DALLE POLITICHE KEYNESIANE AL NEOLIBERISMO*
Lo shock petrolifero e la fine di Bretton Woods
Tra gli accadimenti internazionali dei primi anni ’70 tutti ricordiamo, per i suoi effetti sulla mobilità delle nostre città, lo shock petrolifero causato, negli ultimi mesi del ’73, dal quadruplicamento del prezzo della benzina deciso dai paesi produttori dell’Opec come ritorsione nei confronti dei paesi occidentali per il sostegno fornito ad Israele nella quarta guerra arabo-israeliana. Conflitto iniziata da egiziani e siriani il 6 ottobre 1973 durante la festività religiosa ebraica dello Yom Kippur.
Dai Paesi produttori si decretò l’embargo nei confronti dell’occidente riducendo progressivamente la produzione di greggio. Come conseguenza l’economia delle nazioni occidentali dovette fare i conti con un aumento improvviso e sostenuto del prezzo della sua principale materia energetica. Lo sviluppo economico del dopoguerra, infatti, era divenuto sempre più dipendente dal petrolio come fonte privilegiata di energia per l’industria, i trasporti, il riscaldamento.
Una decisione non meno importante, anche se forse meno ricordata e a conoscenza dei cittadini, era stata presa due anni prima, il 15 agosto 1971, quando il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon aveva annunciato l’abbandono del gold standard, la convertibilità del dollaro in oro, il fondamento del sistema dei cambi fissi costruito a Bretton Woods nel luglio del 1944 tra i principali Paesi industrializzati del mondo occidentale. Ogni legame tra dollaro e monete estere veniva così definitivamente reciso e lo standard aureo sostituito dal sistema di cambi flessibili.
Le necessità finanziarie della guerra in Vietnam, iniziata dal 1965, avevano reso impossibile per gli USA mantenere in funzione questo sistema. Guerra che suscitò fortissime proteste pacifiste in tutto il mondo e, soprattutto nella società nordamericana, la reazione dei giovani nelle università, mentre il governo statunitense era accusato di politica imperialistica. Una scelta, quella di Nixon, che, insieme all’inflazione causata dall’aumento del petrolio, determinò una fase di instabilità economica e finanziaria con la contrazione dei consumi e l’aumento di tensioni sociali.
Il contesto segnato dalla crisi del sistema di Bretton Woods e dalla radicalizzazione dei Paesi di nuova indipendenza portò la prima assemblea delle Nazioni Unite, il 1° maggio 1974, interamente dedicata a questioni economiche, a definire la dichiarazione di un “Nuovo ordine economico internazionale”. Un nuovo ordine che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto colmare il divario tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo e sottosviluppati. Nel mondo occidentale stava, però, prevalendo una scelta economica neo-liberista caldeggiata dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Tale impostazione rifuggiva da forme solidaristiche o da correttivi di tipo dirigistico a favore dei più deboli e propugnava come rimedio alla povertà e all’arretratezza del Terzo Mondo il ripristino integrale del libero mercato e dell’iniziativa privata.
La “Commissione Trilaterale”
Siamo negli anni nei quali si determina il passaggio dalle politiche keynesiane alla dottrina del neoliberismo. Finisce l’intervento dello Stato in funzione anticiclica o come stimolo alla crescita e viene messa in discussione l’intera architettura delle politiche economiche e industriali del secondo dopoguerra. Con la riduzione della presenza statale in ambito economico si realizza un radicale mutamento della filosofia complessiva che aveva le sue basi nell’intervento pubblico e nell’obiettivo della piena occupazione. Come data di inizio del processo di trasformazione della società secondo i dettami della democrazia liberista si può indicare il 1973, l’anno di formazione della Commissione Trilaterale che preannuncia la fine del “compromesso neokeynesiano”. La “Trilaterale”, fondata dal presidente della “Chase Manhattan Bank” David Rochefeller, insieme ad altri dirigenti tra cui Henry Kissinger, ha rappresentato il cervello analitico del neoliberismo ai cui studiosi (europei, americani, giapponesi) si deve la tesi della insostenibilità economica e politica della democrazia a contenuto sociale. Il ’73 è anche l’anno del colpo di Stato in Cile e del primo esperimento locale di pratica di tale dottrina.[1]
Nel 1975 i tre studiosi incaricati dalla Commissione Trilaterale (Michel Crozier, Samuel Huntington, Joji Watanuki) pubblicano il pamphlet: “La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie”, con l’intenzione di rispondere ai movimenti che nel 1967-‘68 si erano battuti per democrazie dal basso, più estese e contro la guerra in Vietnam, proteste che avevano molto preoccupato le classi dirigenti occidentali. Lo studio osservava la condizione politica degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone, affermando che i problemi di governabilità: “nascono da un eccesso di democrazia” e sostenendo “il ripristino del prestigio e dell’autorità delle istituzioni del governo centrale” attraverso l’“autocontrollo democratico”, cioè la rinuncia, da parte dei cittadini elettori, a tentare di influire attraverso manifestazioni, petizioni o pressioni di altro tipo, sull’operato degli eletti. Questo report è stato un punto di partenza per tutti gli studi successivi che mettono in evidenza una supposta crisi contemporanea delle democrazie da risolvere con il predominio dei tecnici e degli esperti nella vita sociale, politica ed economica di un paese. Sono i presupposti della cosiddetta “democrazia decidente”, dove assumono un ruolo preminente gli Esecutivi, si ridimensionano i poteri dei Parlamento e le stesse Costituzioni si devono adattare alle nuove esigenze. L’edizione italiana, che venne curata nel 1977 e pubblicata con la prefazione di Gianni Agnelli. Per la storia del nostro Paese va altresì ricordato che il “Piano di rinascita democratica” della P2 di Licio Gelli fu redatto subito dopo il pamphlet sulla “Crisi della democrazia”.[2] In anni più vicini (2010-2011) il senatore a vita Mario Monti è stato il presidente del gruppo europeo della Commissione, mentre al 2018 è presidente di quello italiano la giornalista Monica Maggioni.
I Chicago Boys di Hayer e Friedman
La risposta neoliberista, una sorta di rivoluzione conservatrice finanziata in maniera consistente dalle Fondazioni di grandi imprese capitaliste degli Stati Uniti, ha avuto come primo e principale obiettivo la riconquista di una egemonia culturale sulle idee, i programmi e le strategie che nelle università e nei campus si producono e si insegnano. E si è fondata sull’ascesa della nuova ortodossia monetarista, sviluppata dall’Università di Chicago a opera degli economisti Friedrich von Hayer e Milton Friedman (premi nobel per l’economia nel 1974 e 1976), basata sulla critica alla teoria del valore-lavoro e sul mutamento di finalità del paradigma economico. Quest’ultimo riorientato da lotta contro la disoccupazione a combattere l’inflazione sulla base del principio che un regime di libera concorrenza avrebbe spontaneamente creato gli equilibri necessari al buon funzionamento del mercato. Nella democrazia liberista il dogma del pensiero unico è l’individualismo competitivo, mentre la società non esiste. Il singolo è il motore della società economico-produttiva e ognuno deve essere imprenditore di se stesso, l’intervento attivo dello Stato nell’economia va eliminato (da qui le privatizzazioni) e partiti e sindacati sono relegati a un ruolo minore. Lo Stato, poi, deve venire “affamato”: starve the beast!, “affama la bestia” è, infatti, uno dei gridi di battaglia del neoliberismo americano. Il pubblico viene privatizzato e il privato esonda nella sfera pubblica. Il ruolo dello Stato è abrogato e la sua funzione distributiva non è più una priorità. Come conseguenza le diseguaglianze sono destinate ad aumentare in un modo impressionante. Ciò implica, oltre al prevalere delle esigenze del capitale su quelle del lavoro, il divieto di ogni politica economica: il capitale e il mercato sanno tutto quello che c’è da sapere, senza bisogno della politica. A ciò si deve aggiungere la decisione di diminuire il carico fiscale sui ceti più ricchi basandosi sul presupposto della “trickle down economy”, cioè sull’idea che abbassando la tassazione ai più ricchi si sarebbe creata ricchezza per tutte le classi sociali. Presupposto mai realizzatosi, ma che ha consentito incredibili elusioni fiscali ai grandi gruppi multinazionali attraverso una sempre più accentuata finanziarizzazione dell’economia.
Nel campo dei diritti sociali, come primo effetto, si ha l’attacco ai corpi intermedi protagonisti del pluralismo e delle lotte salariali e per i diritti degli anni ‘60 e ‘70. Attacco, quest’ultimo, che è stato indubbiamente favorito dal cambiamento della struttura economico-produttiva con il progressivo superamento del fordismo.
Uno dei fattori che ha contribuito a mutare il vento rappresentato, nel secondo dopoguerra, dalla dottrina keynesiana è stata l’istituzione del premio Nobel per l’economia. Non previsto all’origine dal fondatore fu inventato dalla Banca centrale svedese nel 1968 con l’intento, neppure troppo celato, di delegittimare le politiche socialdemocratiche e destabilizzare i loro governi, in particolare quelli ispirati da Olof Palme. Dal ‘76 e per i successivi trent’anni il fatto che la stragrande maggioranza dei premi siano andati ai Chicago Boys e ai loro seguaci non è quindi dovuto alla superiore qualità degli studi di quegli economisti, ma è il risultato di una mirata azione politica: i premi Nobel servivano a legittimare le teorie del neoliberismo.[3]
Thatcher e Reagan, gli alfieri del liberismo
Se la democrazia liberista ha alle spalle le crisi economiche e sociali degli anni ’70 l’elezione di due leader alfieri del liberismo come Margaret Thatcher in Inghilterra, nel 1979, e Ronald Reagan negli USA, nel 1981, rappresenta il risultato di anni di iniziative e straordinari impegni finanziari delle Fondazioni e dei think tanks conservatori, in rappresentanza dei maggiori gruppi del capitalismo, sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Quando, nel 1966, un gruppo di miliardari californiani si riunisce per cercare un candidato capace di ridare forza al partito ed essere eletto governatore scelgono Reagan per la sua abilità, dimostrata come attore, nel comunicare all’americano medio. Va però detto che se Reagan era ritenuto dai più autorevoli centri studi conservatori inadeguato per la presidenza e, una volta eletto, è stato, da questi, assistito e indirizzato sia nel programma che negli atti di governo, la Thatcher, già nel 1974, figurava tra le fondatrici di uno dei più importanti Think tanks dei conservatori inglesi: il “Centre for Policy Studies”.
Maggie, la ladra di latte
“The iron lady” non è stato il solo soprannome con il quale Margaret Thatcher veniva chiamata dagli inglesi. Figlia di un droghiere della cittadina di Grantham, nelle Midlands, arriva ad Oxford, dove si laurea in chimica, si iscrive al circolo conservatore, sposa un ricco industriale, diventa avvocato e fa la sua prima comparsa nel governo di Edward Heath. Qui, per limitare la spesa pubblica, decide di sospendere la fornitura gratuita del latte nelle scuole elementari, che era stata una delle grandi conquiste dei laburisti dopo la seconda guerra mondiale, da cui gli inglesi erano usciti vittoriosi, ma poverissimi.
Ma “Maggie the milk snatcher”, Maggie la ladra di latte, non è il tipo che si lascia commuovere e, anzi, come descrive Enrico Deaglio: “se c’è una cosa che le dà fastidio sono i poveri, la loro petulanza, i loro sindacati, il loro spreco di risorse, la loro pretesa di chiudere bottega alle cinque di sera, i loro scioperi, le loro pensioni, i loro weekend, le loro birre al pub”.[4] In nome di una immaginaria Inghilterra degli onesti lavoratori, trova una sponda dall’altra parte dell’oceano dove Ronald Reagan sostiene le stesse cose: basta con il governo che deve prendersi cura di tutto, spazio ai privati, agli “animal spirits” del capitalismo, basta con i lacci e i lacciuoli che frenano il merito e il talento. Inoltre, in più occasioni, illustrando l’indirizzo sociale e politico del neoliberismo ha sostenuto che: “There Is No Alternative”, non ci sono alternative al modello capitalista che lei interpretava. Guadagnandosi l’ulteriore soprannome di “T.I.N.A.”.
Nel 2013 una analoga convinzione ha espresso Mario Draghi, quando ha sostenuto che la politica italiana fosse sostituibile dal “pilota automatico”.
Renzo Penna
*Pubblicato dalla rivista “dalla parte del torto” di Parma, autunno 2014, numero 106, annoXXVII
[1] Carlo Galli: “Democrazia ultimo atto?”, pag. 72 – Einaudi, 2023
[2] Barbara Spinelli: “Si fa presto a dire Riforme” – “Il Fatto Quotidiano”, 12 maggio 2023
[3] Marco D’Eramo: “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”, pag.34 – Feltrinelli, 2020.
[4] Enrico Deaglio: “Storia di Maggie, che rubava latte ai bambini” – Maremosso.lafeltrinelli.it, 6 aprile 2023