Sergio Ferrari
19 settembre 2011
Dibattito In una assemblea tenuta a Roma il 17 u.s., indetta dai movimenti Lavoro-Solidarietà e Socialismo 2000, è stata lanciata una ragionata proposta/appello per costruire un Partito del Lavoro.
La proposta nasce all’interno delle vicende e delle evoluzione della Federazione della sinistra ma si rivolge anche e, forse sopra a tutto, all’esterno, a SEL, ai vari movimenti e associazioni e, in qualche misura, anche al PD, ancorché venga riconosciuto come collocato su posizioni a dir poco incerte
Uno degli obiettivi contingenti di questo Partito del Lavoro è rappresentato dalla fine del governo Berlusconi e si riconosce che se questo obiettivo non può essere strategico, ciononostante non può essere assolutamente trascurato. L’obiettivo più generale è ovviamente quello di superare la debolezza della attuale rappresentanza politica del mondo del lavoro nel nostro paese, una debolezza che è non solo evidente ma che viene coltivata dal governi Berlusconi come un obiettivo strutturale da far riscontrare anche a livello costituzionale. Una debolezza che rappresenta, quindi, anche una emergenza democratica.
Nel momento in cui le vicende politiche nazionali vivono una dimensione che è quella della crisi economica internazionale, delle insufficienze dell’Unione Europea, della specifica decadenza del nostro paese, il tutto condito da quello spettacolo offerto dal governo e dal suo Presidente, un convegno per lanciare la proposta di costruire un nuovo partito potrebbe apparire quasi surreale, se non fosse che forse si tratta solo di una maturazione ritardata rispetto ad una crisi che risale a quella della prima repubblica, alla caduta del muro, a tangentopoli. Ormai non c’è più nessuno che sostiene che la seconda repubblica abbia risolto quelle crisi; quindi la questione del come guardare al futuro si pone obiettivamente, anche perché la crisi internazionale non consente di giocherellare con le nostra stranezza sapendo che, comunque, il mondo andrà avanti e ci porterà con lui: potrebbe anche metterci in un angolo.
Se, dunque, l’appello per la costruzione del Partito del Lavoro non deve apparire una originalità, è evidente che si caricano su una operazione del genere tutte le “manchevolezze” precedenti, tutte le approssimazioni che hanno imbastito la nascita e la vita degli attuali partiti, tutte quelle analisi critiche e autocritiche che sarebbero state necessarie ancorché molto scomode ma che sono mancate. Per non aggiungere che nel frattempo sono cambiate anche delle situazioni e delle condizioni economiche e sociali, per cui la questione femminile e quella della pace, la stessa identità sociale del lavoro e del lavoratore, gli orizzonti e le relazioni internazionale, le potenzialità della tecnologia, la dimensione ambientale dei problemi, non sono quelle di allora. E un partito del lavoro al giorno d’oggi non può certo pensare che si tratti di questioni “altre”.
Domandarsi se di tutto questo – e altro – c’è coscienza nei proponenti di quell’appello non è un interrogativo a cui sembra possibile dare una risposta diretta. In realtà la domanda non andrebbe posta agli autori di quell’appello che proprio avendo scelto la strada dell’appello e non quella della vera e propria costituzione di un nuovo partito, sembrano dimostrare di avere la coscienza della differenza e, quindi, dei problemi accennati. La presentazione dell’Appello ma soprattutto la relazione conclusiva sembrano potere confermare questa interpretazione ma ciò nulla toglie alla straordinaria difficoltà di dare un seguito positivo, anche perché un obiettivo del genere non si può accontentare di un riscontro di consensi di un qualche percento. Mentre c’è da scommettere che si leveranno o alti silenzi o lucidissime analisi critiche. E anche perché sembra che gli autori dell’Appello siano sprovvisti di quegli strumenti del consenso che stiamo imparando a conosce tramite le cronache quotidiane .del nostro paese.
C’è, tuttavia, un’altro modo, non solo possibile ma forse anche più corretto, di leggere quella iniziativa politica, e cioè guardando al fatto che in varia misura in tutti i paesi europei qualcosa si muove in una direzione che non sembra in dissonanza anche se, come ovvio, in ogni paese assume connotati propri: in Danimarca le elezioni mettono in minoranza e all’opposizione la coalizione di centro destra, al Governo sin dal 2001; in Germania i socialdemocratici mentre superano la Merkel nelle varie elezioni locali e nei sondaggi, aprono un dialogo con la Linke, in Francia Sarkozy non se la batte bene; gli stessi partiti del PSE sono colti da una crisi di autocritica per le debolezze liberiste che li hanno coinvolti in questi anni; ecc, ecc. . Certo si tratta di segnali più consistenti di quelli che si possono cogliere da noi, ma questo non sarebbe un male incurabile perché sappiamo che abbiamo un ritardo e, allora, l’importante è sapere in che direzione dobbiamo muoverci. Ma non dimentichiamo anche che questi nostri segnali non sono nemmeno di poco conto se ci ricordiamo degli esiti del referendum, del successo dello sciopero generale, delle assemblee delle donne…