di Renzo Penna
A qualche mese dalle elezioni politiche di aprile la sconfitta subita dalle forze della sinistra si delinea in maniera più netta e per dimensione risulta seconda solo a quella registrata nel 1948.
Il governo Prodi, nonostante la risicatissima maggioranza parlamentare ha deciso e operato contando sulla durata dell’intera legislatura e si è mosso nella logica dei due tempi: prima il risanamento dei conti pubblici, insieme all’avvio della lotta all’evasione fiscale e poi la redistribuzione verso salari e pensioni. Sottovalutando, in questo modo, il crescente disagio sociale presente nel paese per il diminuito potere d’acquisto dei redditi della maggioranza dei lavoratori dipendenti, dei precari e dei pensionati e la necessità di dare subito un segnale in questa direzione. La crisi e la caduta, prevedibile, del governo ha impedito la seconda fase, lasciato il “tesoretto” in eredità al futuro governo e colto l’esecutivo nel suo momento di maggiore impopolarità.
Nonostante le pur positive cose fatte il governo è stato percepito, anche in ragione della continua conflittualità interna, come strutturalmente inadeguato.
Va anche detto che il Partito Democratico, pur potendo contare nel governo Prodi sui maggiori dicasteri, è apparso, per iniziativa di Veltroni, desideroso di chiudere in anticipo con l’esperienza dell’Unione e ha condotto tutta la campagna elettorale nel segno della discontinuità dal “proprio” precedente governo, promettendo una maggioranza compatta, in quanto separata dalle forze della sinistra “radicale”, e puntando con un programma generico e privo di una precisa identità culturale ad ottenere un sostanzioso consenso del centro moderato.
Come noto le cose sono andate diversamente e l’analisi dei flussi elettorali ha evidenziato come il Pd non abbia ottenuto gli auspicati consensi del centro e, paradossalmente, debba il suo dignitoso risultato proprio ai voti provenienti dalla sua sinistra, da parte di coloro che lo hanno ritenuto “più utile” per battere la destra. Quanto al raggruppamento della Sinistra e l’Arcobaleno, costruito in maniera affrettata e senza un progetto credibile, che aveva condiviso con il Pd la separazione dall’Unione, è andato incontro ad una rovinosa disfatta e ha pagato, insieme al Partito Socialista, addirittura con l’esclusione dal Parlamento, la logica del voto utile.
Il risultato del voto fotografa un Paese in profonda crisi economica e sociale, segnato da una crescente disuguaglianza, carente nei servizi, nella capacità di innovare, nel funzionamento della scuola e della giustizia, con un mezzogiorno soggiogato e impedito nello sviluppo da sempre più potenti e diffuse organizzazioni criminali che rappresentano il principale elemento di attacco alla sicurezza dei cittadini e un nord impaurito ed isterico nei confronti del diverso e lo straniero.
Un paese che ha ritenuto in questa situazione di crisi e di sfiducia di affidarsi alle ricette di Berlusconi e, soprattutto al nord, alla Lega di Bossi che è tornata ai risultati elettorali del ’94, incamerando una parte cospicua del voto operaio.
Il risultato del voto ci consegna irrisolta, e resa ancora più confusa dalla pesante sconfitta, la questione e la condizione della sinistra. L’anomalia della sinistra italiana, unica in Europa ad essere priva di una grande e autonoma formazione appartenente al Partito Socialista Europeo, era stata già sancita con la costituzione del Partito Democratico dichiaratosi un soggetto di centrosinistra e per questo non aderente al PSE. Non casualmente si è di recente costituita, tra le molte, una componente che intende rappresentare le ragioni della sinistra all’interno del Pd.
Indagare sui motivi della sconfitta e della crisi della sinistra italiana, che certo ha una sua peculiarità, ma sta dentro la più generale difficoltà che incontra la sinistra in Europa, non sarà un impegno di poco tempo e avrà bisogno di analisi, studio e ricerca sulle conseguenze degli straordinari cambiamenti in atto a livello globale nella struttura dell’economia, della finanza, dell’ambiente e della società. E ciò che questo comporta nelle classi sociali e che induce nei cambiamenti culturali i quali, alla fine, influenzano e mutano le scelte ideali e gli stessi comportamenti elettorali.
Da noi, non rappresenta un’astrazione iniziare con il porsi la domanda se ancora esistono le ragioni di una differenza sostanziale tra destra e sinistra, o se, come suggeriscono autorevoli commentatori e viste le indubbie difficoltà nelle quali versa il paese, non sia preferibile accantonare le diversità e aiutare dialogando in maniera pragmatica chi, di volta in volta, governa. Per fortuna a confutare questa interessata semplificazione ci soccorre il pensiero di Bobbio con le ragioni di una insopprimibile differenza, dovuta a una diversa e opposta considerazione del valore della uguaglianza, e come elemento caratteristico e identitario dell’essere della sinistra.
E la crescente disuguaglianza oggi riguarda la distribuzione del reddito, in un contesto nel quale i lavoratori italiani sono tra i peggio pagati in Europa, mentre il 10 per cento della popolazione, secondo i dati della Banca d’Italia, possiede una quota di reddito pari al 45 per cento. Così come la forbice tra la retribuzione media dei dipendenti e i manager della stessa impresa, privata o pubblica, in pochi anni – seguendo il modello americano – è passata dall’essere in un rapporto di uno a cinque volte, a cinquanta o cinquecento volte, e senza che ciò sia collegato ai risultati raggiunti.
E ancor prima del reddito la disuguaglianza distingue e separa secondo la natura e la tipologia del contratto di lavoro. Sono oltre cinque milioni gli italiani – come ci ricorda Luciano Gallino – che hanno un lavoro instabile, precari per legge con un contratto atipico, mentre altri due milioni, in prevalenza immigrati e irregolari sono i precari al di fuori della legge, i lavoratori del sommerso.
Come conseguenza di questo stato di cose, così come da altre situazioni presenti di disparità, ingiustizia e disuguaglianza, pare plausibile ritenere che esistono tutte le condizioni nel paese per un’ampia e motivata domanda di sinistra.
Il problema è, se mai, quello di capire chi oggi è in grado ed ha la credibilità di fornire a questo insieme di domande delle risposte concrete e dei percorsi praticabili. Anche perché gli errori di strategia, i cambiamenti, spesso solo tattici, con i quali l’elettore di sinistra ha dovuto fare i conti negli anni, insieme alle disillusioni e alle sconfitte, sono stati ripetuti e numerosi, mentre il personale politico, salvo poche eccezioni, è rimasto sempre lo stesso.
La sinistra di governo, esaurita la spinta europeista del primo esecutivo Prodi, ha smarrito il senso e il significato del proprio indirizzo riformatore. Per diverse ragioni sono stati messi da parte i principali filoni culturali del progressismo italiano e, dopo l’89, venuta meno, per evidenti motivi, l’identità comunista, il centrosinistra, nella sua componente maggioritaria, cattolica ed ex comunista, ha mantenuto tutte le sue prevenzioni e preclusioni nei confronti delle posizioni laiche, della socialdemocrazia europea e del moderno ecologismo.
Il Partito Democratico rappresenta il risultato finale di questo percorso e di un compromesso (non più storico) che ha sacrificato e scolorito cultura politica e identità programmatica nell’illusione di poter catturare i consensi di un centro moderato e cattolico, proprio quando sia il medesimo che la gerarchia della chiesa sembrano preferire alla morale una concezione della politica e riferimenti politici più pragmatici.
Questo mentre, nella stessa dimensione internazionale l’egemonia liberista sulla globalizzazione presenta evidenti segni di crisi e le teorie del meno stato più mercato lasciano il campo alla necessità di un maggiore ruolo della politica.
Dopo i risultati delle elezioni il Pd deve così fare i conti anche con le contraddizioni di un programma moderato – reso evidente dalla decisione di mantenere una improbabile equidistanza tra le ragioni del lavoro e quelle dell’impresa, da un modello di economia basato, in analogia con il centrodestra, sulla crescita del Pil e il consumo delle risorse naturali, da una propensione al dialogo con questo governo che contrasta, ogni giorno di più, con la necessità di una decisa e forte opposizione, dal permanere di una ambiguità nella collocazione del parlamento europeo – e un consenso tradizionale di sinistra proveniente, in parte, da posizioni più radicali che difficilmente lo confermeranno in futuro.
Dopo la disfatta le forze della Sinistra Arcobaleno sono alle prese con un difficile riposizionamento tra chi pensa ad un ritorno sotto i simboli e le insegne comuniste e chi, in maniera più ambiziosa, si propone di costruire un’area di sinistra distinta dal Pd, ma disponibile per una rinnovata alleanza politica e programmatica di centrosinistra. Analogamente il Partito Socialista, dopo la manifesta debolezza dimostrata in campagna elettorale, si trova nella necessità con la Costituente di realizzare un profondo cambiamento e aprirsi al confronto con le altre forze della sinistra.
Le gravi scelte illiberali che il governo Berlusconi sta decidendo con la legge sulle intercettazioni, il ritorno delle leggi ad personam, così come il clima di tensione e paura che viene alimentato sul tema della sicurezza e gli attacchi ai diritti dei lavoratori e al ruolo del Sindacato ci impongono di operare per ricostruire, con il confronto e la partecipazione, una rinnovata sinistra di governo indispensabile per un nuovo centrosinistra. Questo diviene l’obiettivo prioritario cui dedicarsi nella dimensione territoriale, in previsione degli appuntamenti elettorali del prossimo anno e, a livello nazionale, seguendo il dibattito in corso nel Pd, nei Verdi e attraverso i Congressi di Rifondazione comunista, Sinistra democratica e Partito socialista.
Pena, nell’attuale contesto politico italiano, il rimanere all’opposizione per un lungo tempo.
Alessandria, 16 giugno 2008