di Paolo Leon
Chiunque si dichiari riformista deve tornare al tavolo da disegno della riforma del mercato del lavoro, abbandonare le scorciatoie di Treu e Biagi, ricostruire la tensione per la vera piena occupazione, e nel verificare il successo della nuova riforma, agire sull’età pensionabile
Perché tanta intensità di dibattito sulle pensioni? E perché tanti organismi internazionali si affollano attorno al nostro sistema pensionistico per ridurne le dimensioni, privatizzalo, limitare il suo peso sullo Stato Sociale? La domanda non è affatto retorica, perché dopo la riforma Dini, il nostro sistema è in linea con gli altri sistemi europei, che hanno cambiato meno e più tardi del nostro.
Se togliessimo dalla previdenza gli elementi di assistenza pubblica, che gravano sui conti degli enti previdenziali, il vantaggio italiano sarebbe eclatante. E’ bene porsi il problema, anche per eliminare quel senso di urgenza e necessità che viene attribuito a questa questione dall’Unione Europea e dalla nostra stessa Banca Centrale.
Le pensioni costano troppo allo Stato, ci si dice, ed è prioritario ridurre il debito pubblico. Va detto con chiarezza, però, che le domande che provengono dalle agenzie internazionali puntano a ridurre il nostro deficit, non perché sia eccessivo in sé, ma perché impedisce agli altri paesi di entrare nel mercato dei titoli obbligazionari pubblici, oggi fortemente monopolizzato da quelli italiani. In pratica, i titoli italiani spiazzano quelli esteri. Ora, sul mercato dei titoli e nell’area dell’Euro, non ha alcuna importanza se la denominazione è italiana, francese o tedesca. Ciò che dovrebbe accontentare la BCE è la stabilizzazione del rapporto tra debito e PIL in ciascuno stato membro, non la riduzione del debito. Se invece si vuole ridurre il debito, si deve dichiarare apertamente che l‘economia italiana deve essere trattata come si usava una volta con le potenze vinte nelle guerre mondiali, perché la riduzione del nostro debito è simile in tutto alle riparazioni post belliche che portano con sé bassa crescita, se non stagnazione, quelle che Keynes, dopo la fine della prima guerra criticò e che furono poi la base della nascita del nazismo.
Naturalmente, né il FMI né la BCE esplicitano il loro pensiero e perciò lo mascherano, sostenendo che, con l’invecchiamento della popolazione, la spesa pensionistica crescerà in relazione al minor numero di lavoratori in grado di pagare i contributi, dai quali provengono le pensioni per gli anziani. Così, basta allungare la vita lavorativa in proporzione all’invecchiamento, e il numero di lavoratori contribuenti crescerà, stabilizzando il sistema.
Lo stesso effetto, con benefici economici molto maggiori, si produce se aumenta il numero di lavoratori, e se questi lavoratori contribuissero in relazione a salari e stipendi derivanti da contratti a tempo indeterminato (e, preferibilmente, pieno). Esistono in Italia ampie riserve di forza lavoro non occupata nel settore giovanile e soprattutto femminile: portare questa forza lavoro sul mercato compenserebbe ampiamente l’effetto dell’invecchiamento e renderebbe il sistema pensionistico largamente autosufficiente. Esiste anche un’ampia riserva di lavoro nero – italiana e immigrata – che riceve salari bassi e non paga i contributi – anzi, di recente abbiamo assistito al paradosso di immigrati regolarizzati e perciò non più sommersi, mentre molti italiani (compresi i loro datori di lavoro) continuano a restare sconosciuti al mercato ufficiale del lavoro.
Non si può negare che l’allungamento della vita lavorativa sia opportuno per molte categorie di lavoratori, così come per molte altre è sbagliato. Non si può nemmeno negare che la domanda di lavoro delle imprese e del settore pubblico cessa di rivolgersi a persone che abbiano un’età superiore a 45-50 anni, se si eccettuano le alte cariche aziendali e dello Stato.
Queste osservazioni suggeriscono che noi più che un problema pensionistico, ne abbiamo uno occupazionale. Il problema pensionistico è figlio di quello occupazionale. Il problema a cui sfuggono, sia i governanti sia le agenzie internazionali è quello di politiche economiche e sociali dichiaratamente liberiste, tutte predicate sull’offerta, che non garantiscono nulla in chiave occupazionale: è il mercato che determina i volumi, la qualità dell’occupato, la sua età, il suo sesso.
Hic Rhodus, dunque. Chiunque si dichiari riformista deve tornare al tavolo da disegno della riforma del mercato del lavoro, abbandonare le scorciatoie di Treu e Biagi, ricostruire la tensione per la vera piena occupazione, e nel verificare il successo della nuova riforma, agire sull’età pensionabile.
Se si ritiene che il mercato del lavoro non possa subire un intervento pubblico volto ad allargare l’occupazione, non si hanno i numeri per governare.