di Sergio Ferrari – E’ difficile non concordare con le critiche espresse da D’Alema nella sua intervista del 22 giugno u.s. al “Corriere della Sera” in relazione agli esiti delle elezioni locali appena trascorse. Che questi risultati rappresentino un motivo di riflessione negativa nei confronti del Governo – al di là degli esiti dei singoli concorrenti locali – è una questione ormai riconosciuta da parte dello stesso Presidente del Consiglio, ancorché in termini ovviamente diversi rispetto a quelli avanzati da D’Alema. Ci sarà tempo e modo per tornare sull’intervista di D’Alema, ma una prima osservazione occorre avanzarla: Renzi e il suo Governo non sono piovuti sul paese nottetempo, non sono una costruzione imprevista o priva di una sua storia e di una sua cronaca.
Certamente ci sono aspetti che non possono essere attribuiti ai suoi predecessori o ai suoi attuali critici, ma si tratta di questioni di comportamento più che di merito e di sostanza. D’Alema rivendica l’azione del governo “nella seconda metà degli anni ’90” e il modello Blair, ma dimentica che anche allora l’ltalia era ed è rimasta in coda nella classifica dello sviluppo dei paesi europei e che la conversione conservatrice di Blair si sarebbe conclusa in maniera non certo brillante per i laburisti d’oltre Manica che, tuttavia e non a caso, attualmente sono alla ricerca di una alternative a quella politica. Ci sarebbe poi da mettere nel conto attuale quella crisi dell’Unione Europea della quale attualmente si discute ma che, anche questa, non è nata ieri.. In definitiva sarebbe opportuno non avere una memoria lunga quanto fa comodo, ma piuttosto lunga quanto necessario per capire le vicende di cui si discute. E la vicenda di Renzi è iniziata quando Renzi ancora non c’era, nasce con la fine del PSI e del PCI. Il primo per “merito” di Craxi e il secondo per il crollo del muro di Berlino – due cause pressoché concomitanti ma di fin troppo evidente e diverso rilievo politico. Tuttavia entrambe utili per far concludere a personaggi come, appunto, D’Alema – per non parlare dei Veltroni – che l’unica strada politica percorribile era quella di una specie di sistema liberal-democratico, che allora andava per la maggiore a livello internazionale. Una strada che, eliminati via, via, gli ultimi residui di socialisti, è stata quella che ha portato logicamente ad esperienze quali quelle attuate da Renzi. Passando coerentemente, ad esempio, attraverso i governi Bersani e simili, delegando di fatto e di diritto alla Confindustria la gestione della politica industriale sino ad arrivare, appunto con il Governo Renzi, a nominare al governo di quel settore politico un esponente della stessa Confindustria, riservando al Governo gli interventi in materia di politica del lavoro che dovevano limitare e condizionare la presenza delle Organizzazioni Sindacali. Criticare i limiti dell’attuale Governo senza aver mai sollevato almeno delle perplessità, dalle origini ai giorni nostri, verso un Governo che “confondeva” le riforme con le controriforme e che ora raccoglie gli esiti negativi di quella politica, incominciando dai conseguenti riscontri elettorali negativi, è una situazione che deve essere corretta se non altro per evitare di commettere analoghi errori rimasti precedentemente “incompresi”. E’ vero che la concomitanza delle pur diverse crisi del PCI e del PSI rappresenta una anomalia tutta italiana, e se il conteso internazionale di stampo tacheriano ha messo in difficoltà tutta l’area socialista, tuttavia una conclusione come quella di considerare pressochè inesistente la storia socialista per poter collocarsi su posizioni ancora più a destra di quelle degli stessi socialisti europei, rappresenta prima di tutto una manifestazione di molto modesto spessore poltico e culturale. Occorre, a questo punto, aggiungere che quella sinistra che non ha seguito la strada del PD a tutt’oggi non ha superato il limite dell’assenza di una autocritica e del conseguente errore di mancare di definire valori e principi che potessero rappresentare non le fondamento di un nuovo partito di sinistra, ma il recupero critico di una storia secolare rimasta attualmente senza interpreti. Dall’Arcobaleno, agli attuali tentativi di fondare una sinistra italiana senza affrontare questo snodo storico-politico-culturale, alla variegata presenza socialista spersa in molti piccolo rivoli, compresi quelli dedicati alla “ memoria”, nel complesso sembra di essere ancora di fronte ad una fase preparatoria di una elaborazione che possa portare ad una proposta unuitaria che dovrebbe incarnare – dato il tempo intercorso – anche una valenza politica di governo all’altezza della situazione nazionale e internazionale e che dopo trent’anni dovrebbe ricominciare dalle riforme. Ma da quelle di struttura, per evitare ulteriori “approssimazioni verbali” o peggio, come quando si pretenderebbe l’aumento dei salari in Germania per evitare lo strapotere competitivo di quel paese, sposando una tesi parallela a quella che vorrebbe ridurre gli stipendi in Italia, facendo finta, in entrambi i casi, di ignorare come la competitività, misurata in termini di valore prodotto per unita di tempo di lavoro, nella situazione italiana è declinante da svariati decenni rispetto a quanto avvenuto e a quanto avviene nei paesi europei. Se poi ci si dovesse interrogare sulle terapie per affrontare i problemi nuovi che nel frattempo si sono verificati, incominciando dai divari dei redditi, delle retribuzioni, dalla disoccupazione giovanile, dai flussi migratori, dei rapporti con la finanza, ecc., ecc. , le perplessità si sommerebbero. Paradossalmente l’attuale crisi dell’UE, a seguito del referendum britannico, potrebbe agevolare la messa in discussione dei cardini liberisti su cui si fonda anche l’attuale UE incapace, non a caso, di interpretare una domanda di cambiamento molto radicale sul piano sociale, economico, culturale e ambientale. Anche in questo caso la questione richiama il titolo dell’ultimo libro di Paolo Leon nel senso che il primo problema che si pone per superare l’attuale situazione di crisi profonda e pericolosa dovrebbe essere quello di eliminare gli attuali “poteri ignoranti”. In questa direzione la prossima stagione di elezioni politiche in vari paesi, saranno dei segnali da valutare con questo metro; si tratta di eventi politici che hanno, di fatto, il denominatore comune del “cambiamento”, ma non è ancora chiaro se potrà essere verso qualche nuovo exit o, finalmente, verso un recupero di una cultura riformatrice. I segnali positivi non mancano, ma non sono ancora tali da poter consentire delle distrazioni o delle assenze.
Roma, 30 giugno 2016