell’ottobre del 2014 la Cgil di Susanna Camusso organizzò una grande manifestazione nazionale, conclusa anch’essa in piazza San Giovanni, per criticare le politiche del governo Renzi sul Jobs Act, le modifiche allo Statuto dei lavoratori (articolo 18, demansionamento, controllo a distanza, etc.) e i contenuti della legge di stabilità. Un’iniziativa coraggiosa, assunta mentre il presidente del Consiglio, nonché Segretario del PD, godeva, dopo il risultato delle elezioni Europee, di un notevole consenso. Una decisione che seppe riaffermare e garantire l’autonomia politica e programmatica della Cgil. Purtroppo quella scelta, non essendo condivisa da Cisl e Uil, non poté avere un seguito. E sulle ragioni di quella mancata condivisione si potrebbe a lungo disquisire, ma, oggi, penso sia più produttivo guardare avanti e affrontare le nuove difficoltà.
L’Italia si trova nuovamente con l’economia in recessione. Dopo oltre un decennio il reddito nazionale è diminuito del cinque per cento e la quota che va al lavoro si è ridotta a meno del 50% (rispetto al 60-65% del passato), la disoccupazione è aumentata dal 6 a più del 10%, con punte del 20 per cento nel Mezzogiorno, mentre quella giovanile si trova stabilmente sopra al 30 per cento, le retribuzioni e i salari dei lavoratori italiani sono da decenni stagnanti e inferiori non solo a quelli di Germania e Francia, ma anche della Spagna.
Non serve “più Europa”, ma una diversa e più giusta Europa
Le cause di questo insieme di cose che sta determinando il profondo malessere sociale e politico che vive, non solo, il nostro Paese sono da ricercare nella costruzione dell’Unione europea, la quale, oltre ad assumere come proprio il modello di gestione liberista dell’economia, ha subito l’imposizione della Germania, volta all’intransigente rispetto di una rigorosa politica di bilancio. Una politica di austerity che, in una fase caratterizzata dalla riduzione dei consumi e degli investimenti ha, paradossalmente, imposto di ridurre la spesa pubblica. E mentre la stabilità finanziaria nell’Unione è garantita da trattati internazionali che prevedono rigorosi controlli e minacciate punizioni, gli obiettivi di sviluppo, la garanzia dell’occupazione, le tutele dei lavoratori, la giustizia sociale e le compatibilità ambientali sono genericamente auspicati o totalmente assenti. Questo è ciò che oggi non va nel progetto dell’Unione, che fa vivere la costruzione europea come ostile, nemica a grandi masse di cittadini e finisce con il favorire la crescita dei populismi. Allora, se la si vuole davvero salvare, non serve chiedere genericamente “più Europa”, ma impegnarsi nella costruzione di una mobilitazione europea volta a cambiare l’indirizzo economico e sociale dell’Unione ponendo al centro la piena occupazione, la lotta alle diseguaglianze, alle povertà, la giustizia sociale. E sostenendo l’iniziativa dei sindacati europei che venerdì 4 aprile manifesteranno a Bruxelles contro le politiche di austerità e di rigore, per rivendicare un grande piano straordinario di investimenti, per la ripresa dell’industria e rispondere al dramma della disoccupazione, soprattutto, giovanile e femminile.
In genere oggi si ritiene che ‘quota cento’ per accedere alla pensione e il ‘reddito di cittadinanza’ possono essere strumenti di ripresa della domanda dei consumi, ma sono certamente insufficienti per garantire il rilancio dell’economia e creare nuovi posti di lavoro. Per questo occorre un piano straordinario di investimenti pubblici e una politica a sostegno di quelli privati. Investimenti che nell’attuale quadro recessivo necessitano una maggiore spesa pubblica in disavanzo e, comunque, da non considerare nei parametri dell’Unione, anche perché sarà recuperata dal conseguente aumento del prodotto realizzato, come raccomandano da tempo numerosi e, sin qui, inascoltati economisti.
Se la stentata crescita economica di questi anni ha riguardato anche le altre nazioni l’Italia ha, più di altri, subito un profondo processo di deindustrializzazione, di declino industriale con la scomparsa o il forte ridimensionamento di interi settori strategici. E questo per limiti propri come la vocazione rivolta più alla rendita che agli investimenti delle famiglie storiche del capitalismo, o la composizione delle aziende italiane che vede una percentuale nettamente superiore agli altri grandi paesi costituita da realtà di piccole o medie dimensioni, per loro natura incapaci di investire in ricerca e sviluppo su larga scala e reggere alla concorrenza internazionale per la qualità dei loro prodotti, anziché la compressione del costo del lavoro.
Il Sindacato senza la sinistra
A chi oggi rileva come il sindacato, di fronte all’aumento della disoccupazione e dei lavori precari, alla riduzione dei salari e della spesa sociale, si sia indebolito e abbia pagato un prezzo nella crisi va ricordato che nei confronti del Movimento sindacale, in particolare, da Berlusconi e dai suoi governi è stato portato avanti – come ci ha insegnato Luciano Gallino – un duplice insidioso attacco.
Da un lato etichettandolo come residuo premoderno, come una struttura in ritardo sui tempi e di ostacolo alla modernizzazione del paese. E chi lo difende o ancora vi crede viene dipinto e considerato un nemico della libertà. Dall’altro sostenendo che il nuovo che avanza punta tutto sulla individualizzazione dei rapporti di lavoro perché sul mercato del lavoro l’individuo, il lavoratore deve essere e sentirsi solo. Libero con la sua professionalità, la sua voglia di fare e la sua disponibilità ad accettare qualsiasi lavoro e salario gli venga offerto. Per non assegnare, però, tutte le responsabilità al “Cavaliere” è giusto ricordare come l’ideologia della modernità abbia fatto breccia anche in una parte non marginale della sinistra.
Ma non è stato l’unico problema. In Italia come in Europa al sindacato – come ha di recente scritto Antonio Lettieri – è venuta, progressivamente, a mancare la sponda politica dei partiti della sinistra. E se ciò ha reso più semplice l’esercizio dell’autonomia, nel contempo ha aumentato la solitudine del sindacato. Lo sviluppo e la crescita della sinistra europea è, infatti, storicamente avvenuto assieme con l’affermarsi dei sindacati e del ruolo dei lavoratori. In Gran Bretagna il Partito laburista e le Trade Unions hanno avuto un secolare e stretto rapporto, solo di recente recuperato sotto la guida di Geremy Corbin. In Germania per un lungo periodo è stata del tutto naturale la convergenza fra il Partito socialdemocratico e il DGB, uno dei più potenti sindacati unici europei. Poi, sul finire degli anni ’90, il rapporto di vicinanza si è sciolto. Ha iniziato in Inghilterra Tony Blair a prendere le distanze con la Terza via del New Labour. In Germania Gerhard Schröder lo ha seguito con la sequenza delle Leggi Hartz che dal 2003 al 2006 hanno mutato alcuni aspetti fondamentali del mercato del lavoro. Nel Partito socialista francese che conservava ancora con Jospin e Martine Aubry l’impronta della vecchia tradizione di sinistra, il compito di cancellarla è stato assunto nell’ultimo decennio da François Hollande in nome dell’austerità e delle riforme strutturali. Infine da noi, Matteo Renzi, con una politica non indenne da pulsioni populiste si è iscritto alla stessa linea portando in dono agli imprenditori lo scalpo dell’articolo 18 dello ‘Statuto dei lavoratori’, insieme alla possibilità di licenziare senza giusta causa e giustificato motivo.
In questa nuova e complessa situazione tocca adesso a Landini, al nuovo gruppo dirigente della Cgil e agli amici e compagni delle altre organizzazioni lavorare per cambiare e rinnovare. Tornando ad essere un punto di riferimento credibile per le lavoratrici e i lavoratori, recuperando un rapporto di fiducia e il protagonismo delle nuove generazioni, dei tanti lavoratori precari, sfruttati, sottopagati rimasti, sin qui, senza rappresentanza. Attraverso una politica che rivendica gli investimenti, un lavoro con i diritti, difende le conquiste dello Stato sociale e il ruolo fondamentale del pubblico, da sempre oggetto preferito dell’attacco neoliberista.
La conclusione positiva del Congresso Cgil e la rinnovata iniziativa unitaria delle tre Confederazioni, rappresentata a Roma con nuovo entusiasmo e un grande consenso popolare, rendono l’impresa possibile.
Alessandria 12 febbraio 2019