Di Angelo Salento da www.economiaepolitica.it – Non a tutti i contemporanei piacerà ricordare Luciano Gallino come un sociologo critico. Di certo, però, questo Maestro il lavoro della critica del capitalismo l’ha fatto con una determinazione straordinaria, e con straordinari risultati. Non è un compito semplice, oggi: si tratta di comprendere come le grandi promesse della vulgata neoliberista siano state costruite e diffuse; come e perché esse siano state disattese; quali possano essere le ragionevoli promesse per un futuro prossimo meno illuso e più sostenibile.
È un compito da svolgere in una sfera pubblica dominata da poche élites economiche e politiche, con la concorrenza di un’informazione giornalistica che ha, rispetto alla ricerca, maggiori risorse economiche e una disinvoltura metodologica adeguata a consumi culturali vorticosi. A fronte di questa sfida, le energie di Gallino sembravano moltiplicarsi con l’avanzare dell’età. I suoi interventi sono divenuti sempre più frequenti e densi. I suoi libri sono stati vere e proprie miniere di dati e di riferimenti bibliografici, su temi che in Italia erano rimasti pressoché inesplorati.
Su tutti, il tema dell’accumulazione finanziaria. Sino a quando Gallino non ha posto organicamente la questione, con L’impresa irresponsabile, uscito da Einaudi nel 2005, la finanziarizzazione delle imprese – il dominio degli azionisti/investitori breveperiodisti nel governo d’impresa, con le sue implicazioni sugli assetti organizzativi e occupazionali – era, in Italia, un fenomeno assolutamente trascurato (lo è rimasto, in verità, sino al collasso del 2008, e forse non è un caso che Einaudi abbia ripubblicato il libro nel 2009).
Da più di un decennio, l’ipertrofia della finanza – e soprattutto la colonizzazione finanziaria della produzione di beni e servizi – era dunque il tema centrale nella produzione di Luciano Gallino, che di volta in volta aggiungeva nuovi tasselli a un quadro che si presentava via via più sconcertante. Dopo L’impresa irresponsabile, sono venuti Con i soldi degli altri (2009), Finanzcapitalismo (2011), Il colpo di stato di banche e governi (2013), e infine Il denaro, il debito e la doppia crisi (2015), una sorta di testamento che corona uno straordinario tour de force intellettuale. Di volume in volume, via via che i nessi si venivano delineando, sembrava crescere anche l’indignazione del sociologo torinese (e parallelamente il suo impegno politico, per nulla incline a ripiegamenti riformistici). In alcuni passaggi di Il denaro, il debito e la doppia crisi, la veemenza della sua denuncia ricorda le tonalità che Thorstein Veblen aveva usato, nei primi anni Venti del Novecento, a proposito della proprietà assenteista, «più occupata a frenare l’industria che ad incrementarne la capacità produttiva» (Veblen 1921 [1969, pp. 926-7]). Tutto ciò è incredibile, spiegava a suo tempo Veblen, ma è la realtà di ogni giorno, e provoca pesanti conseguenze sulla psicologia collettiva. «Stupidità», la chiama Gallino: «quella che si incontra ogni giorno in campo politico ed economico», con effetti degradanti sul mondo sociale: «la concezione dell’essere umano teorizzata e perseguita ai giorni nostri con drammatica efficacia dal pensiero neoliberale ha lo spessore morale e intellettuale di un orologio a cucú» (Il denaro, il debito e la doppia crisi, pag. 8).
Lavorare sul tema dell’accumulazione finanziaria è stato probabilmente, per Gallino, un modo per costruire un quadro esplicativo forte e coerente che potesse dare conto di una serie di fenomeni ai quali aveva già dedicato e continuava a dedicare grande attenzione: la precarizzazione del lavoro e la disoccupazione (Se tre milioni vi sembran pochi, 1998; Il costo umano della flessibilità, 2001; Il lavoro non è una merce, 2007), la globalizzazione (Globalizzazione e disuguaglianze, 2000; ma v. anche la voce “Globalizzazione” nel Dizionario di Sociologia ed. 2004), la deindustrializzazione (quella italiana, in particolare: La scomparsa dell’Italia industriale, 2003), la rivincita delle élites (La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012).
È impossibile, peraltro, sfuggire alla sensazione che la biografia intellettuale di Luciano Gallino sia segnata da una discontinuità. Iniziati negli stabilimenti Olivetti, i suoi studi sono rimasti per lungo tempo dedicati, principalmente, al rapporto fra tecnologia e azione sociale e alla teoria della società. I suoi riferimenti teorici non erano particolarmente orientati alla critica sociale. Sul piano della teoria sociale, Gallino era vicino al funzionalismo di Parsons (è di Gallino l’introduzione a Il sistema sociale nelle Edizioni di Comunità); sul piano degli studi organizzativi, era legato all’idea, anch’essa di matrice funzionalista, del sistema socio-tecnico (Gallino aveva importato in Italia il lavoro di Emery e Trist).
In realtà, l’esperienza dentro e per l’impresa spiega la formidabile lucidità con cui il sociologo torinese ha osservato il declino del “capitalismo democratico”: avendo conosciuto da vicino il managerialismo produttivo, poteva riconoscere il managerialismo della rendita; avendo misurato il rapporto virtuoso fra tecnologia e occupazione, poteva cogliere pienamente l’inversione di quel nesso. Soprattutto, la sua formazione di “sociologo olivettiano” ha fatto sì che Gallino non abbia mai smarrito la convinzione che il lavoro non è un optional, sotto nessun profilo. Bisognerebbe rileggere, a questo proposito, le pagine di Se tre milioni vi sembran pochi nelle quali Gallino replica agli argomenti di Dominique Méda e a quelli di Domenico De Masi a proposito della prospettiva di una “società senza lavoro”. Non si tratta di ridurre l’ascendente del lavoro nel mondo sociale, spiegava Gallino: viceversa, è necessario promuovere la quantità e la qualità del lavoro, «per evitare il rischio che la società che ci attende sia formata in gran maggioranza non già da oziosi intenti a leggere i classici nei loro giardini fioriti, bensì da milioni di individui ai quali la mancanza di lavoro, la precarietà, l’insicurezza, l’esclusione hanno sottratto il maggiore dei beni: “null’altro che” il desiderio, la capacità morale, e la possibilità reale di condurre una vita dal volto umano» (pag. 78).
In definitiva, per comprendere la traiettoria intellettuale di Gallino si può considerare quel che egli stesso scrisse a proposito di Pierre Bourdieu (La Repubblica, 25.1.2002): non è la posizione del sociologo a essere cambiata con l’avanzare dell’età, ma è il mondo sociale che, nell’era neoliberista, ha cambiato configurazione. Come a Bourdieu, anche a Gallino, in un’epoca di “tradimento degli intellettuali”, è rimasta «quella capacità che gli intellettuali avrebbero dovuto, dovrebbero, aiutare a formarsi, ma per la quale la maggior parte di loro non sembra abbiano più il tempo o la motivazione». Un intellettuale formatosi nell’impresa responsabile par excellence, a condizione di non venir meno a quell’ispirazione, non poteva che elaborare e mettere al lavoro una profonda indignazione nei confronti del nuovo “capitalismo manageriale azionario” e della regolazione economica neoliberista.
Non può sfuggire, infine, un’ulteriore eredità “olivettiana”: la concezione della conoscenza come strumento del fare. La sua posizione indiscutibilmente critica nei confronti del capitalismo neoliberista ha sempre ambito a diventare immediatamente progetto: il primo passo, indispensabile per rompere il dominio della governance neoliberista, è avere le idee chiare in ordine agli errori commessi e alle scelte regolative necessarie per cambiare rotta (Gallino, per chiarezza, soleva enumerare le sue proposte). Il lavoro del sociologo torinese è quanto di più lontano si possa immaginare da una critica puramente declamatoria: per frantumare il pensiero unico non servono proclami o effetti teorici gratuiti, ma – su una base teorica robusta – dati rigorosi e rigorose spiegazioni: un compito umile, faticoso e indispensabile, che Luciano Gallino ha insegnato con il proprio esempio. Gliene siamo profondamente grati.