di Paolo Leon
Il 60° compleanno della Costituzione (8 gennaio 2007)
Se la Costituzione dichiara che la Repubblica è fondata sul lavoro, significa che non è fondata né sulla ricerca della felicità (che, poi, non è che l’utilità individuale di Adamo Smith) né sulla proprietà. A differenza della dichiarazione sui diritti dell’uomo del 1789, la libertà, che pure è un valore costituzionale centrale, non è il fondamento della Repubblica. A mio parere, all’epoca si doveva trovare un fondamento della collettività, della quale la Costituzione è la legge delle leggi, che fosse generale, non semplicemente individuale, e concreto, nel senso che occorreva una base sociale forte perché i diritti individuali e sociali – e la libertà – potessero essere rivendicati. Senza una base, per così dire oggettiva, come il lavoro, i diritti individuali e sociali sarebbero emersi come valori in sé, e come tali potevano facilmente tradursi nel loro contrario: il diritto individuale poteva dar luogo al diritto di esclusione, come con la proprietà privata considerata un diritto naturale, e un diritto sociale poteva dar luogo ad obblighi collettivi ispirati alla tirannia più che alla giustizia (e perfino alla giustizia come giustificazione della tirannia).
Del resto, la Costituzione non poteva semplicemente sostenere che la Repubblica era fondata sull’uomo, perché essa è scritta in un momento nel quale il semplice “dover essere” del diritto umano, senza una base oggettiva e di forza, socialmente rilevante, era stato orribilmente calpestato dalle dittature e dai genocidi. Tra l’altro, fondare la Repubblica sul lavoro, significava dare sostanza ai diritti senza riguardo al sesso, all’etnia, al colore della pelle, alla religione. Vorrei ricordare, ai nuovi Maurras, che la religione cristiana non è un fondamento della Repubblica, e proprio perché si lavora indipendentemente dalla religione professata.
E’ per questo modo di fondare la Repubblica che i diritti di cittadinanza – compresi quelli che costituiscono lo Stato sociale – possono espandersi continuamente: poiché il lavoro incorpora le innovazioni, il progresso scientifico e tecnico, anche i diritti si espandono, e i diritti che partono dai lavoratori, in piena occupazione, colgono tutti i cittadini. Se non fosse così, come del resto è effettivamente avvenuto nella nostra storia, lo Stato sociale non avrebbe avuto, mi si perdoni il bisticcio, una giustificazione sociale. Per intenderci: il sistema sanitario nazionale che realizza il diritto alla salute non deriva dalla necessità (tirannica) di migliorare la salute dei cittadini, ma dalla necessità di liberare ciascuno dal ricatto della malattia. La straordinaria eleganza dello Stato sociale – per chi lo capisce fino in fondo – sta nel fatto che costituisce diritti individuali (e perciò di libertà) uguali per tutti. Se la Repubblica si fondasse sulla felicità o sulla proprietà, allora la salute diventerebbe un bene individuale, che si può perseguire pagandosi il dottore e l’ospedale: e tanto peggio per chi non ne ha i mezzi.
Occorre aggiungere che fondare la Repubblica sul lavoro, spinge la Costituzione ad essere dinamica. Il lavoro è allo stesso tempo il veicolo della libertà individuale (l’orrido inganno, infatti, fu l’“arbeit macht frei”) e una obbligazione a sottoporre la propria forza lavoro alla disciplina altrui (dell’imprenditore per il lavoro dipendente, del mercato per il lavoro autonomo). La contraddizione può essere motore di sviluppo, di cambiamento tecnico, di innovazione sociale, di nuovi modelli organizzativi, di nuove composizioni sociali (e, di qui, le leggi e l’interpretazione giuridica arricchiscono la Costituzione).
E’, però, vero anche il moto contrario: se si fa prevalere l’obbligazione rispetto alla libertà, e il lavoro diventa mero sfruttamento, allora leggi e interpretazione impoverirannola Costituzione. Per questo, la Costituzione dà grande peso all’equilibrio dei poteri tra le parti sociali, sapendo che in origine, il potere del datore di lavoro è maggiore del potere del lavoratore – fino al punto da riconoscere costituzionalmente il sindacato e, addirittura, fino a limitare il diritto di proprietà. Così, la nostra Costituzione richiede che sia continuamente difeso l’equilibrio della contraddizione del lavoro.
Due osservazioni in proposito. La flessibilità, come costruita in Italia, ha ridotto fortemente il potere contrattuale di tutti i lavoratori, precari o stabili e, perciò, tende a stimolare una contrazione nei diritti dei lavoratori e a favorire la privatizzazione dello Stato sociale. La Repubblica, oggi, non è fondata sul lavoro, ma sul mercato del lavoro. L’attuale centro sinistra non ha voluto comprendere questa deriva eversiva delle leggi sul lavoro, anche spinta dall’Unione europea.
L’Unione, a sua volta, non è certamente fondata sul lavoro: è fondata sul libero mercato e, perciò, sulla proprietà. Questa divergenza fa nascere un conflitto tra la nostra Costituzione e i Trattati europei, che diventerebbe tanto più acuto quanto più “costituzionali” fossero quei trattati. Il problema, però, non sta tanto nella natura costituzionale dei trattati, quanto nel fatto che i trattati non fanno nascere uno Stato Europeo, con la conseguenza che i diritti di cittadinanza non sono protetti da alcuna forza oggettiva come, per noi, il lavoro. Se dovessimo irridere all’Europa, dovremmo dire che, per il momento, l’unica struttura statale é la Banca centrale e il suo fondamento è la stabilità dei prezzi, che con i diritti di cittadinanza, individuali e collettivi, non ha alcun rapporto.
L’allargamento a paesi ex comunisti ha rafforzato i tratti reazionari dell’Unione, un po’ come la restaurazione del 1815, e i nuovi Stati non fondano certo le loro Costituzioni sul lavoro. La globalizzazione aggrava questi tratti reazionari, e indebolisce la Costituzione.
Cari compagni, amici, fratelli: dovete darvi molto da fare, se volete veramente ispirare la vostra azione alla Costituzione del 1948. Se non volete,ditelo e tutto sarà più chiaro.