di Antonio Lettieri da Uguaglianza & Libertà – Se c’è una ragione prevalente su tutte le possibili altre per la vittoria di Tsipras, essa sta nel fatto che ha detto al suo elettorato la verità. L’accordo di luglio tradiva le attese di quanti avevano votato per Syriza a gennaio in base alla promessa di farla finita con la politica di austerità. Un voto ribadito con lo straordinario risultato del referendum contro il programma di austerità di Bruxelles. Ma, alla fine, Tsipras, dopo un drammatico quanto impossibile negoziato con i signori dell’eurozona, aveva dovuto sottoscrivere il terzo memorandum peggiore, se possibile, di quelli firmati dai precedenti governi greci.
Perché sottoscriverlo, tradendo le attese della sua duplice vittoria elettorale e referendaria? Tsipras non ha nascosto le ragioni della svolta. Ha detto la verità: ha affermato che non aveva altra scelta, se non l’uscita dall’euro – che era la posizione della Germania secondo la proposta di Schäuble condivisa da Gabriel, leader della Spd. Ma Tsipras non aveva questo mandato. La maggioranza della popolazione greca era contraria all’abbandono dell’euro. E Tsipras, nonostante le accuse di doppiogiochismo, non aveva mai preso in considerazione quest’opzione. In sostanza, un ricatto nei confronti di un governo democratico circondato da un eccezionale consenso popolare, ma reso fragile e vulnerabile da cinque anni di deflazione imposta dalle autorità dell’eurozona con la complicità dei governi greci.
Tsipras ammise la sconfitta. Berlino e, a rimorchio, Bruxelles non gli avevano lasciato scampo: o l’uscita dall’euro (Schäuble) o un programma di austerità e riforme più feroce di quelli imposti ai passati governi (Merkel). L’eurozona aveva tessuto la tela del ricatto come punizione esemplare di un governo che aveva osato ribellasi. E anche una forma di umiliazione di un giovane e ambizioso leader che si era posto alla testa della ribellione. Un novello Spartaco da crocifiggere come esempio per quanti osassero opporsi alla disciplina dell’impero.
Angela Merkel, intenzionata a scongiurare l’uscita della Grecia dall’euro, ha trovato in François Hollande un partner indispensabile quanto servile (e in Matteo Renzi un complice secondario ma fedele) nell’ordire la trama della resa della Grecia al nuovo programma di austerità e riforme, come unica alternativa all’uscita dall’euro, patrocinata da Schäuble.
L’atto di sottomissione di Tsipras era una chiara vittoria dell’asse Merkel-Hollande. Ma la limpida, inattesa, vittoria di Tsipras delude le aspettative e dimezza quella vittoria. Un programma di lacrime e sangue destinato a prolungarsi nel corso degli anni, irragionevolmente messo insieme da un oscuro gruppo di tecnocrati, può essere imposto stringendo la corda al collo di chi deve sottoscriverlo. Ma per essere attivato, quando comprende aspetti dirompenti dell’organizzazione economica e sociale, esige la collaborazione attiva (o la complicità) del governo che l’ha sottoscritto.
E’ norma per i governi dell’eurozona spiegare ai propri elettori che i programmi di Bruxelles e Berlino non sono un’imposizione o una sottrazione di sovranità democratica, ma i loro stessi programmi nell’interesse dei paesi che governano. Questo ha sempre sostenuto Mariano Rajoy in Spagna nell’attivazione della sua politica di demolizione delle tutele e dei diritti sociali. Un atteggiamento di subalterna complicità, ugualmente praticato da Hollande e da Renzi, per citare due capi di governo di centrosinistra, indipendentemente dal fatto che di quei programmi fossero pienamente convinti, o che passivamente li subissero.
Tsipras, pur costretto alla resa, ha osato dire la verità: non credeva in quel programma, ma non poteva fare diversamente. Il paese era stato cacciato nella trappola di Mario Draghi, che aveva interrotto il flusso delle risorse finanziarie, mentre era sotto la minaccia di un default imminente per il mancato rimborso dei debiti in scadenza verso la stessa Bce e il Fondo monetario. La maggioranza degli elettori greci gli ha creduto. E, per la prima volta negli ultimi cinque anni, un governo greco è stato rieletto, e può governare senza dover ricorrere all’alleanza dei vecchi partiti (da Nuova Democrazia all’esangue Pasok) rappresentanti ad Atene di Berlino e della tecnocrazia di Bruxelles.
Ora si apre una nuova partita segnata da molte incognite. Il nuovo governo di Tsipras, sostenuto dall’apporto del piccolo gruppo nazionalista e anti-euro dei “Greci indipendenti”, non si propone di ripudiare il programma imposto dall’eurozona, ma piuttosto di utilizzare i margini di ambiguità esistenti e ricavarne altri che toccano direttamente gli aspetti economici e sociali più aggressivi – dalle privatizzazioni di qualsiasi cosa abbia un lontano sentore di pubblico, alla riduzione delle pensioni e dei salari, alla sostanziale liquidazione della contrattazione collettiva e alla libertà di licenziare.
In questa prospettiva di resistenza il governo non sarà solo. Avrà, ragionevolmente, l’appoggio della parte radicale di Syriza confluita in “Unità popolare”, rimasta priva di rappresentanza parlamentare, come di quella parte dell’elettorato che ha scelto l’astensione in nome di una più intransigente politica del governo nei confronti dei diktat dell’eurozona.
La partita che si riapre non riguarda solo il contenuto socialmente più odioso del programma, ma una questione che è già all’ordine del giorno: l’assetto e la gestione dell’enorme debito che grava sulla Grecia. Per il Fondo monetario (ma, in trasparenza, non è difficile scorgere la posizione del governo americano) l’esorbitante debito greco non è rimborsabile. In sostanza ne deve essere ridotto il valore nominale; o deve essere ristrutturato accordando una moratoria nei pagamenti, un ulteriore allungameno delle scadenze, una riduzione dell’onere degli interessi.
Il nuovo governo, in questo caso, appoggiato dal Fondo, farà della questione del debito un punto discriminante. La ristrutturazione del debito apre la strada a una riduzione dell’avanzo primario (le risorse che eccedono il pareggio di bilancio al netto degli interessi) che il programma del “bailout” prevede in aumento fino a un abnorme 3,5 per cento del PIL. E il contenimento dell’avanzo primario apre spazi a una politica di investimenti, di sostegno al welfare e, in definitiva, di maggiore crescita.
La riapertura del negoziato da parte delle autorità dell’eurozona sul debito e sulla tollerabilità sociale delle riforme strutturali sarebbe un ragionevole gesto di democrazia in relazione a un nuovo governo sostenuto da un grande consenso popolare. Ma, considerati i precedenti, appare, allo stato, del tutto improbabile che le autorità dell’eurozona vogliano imboccare questa strada.
La Grecia è un piccolo paese con un reddito nazionale che è solo un cinquantesimo del Pil dell’eurozona. Un compromesso decente a favore di un governo che continua a proclamare la sua fedeltà all’euro sarebbe ragionevole e priva di costi – anzi, l’unica possibilità effettiva per evitare una bancarotta che comporta anche l’impossibilità di fatto di ottenere il rimborso dei crediti.
Sceglieranno i padroni dell’eurozona questa via? Oggi tutto sembra escluderlo. La Grecia è la metafora della autodistruttiva politica dell’eurozona. Se il binomio austerità-riforme strutturali diventasse oggetto di negoziato con la Grecia, allora la stessa apertura sarebbe reclamata dagli altri paesi con l’acqua alla gola. Non si potrebbe non concedere a Hollande e a Renzi ciò che si concederebbe a Tsipras.
La partita greca è nata, e continua a svolgersi, come una drammatica sfida che investe tutta l’eurozona. La novità sta nel fatto che la Grecia, proprio quando la questione sembrava chiusa con una resa senza condizioni, l’ha ancora una volta riaperta con l’inattesa vittoria di Syriza del 20 settembre.
Ha commentato il Financial Times: “La vittoria assicura a Mr. Tsipras un ruolo preminente tra le figure della sinistra radicale anti-austerità europea, e può galvanizzare i suoi simpatizzanti a partire da Podemos in Spagna e da Jeremy Corbyn, il nuovo leader della sinistra radicale del Partito laburista britannico”. Una volta tanto possiamo essere d’accordo. Con le vittorie di Corbyn e Tsipras l’autunno è iniziato con due segnali positivi, ai quali un altro potrebbe seguire con le elezioni spagnole di fine anno.