di Franco Livorsi
Alessandria, 20 agosto 2007
Molti plaudono al nascituro Partito Democratico, anche nel nostro “mondo minimo” di cittadini futuri, a mio parere ragionando come quel tale della pubblicità che girava trascinandosi un pennello grande un paio di metri per imbiancare la propria casa sostenendo che per dare le tinte ci voleva un pennello “grande”, cui un vigile milanese faceva intendere che per contro ci voleva “un grande pennello”. Il Partito Democratico si presenta come un pennello grande, ma non è un grande pennello. E’ un illuso chi pensi che i problemi politici – di identità ideale e morale, cioè di appartenenza; di buono, e stabile, governo, e soprattutto di stabile lavoro, di economia solida, di giustizia efficace, di scuola che funzioni, di salvaguardia ambientale, e anche di pace crescente nel Mediterraneo e nel mondo per quel che ci compete – possano essere risolti attraverso matrimoni combinati tra attempati signori ex comunisti e attempate signore ex democristiane, e che l’unione tra i soggetti in questione sarà felice perché “alcune regole” garantiranno che i parenti “combinanti”, politici “di professione”, burocrati o amministratori o parlamentari ex comunisti, ed ex democristiani, non ci metteranno “troppo” il becco. Coloro che non si attengono all’uomo com’è, ma come dovrebbe essere, sono – come diceva Machiavelli – persone che “non se ne intendono”.
Per contro alla fine del processo costituente del PD si avrà – più o meno necessariamente, o prevedibilmente – un risultato del seguente genere: 1) Un partito composto per tre quarti da ex iscritti dei Democratici di sinistra e da dirigenti ex comunisti, ed ex democristiani, uniti nella ricerca di un moderatismo dal volto umano; 2) un partito senza identità, né socialista democratico né democratico cristiano o democratico laico; al proposito non dubitiamo che nel PD seguiteranno a esserci quelli che nelle occasioni domenicali si riempiranno la bocca, e promuoveranno persino convegni e studi, ora con e su Gramsci, ora su De Gasperi, ora su Maritain, come se si trattasse della stessa “combriccola ideale”; ma un tale approccio culturale e ideale, che mescola ingredienti spesso assolutamente incompatibili o con crassa ignoranza, o con colpevole faciloneria o con non commendevole cinismo, è talmente umoristico in sé e per sé che non vale neanche la pena di soffermarvisi; 3) un partito che non corrisponde affatto alla forma partito prevalente nella sinistra europea, che è sempre riferita all’idea socialista e ha sempre come retroterra il grande – seppure tanto mutato dal tempo delle “mani callose” – mondo dei grandi sindacati dei lavoratori: un PD – insomma – che non è affatto socialista nella sua maggioranza e che infatti non potrà o vorrà entrare nell’Internazionale Socialista. Quest’ultima cosa non è tanto importante in sé quanto perché dimostra che ci si è imbarcati in un’impresa che non consente neanche di essere in modo evidente, e non meramente implicito, dei buoni socialisti europei, oltre a tutto nella vera patria del futuro, che è l’Europa, nel suo Parlamento; 4) un partito che si basa sul presupposto che la grande forma partito, o forma partito prevalente in Europa, possa essere quella del Partito Democratico in senso americano – anche nobilmente clintoniano o “al-goriano” – quasi che l’Italia, al pari di tutti i grandi paesi europei, non avesse una storia tutta diversa da quella del mondo americano, in cui il socialismo, e anche il sindacalismo “di classe”, è stato sempre una presenza ben poco rilevante; 5) un partito che fa dialogare comunisti, ex comunisti o figli adottivi dei comunisti ed ex comunisti, con democristiani, ex democristiani o figli adottivi dei democristiani ed ex democristiani, secondo la miglior tradizione del compromesso storico, e che infatti, guarda caso, se ne infischia dei compagni sorti dall’utero – sozzo sin che si vuole, ma tanto importante nella storia riformista e di libertà dell’Italia, e socialista di certo – del Partito Socialista in senso forte; 6) un partito che non crea affatto l’alternativa tra i blocchi più o meno omogenei, né tanto meno tra i grandi partiti più o meno omogenei, tra loro contrapposti, rendendo finalmente possibile quel bipartitismo o “bi-blocchismo” di tipo “perfetto” la cui assenza ha pesato come un macigno nella storia della sinistra come denunciava Giorgio Galli in un suo libro famoso sul “bipartitismo imperfetto” scritto quasi cinquant’anni fa.
Ora vorrei concentrarmi su quest’ultimo punto, perché è proprio su questo che battono l’accento quasi tutti i sostenitori, politici e persino opinionisti che sostengono tale prospettiva. Infatti tutti quelli che sognano una sorta di democrazia con due grandi partiti alternativi, o almeno indiscutibilmente polarizzati e polarizzanti due grandi blocchi, dicono: “Facciamo a sinistra il gran partito dei riformisti, comunque si chiamino, che da solo comunque sarà 3/4 dell’Unione”. A destra non mancano i plaudenti, specie tra gli ex fascisti, desiderosi di completare la legittimazione a governare attraverso l’unione di Alleanza Nazionale con il grosso “partito” di Berlusconi, Forza Italia, e soprattutto la leadership di Fini a governare al posto del Cavaliere.
Tuttavia gli unificatori di centrosinistra o di centrodestra a mio parere fanno tutti conti senza l’oste. Cari miei amici di “centrosinistra”, quanto vale elettoralmente il Partito Democratico? – Mettiamo pure che i fautori del PD abbiano ragione e i sondaggisti d’oggi torto; che esso non provochi fughe significative di voti né di ex elettori di sinistra né di ex elettori della “Margherita” di matrice democristiana. Mettiamo pure che il PD ottenga il 30% dei voti (saranno meno di certo). Cosa si ricaverà, in tal caso, rafforzando il comune “moderatismo di sinistra” e per ciò stesso rafforzando la rottura con le ali “renitenti”? – Che una sinistra oscillante tra il 15% e il 20% resterà fuori e contraria. Allora che cosa si dovrà fare come “Partito Democratico”? – Cose molto italiane, tutte giocanti a favore della frammentazione dei partiti e del trasformismo (due grandi mali nazionali).
In primo luogo – e già accade con le proposte che i DS prendono ad avanzare in materia – si dovranno blandire vuoi i renitenti di centro che sono nel “casino della libertà”, ma contigui e desiderosi di governare a tutti i costi (Unione Democratica di Centro: “Casini”!), vuoi gli alleati renitenti di sinistra di oggi: tramite un ritorno edulcorato alla proporzionale, detto modello tedesco: modello “tedesco” che però, senza i contrappesi germanici (teste “unitarie” dei tedeschi, e metà sistema maggioritario, per non dire del senato delle regioni), assomiglierà terribilmente, pur con qualche piccolo correttivo, al “casino” della prima repubblica. In secondo luogo si dovranno cercare alleati fuori dalla sinistra perché la politica di concentrazione tra sinistra e centro finirà per favorire lo slittamento della sinistra radicale all’opposizione, di cui pure questa porterebbe la maggior responsabilità, in vero imperdonabile. (Già c’è chi – come dice nel nostro sito l’amico “civisfuturo” Alfio Brina – l’accusa di “giocare allo sfascio”). In terzo luogo il Partito Democratico nascerà in un quadro di crisi del governo Prodi. Questo governo resisterà un mese? Resisterà sei mesi? Resisterà un anno? – In ogni caso la sua è una fine assolutamente annunciata; nella migliore delle ipotesi è un’estinzione graduale: incarna un governo “che si estingue”. Il PD, dunque, da un lato nascerà nel bel mezzo di una grande polemica tra chi vuol ridurre le forme del precariato e chi le difende più o meno come sono; dall’altro di una crisi o galoppante o comunque infinita del governo Prodi.
Caduto Prodi si apriranno tre vie. O si andrà subito alle elezioni, e allora il PD prenderà un sacco di legnate, mentre la sinistra radicale perderà ogni credito politico, ogni possibilità di governo, per moltissimi anni, qualunque sarà il suo risultato elettorale; o, dopo la caduta “da sinistra” del governo, non si andrà affatto subito alle elezioni, ma si andrà a una qualche forma di governo mascherata da governo tecnico o istituzionale o super partes che dovrà sostituire la sinistra radicale non con il solo partitino di Casini (UDC), che non basterà, ma con altri, che andranno o sino a Berlusconi o comunque sino a Fini; oppure si andrà ad una sorta di Prodi bis, che cuocerà a fuoco lento questa coalizione portando poi, per lento esaurimento, ad una disfatta epocale della sinistra.
Ci sarebbe stata un’altra strada, che è poi la stessa che avrebbe dovuto essere seguita sin dal 1989 quando – sia pure troppo tardivamente – si decise di far finire il PCI (la stessa strada che infatti prevale in Europa): I) Riconoscere, come ex comunisti, che si è socialisti, con recupero, con altri o in proprio, del nome e dei numi tutelari della “ditta”, accanto ai numi propri ripresi in quanto era già socialista in essi, e ripudiati in quel che non lo era affatto; II) puntare a essere socialisti sempre più e sempre meglio, guardando a Parigi o eventualmente a Berlino e, se proprio si voleva, a Londra, per fare un partito – come là – con tutte le famiglie del socialismo, dai riformisti ai trockijsti (aut similes): qui da Boselli a Bertinotti (cominciando con il federarle, per poi fonderle); III) avere dunque una grande socialdemocrazia anche qui plurima in uno, in cui le tante famiglie litigassero per ricomporsi sempre di fronte agli avversari o moderati o conservatori o reazionari; IV) innovare su quel ceppo la tradizione o identità socialista, vuoi aprendo l’insieme del socialismo riunificato o in corso di riunificazione ai grandi nuovi temi dei diritti individuali riconosciuti a tutti, e vuoi, soprattutto, a quelli dell’ecologia sociale, ma anche, se non in primo luogo, della legalità diffusa e della stabilità delle forme di governo, pur senza rinunciare mai a mettere al primo posto i problemi del lavoro rispetto a quelli del capitale, ed a riprendere la grande prospettiva, per quanto mitica possa essere diventata, di una società senza padroni, senza la quale l’idea socialista è una scemenza collettiva. (E su ciò concordo totalmente con l’ultimo editoriale, “orwelliano”, della mia mai dimenticata amica di gioventù Isa Jori, che mette in guardia, anche interloquendo con me, dalla trasformazione della fattoria degli animali in fattoria padronale).
Certo è grande il rischio che quanti si oppongono da sinistra alla prospettiva del Partito Democratico, ai quali io guardo con grande speranza, siano risucchiati – anche loro malgrado – da una sinistra radicale neocomunista invece che neosocialista e democratica qual essi vorrebbero (persino a dispetto di molte nuove grandi intuizioni neosocialiste di Fausto Bertinotti). Se la “Sinistra democratica” di Mussi e compagni non saprà evitarlo da un lato ribadendo la sua identità socialista e democratica (anche nel nome, che indica sempre la natura della “ditta”), e dall’altro dialogando di continuo con forze espressamente, e in primo luogo, socialiste democratiche “di lungo corso” (SDI, Rosa nel pugno), e nulla concedendo, in termini di unioni o elettorali e di sigle, al “comunismo” che non si facciaespressamente socialista democratico certo di sinistra, essa sarà battuta in partenza e per sempre. Stretta tra tira e molla sullo Stato sociale, crisi infinita del “prodismo” di governo, alzate d’ingegno autolesionistiche dei moderati di sinistra, ed incapacità della sinistra socialista di realizzare il suo destino, che è quello di mettere insieme le ali di sinistra e di destra della socialdemocrazia europea in Italia, la sinistra, come insieme storico, sarebbe rovinata. Lo capiremo nei mesi prossimi. Semmai ciò dovesse accadere, la vittoria della destra sarebbe epocale. In tal caso l’antipolitica diverrebbe – non per nostra volontà, ma per i brutti percorsi della storia – l’amaro destino di molti tra noi. A malincuore dovremmo allora ammettere che così va il mondo, almeno in Italia. Ma “Dio ne scampi”.