LO STATUTO DEI DIRITTI DEI LAVORATORI HA QUARANTA ANNI … E NON LI DIMOSTRA 

di Renzo Penna

Alessandria, 7 settembre 2010 

Anniversario difficile il quarantennale dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, approvato dal Parlamento il 20 maggio 1970 con la legge n° 300. Con imbarazzanti paragoni tra i ministri del Lavoro di allora e il governo attuale. Che punta esplicitamente a ridurre le tutele per chi lavora ad iniziare dalla sicurezza e dal diritto alla salute. Mettendo in discussione e abolendo, tra l’altro, le misure introdotte da Cesare Damiano nel 2006 – durante il secondo governo Prodi –  sull’emersione del lavoro nero e l’obbligo di comunicare l’assunzione  del lavoratore il giorno prima. Per evitare, soprattutto nei cantieri, il fenomeno delle registrazioni post-mortem, dopo gli incidenti.

Ministri, di allora, che dichiaravano di essere “dalla parte dei lavoratori” come il socialista Giacomo Brodolini che presentò la proposta  di legge ed ebbe un ruolo decisivo, ma morì a soli 49 anni prima di vederla approvata. O Carlo Donatt Cattin che ne proseguì con coerenza e determinazione il lavoro e, al presidente della Confindustria Angelo Costa che protestava, ricordò che lui era “il ministro dei lavoratori”. Entrambi avevano affidato al giovane giurista Gino Giugni il coordinamento degli esperti e dei giuristi che lavorarono con un indirizzo innovativo alla elaborazione del disegno di legge. Che passò attraverso un vivace e laborioso percorso al Senato, dove venne approvato il 12 dicembre del 1969 e, successivamente, alla Camera dei Deputati.

In particolare Giacomo Brodolini, già vice segretario della Cgil negli anni ’50, amava definirsi il Ministro dei lavoratori in un paese la cui storia aveva troppe volte visto i ministri dei governi che si erano succeduti, dall’Unità d’Italia in poi, considerare le lotte del lavoro come dei movimenti promossi da sovversivi che minavano la coesione sociale. Oggi, purtroppo, siamo alle prese
con un ministro del Lavoro, sedicente socialista, che ha puntato esplicitamente alla divisione del sindacato e dei lavoratori e si è assunto il compito di criticare e denigrare la Cgil, la maggiore tra le Confederazioni. E un ministro del Tesoro che, recentemente, ha dichiarato che “robe come la 626”, la legge più conosciuta sulla sicurezza nei posti di lavoro, “sono un lusso che non possiamo permetterci”. Ma torniamo allo Statuto.

Una grande conquista sociale. Una pietra miliare nella storia del diritto del lavoro nel nostro paese. Una scelta che finalmente attuava il dettato costituzionale del riconoscimento pieno della dignità del lavoratore e che faceva varcare alla Costituzione repubblicana i cancelli delle aziende. La proposta di varare una legge che sostenesse i diritti dei lavoratori e l’agibilità delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro era stata già avanzata da Giuseppe Di Vittorio sin dal 1952.

La proposta fu in un primo tempo illustrata nel corso del congresso nazionale dei chimici, allora diretti da un giovane Luciano Lama, e successivamente approvata dal congresso confederale della Cgil che si tenne a Napoli. 

Le radici nella Costituzione

Ma, prim’ancora, lo Statuto dei diritti dei lavoratori ha le sue radici nella nostra Costituzione. Non ci sarebbe stato, infatti, lo Statuto senza la Costituzione Repubblicana.E la nostra Costituzione, senza una carta esplicativa e interpretativa delle norme di valore a cui faceva riferimento, sarebbe stata una carta monca. Quindi c’è un rapporto stretto che lega Statuto e Costituzione. D’altra parte lo stesso termine usato è un termine importante. Statuto è l’equivalente di Costituzione, intendendo con ciò una carta fondamentale di norme, di valori, di obiettivi che, nella sua essenza, ha la forza di uno straordinario momento fondativo. E quando si attacca lo Statuto non si attacca solo lo Statuto, ma la Carta costituzionale nei suoi articoli fondamentali.

D’altronde la Costituzione Italiana è unica. E, sostiene il professor Adolfo Pepe: “Non c’è Costituzione di paese democratico occidentale che parla del lavoro come atto fondativo, non ce n’è nessuna. Negli Stati Uniti è la felicità, nella Germania è la repubblica federale, nella Francia è l’unità della nazione (la grande rivoluzione francese). In Italia si è voluto scrivere, in un patto costituzionale, cioè nell’atto fondativi della Repubblica democratica, che questa Repubblica è fondata sul lavoro”.

A questo proposito Guglielmo Epifani ha più volte fatto riferimento alla discussione sul Collegato del lavoro presente in Parlamento e alla proposta del governo sull’arbitrato che il presidente della Repubblica ha correttamente rinviato alle Camere. In questo caso l’attacco non è allo Statuto dei lavoratori, ma alla Costituzione in un articolo che è fondamentale: quello in cui si riconosce al cittadino italiano di poter ricorrere liberamente, se vuole, al giudice per far valere le proprie ragioni. Se l’arbitrato viene posto al momento dell’assunzione, come pretende il governo, quando il lavoratore non ha la forza di poter scegliere, sarà un lavoratore costretto a rinunciare per il resto della sua vita a questa possibilità.

Il risultato di uno straordinario movimento di lotta

Ma lo Statuto è anche il risultato di uno straordinario movimento di lotta. E fu possibile ottenerlo attraverso quelle iniziative unitarie, di rivendicazione, di liberazione nel lavoro che segnarono, alla fine degli anni sessanta, la riconquista di un potere contrattuale nei luoghi di lavoro. Lo Statuto viene approvato nel 1970, ma è anticipato nei contratti di lavoro, primo quello dei metalmeccanici, e poi dalle altre categorie dell’industria nell’autunno del 1969.

Quella straordinaria stagione di mobilitazione si collega così alla carica riformatrice presente nel primo centro sinistra. Una fase politica che oggi dovrebbe essere rivalutata in quanto portatrice di altre importanti riforme che, in quel periodo, si realizzano nel nostro paese. Da quella che porta alla fine delle discriminazioni delle zone salariali, a quella che attua la scuola media unica, a quella che  riforma il sistema pensionistico e getta le basi di quella sanitaria. In allora vi era una volontà riformatrice soprattutto tra i Socialisti, il cui Partito che avevano posto nell’accordo di governo l’obiettivo della realizzazione di uno Statuto per i lavoratori, ma anche nei settori più aperti della Democrazia cristiana, cui apparteneva lo stesso Donat-Cattin. E quella volontà si saldò con la mobilitazione presente nel paese. Una eccezionale spinta dal basso che chiedeva un cambiamento, chiedeva libertà, dignità, diritti sui luoghi di lavoro.

Per questo lo Statuto è qualcosa che è vissuto dentro le lotte e il protagonismo del movimento sindacale italiano e si è concretizzato in norma nel Parlamento. Introducendo aspetti, per il tempo, particolarmente avanzati. In particolare il diritto di tenere le assemblee all’interno delle fabbriche.  Sino ad allora, infatti, non si potevano svolgere assemblee nei luoghi di lavoro. Era proibito. Dovevano essere tenute fuori dai cancelli delle aziende. La libertà di fare una cosa assieme si fermava fuori dai cancelli della fabbrica, e degli uffici. Il diritto al voto, il diritto a scegliere i rappresentanti viene un attimo dopo questa riconquista di una libertà che prima non c’era.

Quindi lo Statuto non cade dal cielo. E’ il frutto anche della lotta con la quale il mondo del lavoro e un ritrovato rapporto unitario nel sindacato crea le condizioni di una simbiosi tra movimento della base e movimento politico.

Questo è stato lo Statuto. Nel tempo è stato rafforzato, in molti casi è stato difeso da chi lo voleva invece ridimensionare ed è diventato una pietra miliare della condizione dei lavoratori del nostro paese. Nel ricordare questo anniversario e nel riproporre l’importanza dello Statuto dei Lavoratori risulta anche evidente l’urgenza e la necessità di definire e di estendere un sistema di regole e di diritti, di misurarli con le realtà del mondo del lavoro di oggi, con l’attuale organizzazione del lavoro e con l’odierno mercato del lavoro. Un sistema di diritti capace di durare nel tempo, di misurarsi con la mutevolezza vivace, quasi frenetica ormai, dei processi produttivi. Oggi l’unica cosa che non si può fare è celebrare la straordinarietà, la bellezza, la forza, la capacità, a sua modo rivoluzionaria, dello Statuto e ritenere, come pensa il governo in carica e non solo, che possa essere superato e messo da parte. Lo Statuto dei Lavoratori al contrario, va difeso e al tempo stesso consolidato ed esteso e questo richiede un rinnovato impegno di tutti i soggetti interessati.  Con le riforme, con gli adattamenti che la situazione di oggi ci propone. Non abbiamo più le fabbriche di un tempo, le concentrazioni di un tempo, il lavoro si è spezzettato, si è segmentato. Oggi il fenomeno della precarietà è molto più esteso e sono presenti rischi straordinari di fratture generazionali, tra settori, tra comparti, tra tipologie di aziende.

Bisogna quindi riformarlo, reinterpretarlo, trovare la modalità per estendere intelligentemente le sue funzioni, pena il rischio di dividere e segmentare il mondo del lavoro in più parti.

Questa è la sfida che compete al sindacato e alla politica se intende interpretare in modo adeguato l’anniversario dell’approvazione della legge 300. Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.

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