di Sergio Ferrari
Dobbiamo dircelo: la soddisfazione per la vittoria di Obama va al di là della conoscenza della persona e del suo programma politico. Anche se opinabile, è in fondo normale che in occasioni come queste i problemi di schieramento facciano premio su quelli più puntuali e analitici. Nello specifico la fine di Bush e della gestione repubblicana ci sembra anche la fine di un incubo e le speranze riposte in Obama erano e sono, in realtà, più il frutto di questo netta sensazione di scampato pericolo che, almeno per ora, un merito del diretto responsabile, Obama in questo caso.
C’è un’altra questione che assume un valore analogo nel senso che rappresenta una novità positiva che va al di là dei meriti dell’autore. Alludiamo alla vittoria per la presidenza degli USA di una persona di colore. Inutile spiegare i perché e i percome.
Quella amministrazione chiude il suo ciclo con il fallimento della sua politica estere guerreggiata e del suo modello economico liberista, un fallimento reso drammatico dallo tzunami finanziario, tutto frutto delle politiche di quella amministrazione e di quella scuola economica. Una conclusione significativa che, tra l’altro, dovrebbe convincere molti commentatori – anche nostrani – a visioni meno ideologiche e ragionieristiche, isolando quei pennivendoli che in tutti questi anni hanno orchestrato e alimentato il dileggio e lo sprezzo del ruolo pubblico non certo per migliorarlo, ma semplicemente per privatizzare tutto il possibile. Ma su queste mediocri questioni ci saranno occasiono specifiche per tornare a ragionare.
Ora Obama deve gestire una serie di questioni pesantissime: il recupero del sogno americano mentre potrebbe aprirsi la stagione del passaggio del testimone; l’uscita dalla crisi finanziaria e dai connessi percorsi critici dell’economia reale statunitense, modificando gli assetti redistributivi e i limiti dello stato sociale di quel paese.
In realtà lo scenario del post tzunami è tutt’altro che chiaro ed univoco non solo per Obama, ma anche per l’Europa e per il nostro paese. Potremmo immaginare due scenari che a loro volta potrebbero articolarsi in interventi variegati:
a) la crisi economico-finanziaria crea le condizioni per la nascita di un nuovo Keynes che scopre, ad esempio, la possibilità di progettare la qualità economica del nostro futuro e la sinistra da luogo alla seconda rivoluzione socialdemocratica, che non potrebbe essere una semplice estensione quantitativa della prima, insieme ad un nuovo assetto delle relazioni internazionali.
b) il secondo scenario potrebbe essere sintetizzato dal tentativo di cambiare il meno possibile e di rimettere tutto nelle condizioni precedenti scaricando le perdite sul pubblico, cioè sui cittadini, facendo volare qualche straccio per épater les bourgeois.
Per quanto riguarda il nostro paese, con il governo che ci ritroviamo, in qualunque scenario ci si voglia immaginare dovremmo solamente compiere l’operazione del meno 1. Meno 1 sullo sviluppo, meno 1 sulla giustizia redistributiva, meno 1 sulla qualità dei servizi, meno 1 sulla qualità civile del paese, sull’istruzione, sull’ambiente, sulla democrazia. E non sarà certamente Obama a cambiarci questa condizione: in fondo per questo obiettivo occorre che gli interessati si muovano. Troppo facile affidarsi al prossimo.