di Roberto Pizzuti
Ottobre 2008
Che nel nostro paese ci sia una questione salariale è oramai sotto gli occhi di tutti gli osservatori e delle istituzioni statistiche e di ricerca nazionali e straniere. D’altra parte, il declino relativo e assoluto dei salari è in atto, pur con oscillazioni, dall’inizio degli anni ’90; dunque chi se n’è accorto solo di recente, o addirittura negava la tendenza in atto, ha accumulato parecchi anni di ritardo più o meno strumentale.
Quello cui siamo di fronte è un processo redistributivo che fa parte di un più generale mutamento di equilibri economici, sociali e politici di dimensione storica; un mutamento che non riguarda solo il nostro paese, ma che in Italia assume specificità negative più accentuate.
Prima di analizzare le nostre specificità, vorrei però richiamare alcune considerazioni sulla più generale tendenza al peggioramento delle performances economiche che non riguardano solo il nostro paese e l’Europa, ma la generalità dei paesi sviluppati.
Circa dieci anni fa, in un convegno sulla globalizzazione che organizzai a Roma e nel successivo volume poi tradotto anche in inglese, mettevo in guardia contro un pericolosa conseguenza che le più recenti vicende economiche internazionali confermano.
In estrema sintesi, con la loro internazionalizzazione, i mercati assumono una sfera d’influenza territoriale che supera i confini di ciascun paese, mentre le istituzioni rappresentative continuano ad operare essenzialmente in ambito nazionale.
Si è dunque creata un’asimmetria che ha rotto il precedente equilibrio tra stato e mercato, tra scelte individuali e scelte collettive, tra economia e politica.
Quell’equilibrio era stato raggiunto a seguito di un forte e generalizzato incremento della presenza pubblica, sia direttamente produttiva sia di controllo e regolamentazione delle scelte di mercato.
L’opportunità di sviluppare l’intervento pubblico aveva iniziato ad affermarsi negli anni ’30, a seguito sia dei nuovi contributi teorici keynesiani sia dell’insegnamento della grande crisi, esplosa anche per la scarsa capacità delle istituzioni di interagire con i mercati e controllarli.
Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, il significativo aumento della presenza pubblica si è accompagnato al più intenso periodo di crescita economica sperimentato nella storia.
Tra l’inizio del Novecento e gli anni ’70, nella generalità dei paesi più sviluppati si è affermata anche un’altra tendenza, di tipo distributivo, che merita di essere sottolineata.
La quota di reddito totale detenuta dal 10% della popolazione più ricca è andata restringendosi sensibilmente, favorendo, dunque, la riduzione delle disuguaglianze.
Tra le cause di questa tendenza ci sono gli eventi bellici che hanno colpito particolarmente i redditi da capitale; ma ci sono anche l’aumento della spesa pubblica e della progressività fiscale e, in particolare, la diffusione dello stato sociale.
La quota di reddito dei ricchissimi, cioè dall’1% della popolazione più ricca, è scesa – ad esempio nel Regno Unito – dal 20% del 1918 al 6% degli anni Settanta.
Dunque, nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, l’aumento dell’intervento pubblico e della sua interazione con i mercati si è accompagnato sia ad una crescita del reddito senza pari nella storia sia ad una redistribuzione di tipo egualitario. Si potrebbe aggiungere che in questo periodo ci sono stati anche sensibili e diffusi miglioramenti delle condizioni sociali e civili, ma il discorso si estenderebbe troppo.
Tuttavia, a partire dagli anni ’70, diverse tendenze fino ad allora in atto si arrestano e s’invertono.
Ad esempio, proprio a partire da quegli anni comincia a delinearsi un ritorno all’aumento delle disuguaglianze.
La ripresa degli alti redditi è alimentata, in particolare, dal forte aumento delle remunerazioni dei top managers.
Negli Stati Uniti, negli ultimi trent’anni del secolo scorso, mentre i salari medi sono rimasti sostanzialmente stabili in termini reali, le retribuzioni dei top managers sono aumentate fino a quaranta volte, arrivando a livelli mille volte superiori ai salari medi.
Ma questa inversione in campo distributivo non è che un effetto di ben altri eventi di portata storica, che – peraltro – non riguardano solo le relazioni economiche.
Dal punto di vista economico, inizia a delinearsi la ricordata asimmetria nei rapporti tra stato e mercato; l’indebolimento del ruolo pubblico viene sostenuto dal pensiero neoliberista che diventa dominante.
Tuttavia, saltando molti passaggi, possiamo dire che dopo o oltre trent’anni da quell’inversione storica, il tanto ambito scatenamento dei mercati dai lacci e lacciuoli delle istituzioni se, da un lato, ha generato il prevedibile peggioramento degli equilibri sociali e distributivi, d’altro lato, non ha affatto mantenuto le promesse di miglioramento delle performances economiche.
Nei paesi sviluppati, i tassi di crescita sono mediamente diminuiti, i tassi di disoccupazione sono saliti, le crisi economiche e finanziarie sono aumentate di frequenza e intensità.
Anche a seguito dei mutati equilibri nei rapporti politici e sindacali, gli effetti dell’accresciuta instabilità ed incertezza generati dal sistema economico vengono sempre più scaricati dalle imprese ai lavoratori e ai consumatori, dai mercati finanziari ai singoli risparmiatori, dalle istituzioni sociali agli individui.
Alla riduzione delle prospettive di crescita del reddito si unisce una diffusa precarizzazione che dal sistema economico e dal mondo del lavoro si trasferisce alle complessive condizioni di vita.
Io credo che queste problematiche, molto sommariamente abbozzate, siano tra quelle di carattere generale cui la Sinistra dovrebbe dedicare la propria attenzione.
Ma, come dicevo, esistono anche specificità nazionali con le quali la sinistra e le forze sindacali devono confrontarsi.
Le specificità italiane e la tesi del decentramento della contrattazione salariale
Nel nostro paese, negli ultimi sei anni, il reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti ha seguito a malapena l’inflazione media, ma è cresciuto meno dei prezzi dei beni che più specificamente rientrano nel loro paniere di consumi – come carburanti, casa e trasporti.
Contemporaneamente, però, il reddito delle famiglie di lavoratori autonomi o imprenditori è aumentato di oltre il 13%.
Dal 1992, mentre i salari sono stati mediamente esclusi dalla partecipazione agli aumenti della produttività, la quota dei profitti sul Pil è aumentata di oltre 10 punti.
Le retribuzioni nette dei nostri lavoratori sono scese al penultimo posto in Europa, superiori solo a quelle portoghesi: quelle tedesche sono superiori del 43%, quelle francesi del 32%.
La nostra situazione comparativa peggiora se si tiene conto anche delle prestazioni sociali nette: ufficialmente la nostra spesa sociale rapportata al Pil è inferiore di circa 1,5 punti alla media europea e di 3-5 punti rispetto a Germania e Francia; in realtà, se si omogeneizzano i dati, il nostro distacco aumenta di circa altri quattro punti di Pil.
Ma la particolarità negativa dell’Italia non si ferma qui.
Negli ultimi dieci anni la crescita media del Pil nell’EU27 è stata del 2,5% mentre negli USA è stata del 2,9%. Nel nostro paese è stata invece solo dell’1,5%.
Eppure da noi l’occupazione è cresciuta di più: dell’1,4% contro l’1% della media europea e il numero medio di ore lavorate da ciascun occupato è superiore alla media dei paesi OCSE.
Il fatto è che siamo rimasti molto indietro nella crescita della produttività che, nella media europea, è aumentata dell’1,3% l’anno, mentre in Italia è cresciuta dello 0,1%, cioè è rimasta pressoché ferma.
Dunque, nonostante i nostri salari siano rimasti molto indietro rispetto a quelli europei, a causa del ritardo nella dinamica della produttività, il nostro costo del lavoro per unità di prodotto in termini relativi non ne ha tratto beneficio; il nostro valore rimane ancora nettamente inferiore a quello medio europeo, ma la distanza si è ridotta.
Cosicché la nostra competitività di prezzo è diminuita e un segnale è dato dall’andamento delle nostre esportazioni che nel decennio 1997-2007 sono cresciute mediamente dell’2,8%, mentre nella media europea sono cresciute più del doppio, cioè di quasi il 6%.
In definitiva, in un contesto europeo dove da almeno un decennio il reddito cresce sempre meno e molto al disotto delle aspettative, in Italia le cose vanno ancora peggio.
Anche la redistribuzione a sfavore dei salari è una tendenza europea, ma ancora una volta in Italia è molto più accentuata.
Queste due particolarità negative del nostro paese, la bassa crescita del reddito e la dinamica salariale ancora più ridotta non sono indipendenti tra loro, ma – anzi – interagiscono, anche se, evidentemente, non mancano altri elementi di spiegazione per ciascuna delle due tendenze.
In una visione molto diffusa, che sembra convincere anche parti della sinistra e del sindacato, i bassi salari dipenderebbero dalla scarsa produttività del lavoro; per aumentare i primi occorrerebbe preventivamente aumentare la seconda e un modo per farlo sarebbe passare dalla contrattazione nazionale a quella locale, aumentando solo i salari dei lavoratori che aumentano la loro produttività. Secondo alcuni, il collegamento tra incrementi salariali e produttività dovrebbe spingersi fino alla formulazione di contratti individuali.
Questa visione è in realtà frutto di una concezione errata dei rapporti esistenti tra le dinamiche della produttività del lavoro e dei salari; in effetti si tratta di una posizione controproducente ai fini sia della crescita sia degli equilibri sociali Intanto va ricordato che nell’ultimo quindicennio i lavoratori non hanno partecipato ai frutti della pur ridotta dinamica della produttività; i loro salari hanno recuperato a stento il tasso medio d’inflazione, ma hanno perso anche potere d’acquisto rispetto ai beni che maggiormente pesano nei loro consumi.
Nel frattempo, però, mentre i titolari di altre forme di reddito miglioravano la loro quota distributiva, i lavoratori dipendenti hanno visto peggiorare nettamente anche le loro condizioni contrattuali e le prestazioni pensionistiche attese.
Un aspetto che si finge d’ignorare è che la produttività del lavoro non dipende solo e tanto dagli sforzi del singolo lavoratore, ma dalle tecniche produttive e dall’organizzazione complessiva le quali dipendono entrambe dalle scelte dell’impresa.
Il punto è che in Italia, negli ultimi quindici anni, gli investimenti privati sono stati di pessima qualità e le scelte imprenditoriali sono state dettate dall’obiettivo di preservare rendite di posizione.
Proprio la possibilità di contare su una bassa dinamica dei salari ha spinto le imprese a perseguire la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi, innovando poco o niente le produzioni e i processi produttivi.
La generalità delle imprese ha concentrato gli interventi su misure di flessibilizzazione della manodopera dettate essenzialmente dall’obiettivo di ridurre il costo del lavoro.
Queste caratteristiche dell’evoluzione del nostro sistema produttivo lo hanno reso sempre più “maturo” sul piano qualitativo, più esposto alla concorrenza dei paesi emergenti e meno dinamico sul piano della produttività; queste politiche aziendali sono alla base del nostro declino, cioè del progressivo slittamento in basso del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro.
Così si spiega anche che nonostante l’occupazione sia aumentata (ma siamo ancora lontani dalle medie europee), la crescita della produzione e del Pil sia stata relativamente bassa; in ogni caso solo una sua fetta continuamente decrescente è andata ai lavoratori, mentre sono cresciuti profitti e rendite.
La bassa crescita del reddito nazionale, la bassa dinamica salariale, la riduzione delle prestazioni sociali, l’aumento della precarietà del lavoro e delle condizioni di vita sono tutti aspetti interdipendenti di un modello che ci sta portando al declino economico, sociale e civile.
In questo contesto, sgravi tributari a favore delle retribuzioni più basse non costituiscono una rimedio di carattere strutturale, ma sicuramente si giustificano sul piano distributivo, poiché anche a livello fiscale i passati provvedimenti di riduzione del cuneo fiscale hanno favorito i profitti e adesso ci sarebbe bisogno di un riequilibrio.
Ma ancora una volta il Governo fa dipendere gli sgravi dalla crescita, e poiché questa è prevista in forte calo, non ci saranno risorse per gli sgravi fiscali a lavoratori e pensionati.
Tuttavia, per spezzare il circolo vizioso del declino occorre cambiare il modello di crescita; ma l’idea che si possa farlo legando i salari dei singoli lavoratori agli aumenti di produttività
realizzati in ciascuna sede produttiva è del tutto privo di fondamento.
La crescita del Pil di un paese è senza dubbio legata alla dinamica della produttività del suo complessivo sistema produttivo.
A sua volta, la crescita della produttività è legata al progresso tecnologico il quale, tuttavia, procede in modo difforme nei diversi settori produttivi, cioè esso si diffonde nelle industrie e nelle singole aziende in base a determinanti e con modalità che trascendono l’impegno dei rispettivi lavoratori.
Peraltro, con l’accresciuta integrazione economica internazionale e con gli sviluppi
tecnologici affermatisi negli ultimi decenni, la crescita del reddito complessivo disponibile in un paese dipende maggiormente dalla sua competitività, la quale è legata sempre più alla qualità che non al prezzo della sua produzione, più all’innovazione produttiva che alla compressione degli oneri salariali.
Ma qualunque siano le determinanti e la misura della crescita dell’intero reddito nazionale, la sua distribuzione – in particolare, tra i lavoratori di diversi settori e aziende – non ha molto a che vedere con l’evoluzione delle rispettive produttività.
Se si osservano le tendenze storiche, è facile constatare che in alcuni settori (specialmente in quelli industriali che maggiormente hanno incorporato il progresso tecnico) la produttività fisica è cresciuta relativamente molto; in altri (specialmente in quelli dei servizi dove prevale l’impegno diretto delle capacità umane) è cresciuta relativamente poco. Tuttavia, l’evoluzione dei salari nei vari settori non si è adeguata ai rispettivi andamenti della produttività. Ed è normale che sia così.
Il ruolo dei settori dove si produce ricerca di base, innovazione, istruzione e formazione è fondamentale per gli incrementi di produttività dell’intero sistema, ma nella specifica attività svolta in quei settori non ha nemmeno molto senso parlare di produttività e meno che mai di legare ad essa i salari di chi vi lavora.
Rintracciare un collegamento a livello aziendale tra crescita dei salari e della produttività rimane problematico anche se la produttività viene misurata in termini non fisici ma di valore monetario, ad esempio, in termini di fatturato per addetto.
In tal modo, la misura della produttività e il confronto della sua dinamica tra diversi settori vengono a dipendere anche dall’evoluzione dei prezzi relativi.
Infatti, per il solo fatto che in un settore i prezzi aumentano di più che in un altro, il fatturato per addetto risulterà maggiormente accresciuto nel primo settore, indipendentemente dalle dinamiche della produttività fisica registrate in entrambi Il punto è che i prezzi relativi e il valore attribuito alla produzione di ciascun settore e azienda dipendono da numerosi fattori indipendenti dalla produttività; in primo luogo i prezzi relativi dipendono proprio dalla distribuzione del reddito la quale, a sua volta, dipende dagli equilibri politici e dalla forza economico-contrattuale delle diverse parti sociali titolari di profitti, rendite e salari.
Dunque è la distribuzione del reddito che determinando i prezzi, influenza anche la misura della produttività espressa in valore.
Peraltro, i fattori socio-politici che determinano la distribuzione del reddito non agiscono in modo omogeneo nei diversi settori, aziende e territori di uno stesso paese.
Inoltre, i prezzi relativi sono influenzati anche da altre circostanze come le differenti condizioni di mercato (più o meno concorrenziali) diffuse nei diversi settori e territori di produzione.
Dunque, pensare che i salari pagati in ciascuna azienda dipendano dalla produttività dei rispettivi lavoratori non solo non corrisponde alla realtà del modo di funzionamento dei sistemi economici, ma comunque non costituirebbe un legame tra retribuzioni e “meriti” dei lavoratori.
Il valore monetario creato da un’impresa dipende molto parzialmente dalla produttività fisica dei suoi lavoratori, la quale, peraltro, più che dalla loro capacità e disponibilità al lavoro, dipende dalle tecnologie messe a loro disposizione dall’imprenditore e dal settore più o meno aperto al progresso tecnologico in cui opera la loro azienda.
In definitiva, la dinamica aziendale del fatturato per addetto cui si vorrebbe agganciare l’evoluzione salariale dei rispettivi dipendenti dipende molto da fattori esogeni all’impresa stessa e molto ancora dalle scelte che competono l’imprenditore.
Sulla tesi di legare i salari alla produttività aziendale c’è poi da fare una considerazione
d’ordine sociale e politico.
I lavoratori impiegati nei diversi settori produttivi convivono in una stessa società e hanno bisogni simili cosicché se le dinamiche delle produttività aziendali e settoriali fossero fortemente disomogenee (come normalmente accade) e se gli andamenti retributivi fossero corrispondentemente diversi (come si vorrebbe), si creerebbero elevate e ingiustificate disparità di reddito, con conseguenti problemi di coesione sociale, a cominciare da forti conflitti e divisioni tra i lavoratori.
Queste ultime divisioni sarebbero un risultato politico non secondario e non casuale nell’ambito del conflitto d’interessi tra imprenditori e lavoratori In definitiva, la proposta di legare i salari alla produttività aziendale e di privilegiare la contrattazione decentrata non solo è socialmente e politicamente pericolosa, ma non è sorretta da solide ragioni economiche e risulta controproducente ai fini della competitività e della crescita.
Infatti il legame tra produttività aziendale e salari tenderebbe ad accentuare il meccanismo perverso diffuso nel nostro sistema produttivo che è alla base del nostro declino; è il meccanismo che illude le imprese meno dinamiche di poter sopravvivere senza investire in innovazione ma inseguendo la competitività di prezzo al ribasso, cioè contenendo la dinamica salariale e le prestazioni sociali, la sicurezza delle condizioni di lavoro e la stabilità occupazionale dei loro malcapitati lavoratori.
Naturalmente il risultato ultimo sarebbe negativo non solo dal punto di vista economico, ma anche per gli equilibri sociali e civili del nostro paese.