di Sergio Ferrari
Associazione Labour R. Lombardi – Lega dei Socialisti Volpedo – 11 settembre 2010
Senza distogliere l’attenzione dalle vicende quotidiane che stanno accompagnando la crisi di governo e dai tempi e dai modi con i quali si potrà arrivare ad uno sperabile quanto necessario cambio di maggioranza, potrebbe essere opportuno non perdere di vista quelle vicende meno “quotidiane” ma non meno rilevanti in quanto segnano e indicano delle tendenze e che potrebbero avere un riflesso importante, almeno per quanto riguarda l’Italia, anche sul tema che stiamo discutendo.
Incominciamo, dunque, a riflettere sulle cause di una crisi che prima di essere del governo è quella di un partito. Non è in crisi, infatti, l’alleanza tra Bossi e Berlusconi – sorretta da sin troppo frequenti affermazioni di reciproca lealtà – ma è in crisi il maggiore partito di quella alleanza. Un partito costruito, tuttavia, di recente tra due soci, uniti da una convenienza per la gestione del potere e del paese ma con concezioni programmatiche e progettuali differenti se non altro per l’assenza, da parte di Berlusconi, di una memoria e di una storia politica passata, mentre quella di Fini è in fase di trasformazione in direzione del vuoto politico esistente attualmente nella destra italiana. Invano si cercherebbero in questa fusione dei due partiti un percorso culturale comune, una base sociale omogenea, una analisi storica convergente e una memoria politica in qualche misura confrontabile se non per certi possibili risvolti autoritari. Il fallimento di quella operazione di fusione politica non dovrebbe, dunque, meravigliare più di tanto, quanto piuttosto lasciare perplessi sullo spessore politico degli autori. In effetti la componente AN aveva una sua qualche non proprio nobile storia, che tuttavia aveva dovuto abbandonare. Da Fiuggi questa revisione tentava la non facile operazione di attestarsi in quel vuoto lasciato nel nostro panorama politico in una area che in tutti i paesi europei è fortemente presidiata dai parti liberal-popolari di centro-destra. La concezione populista e peronista del potere e della democrazia manifestata – anche per necessità personali – da parte di Berlusconi, non era certo l’ingrediente ideale per supportare l’ambizione finiana. Che poi a tutto questo si siano sommate divergenze caratteriali tra i due referenti, è di tutta evidenza, ma queste da sole non avrebbero creato problemi irrisolvibili se non ci fossero stati i presupposti per il fallimento in quella assenza di basi culturali, progettuali e politiche omogenee.
Pensare di inventarsi un partito di governo e di grande attrattiva elettorale, senza dotarsi di una memoria e di una storia comune, oltre ad essere una impresa molto onerosa, è molto probabile che prima o poi si riveli anche come politicamente fallimentare. Nello specifico si è trattato di una operazione che conferma la crisi politica e culturale della prima Repubblica, piuttosto che esprimere un superamento di quella crisi. La cronaca e il linguaggio che accompagnano questa attuale “scissione” esprimono adeguatamente la qualità di quella unione.
Occorre riconoscere che errori del genere – pur con attori e condizioni diverse – non sono estranei alle vicende del centro-sinistra. La cronaca, dal PDS con le convergenza tra ex pci, e socialisti, repubblicani e cristiano sociali, via via eliminati, per arrivare finalmente alla convergenza con la Margherita e, quindi, all’attuale empasse del PD, non manca certamente di “approssimazioni” politiche e culturali superate con gli slogan del “guardare oltre” o simili. Ma anche la più recente storia negativa dell’Arcobaleno potrebbe essere letta in questa stessa ottica.
Condensare in un unico soggetto storie politiche diverse, senza una costruzione progettuale e programmatica comune, è sempre stata una operazione acrobatica: o se ne verificano e se ne costruiscono le condizioni, oppure sarebbe meglio limitarsi ad alleanze elettorali o comunque contingenti, senza la pretesa di affrontare prove di valenza strategica. Peraltro evitare di confondere la costruzione di un soggetto politico con le politiche delle alleanze di governo di questo soggetto è una avvertenza sempre valida. Solo il clima da crisi culturale del paese che ha accompagnato la fine della prima repubblica, può spiegare operazioni di modesta valenza politico-strategica come quelle accennate, che, tuttavia possono essere dense di scivolose pedane etiche e civili. Ma spiegare non vuole dire condividere anche perché tra le conseguenze di queste “semplificazioni” ci sono problemi di contenuti che sono stati messi in cantina – citiamo ad esempio la politica sociale e la politica industriale, ma non sono certo gli unici esempi possibile – danneggiando e colpendo in questo modo molto negativamente il nostro paese.
Prima di tornare su questi aspetti è tuttavia opportuno segnalare come la crisi della PdL non possa essere priva di effetti su tutto l’arco politico, comprese le diverse componenti del centro-sinistra. Se si realizzano questi spostamenti nel centro-destra verso posizioni di stampo un po’ più europeo, non si può pensare che tutto il resto rimanga fermo e in particolare che le attuali semplificazioni degli schemi bipartitici stiano in piedi visto che già attualmente hanno una identità e una composizione che vengono messe costantemente in discussione. Effetti e contraccolpi sono prevedibili per tutti in funzione dei tempi e dei modi con cui l’operazione finiana si svilupperà nel Paese. E anche la Lega potrebbe essere rimessa in discussione almeno con riferimento ad un modello di organizzazione degli schieramenti politici più vicino a quello europeo. Nel centro-sinistra le difficoltà si creeranno in primo luogo per il PD, attenuandosi quella funzione di contraltare di un PdL in crisi e non più egemone, mentre si accentueranno i dissidi interni derivanti da quel processo originario di pseudounificazione e alimentati ora anche dalla necessità del PD di recuperare uno spazio a destra o a sinistra. La recente riscoperta dell’Ulivo non è in contrasto, anzi ne è una conferma che pone, in contemporanea, la questione di chi intende occupare lo spazio originario del PDS che non era certo quello coperto oggi dal PD; uno spazio la cui identità è oggi messa in discussione anche dalla crisi dellamainstream. E anche SEL dovrà uscire dai limiti attuali. O diventare il fulcro del centrosinistra, se il PD continuerà a rincorrere la destra, o entrare in un nuovo PD, ormai separato dai residui della Margherita. Ma anche in questo secondo caso potrebbe battere sul tempo le lentezze e gli errori del PD, che saranno certo duri a morire, anticipando la raccolta di un consenso elettorale, di una rappresentanza e di una storia a sinistra, uscendo dai limiti di una sigla buona per tutte le salse ma che resta, così come attualmente si presenta, senza una propria memoria, in una posizione che non consente di recuperare, insieme ai non pochi elettori variamente delusi, una collocazione nel contesto socialista europeo e, quindi una ipotesi di leadership politica nel centro-sinistra. Perché una questione sembra ormai imporsi e cioè il fatto che chi vorrà essere l’interprete in Italia di una nuova politica di sinistra dovrà necessariamente entrare in una dialettica politica di stampo socialista. Insomma anche nel centro-sinistra sarà necessario prefigurare una composizione maggiormente simile a quella europea essendo attualmente del tutto irriconoscibile da questo punto di vista. Una spinta in questa direzione viene, come accennato, dalla crisi economica internazionale che ha costretto a una dura autocritica il socialismo europeo ma che nel contempo ha posto fine ad una egemonia culturale della destra in materia non solo di politica economica e sociale. Una egemonia che aveva contagiato anche il vecchio centro-sinistra e che per essere superata deve ora essere oggetto di un rinnovamento di molti referenti. Oggi la questione a sinistra si pone in termini di capacità di elaborare politiche di sviluppo profondamente innovative e che se devono prevedere nel caso italiano, il superamento delle anomalie nazionali, devono poi essere supportate da una dimensione europea. Ma questa dimensione europea non può essere continuamente scoperta o invocata se poi si rimane di fatto marginali rispetto alle sue istituzioni e alle organizzazioni politiche che, bene o male, ne fanno parte. Anche qui il paradosso di un paese pressoché assente dal socialismo europeo – questa è la condizione attuale, da SEL al PD – non può continuare all’infinito; non si tratta certamente di osannare quel socialismo europeo che sino ad ora ha fatto obiettivamente troppo poco, ma si tratta di portare in quelle sedi la necessità della costruzione di una seconda rivoluzione socialdemocratica che attualmente, senza una sponda europea, sarebbe difficilmente immaginabile. Per ora la politica di Vendola sembra più attenta a costruire una leadership e un progetto politico piuttosto che un soggetto politico, anche se le due operazioni non andrebbero concepite come alternative quanto piuttosto come complementari.
Si tratta di una situazione che pone precise opportunità per il mondo socialista nel nostro paese, non per rivendicare meriti o meno passati, non per pretendere di essere l’artefice privilegiato da ossequiare in via preliminare, non per chiedere riconoscimenti per i sacrifici pregressi o perdoni per gli errori passati, non per aggiungere una ulteriore sigla partitica delle quali ne esistono già a sufficienza, ma essenzialmente per essere quel portatore storico dei principi di eguaglianza e di libertà, per esprimere la sua capacità di tradurli in termini alti nel nuovo contesto internazionale, nelle nuova realtà sociale e culturale internazionale e nazionali, per essere di contrasto al degrado attuale del linguaggio e della ragione, per essere l’interprete di una nuova società che mentre deve comprendere orizzonti culturali sempre più ampi, deve contrastare crescenti condizioni di emarginazione del lavoro e dei diritti. E’ su questi fronti che maggiore è la domanda politica nel paese e, forse, anche il potenziale politico di questo mondo socialista che vive oggi prevalentemente nel sommerso e in una astensione che sappiamo essere crescente proprio a sinistra. La Lega dei Socialisti ha aperto recentemente un fronte ed intende essere non un nuovo partito ma uno strumento in questa direzione. Noi pensiamo che anche i compagni di Volpedo possano coprire un ruolo importante ed intendiamo, naturalmente proseguire il dialogo e lo scambio lungo questa prospettiva perché sappiamo che non sono certo gli obiettivi finali e i valori di riferimento dei possibili fattori di divisione.
Forse non è un caso se Vendola appare il più avanzato sostenitore di una presenza socialista e se il Manifesto di SEL – verso il quale abbiamo espresso come socialisti anche alcune critiche importanti – appare per noi una base del tutto accettabile, ancorché bisognoso di integrazioni non marginali. Ma anche su alcune di queste integrazioni ci sembra di cogliere già l’assenso dello stesso Vendola, ad esempio là dove, con l’intervista al Sole24ore del 21 agosto, rivendica la necessità di avere una politica industriale perché “l’Italia vive un vero e proprio processo di deindustrializzazione che è una tragedia civile e sociale.”; un tema che rappresenta per molta sinistra retrò e per quella sinistra che ha fatto invece il salto liberista – e quindi per motivi opposti – un vero e proprio tabù. Ma anche nella Lettera degli Economisti, che abbiamo, peraltro, condiviso e sostenuto, questo specifico aspetto era sostanzialmente assente. Se, dunque, su questa questione il Manifesto di SEL a nostro avviso era e resta per ora del tutto carente, la recente uscita di Vendola dimostra che così non e detto che debba essere anche per il futuro. In linea generale sui contenuti di questo Manifesto considerazioni molto condivisibili e alle quali, quindi rimando, mi sembra siano state offerte da compagno Peppe Giudice.
Ma sarebbe ora di spolverare quel po’ di coraggio necessario per recuperare una storia, quella della separazione tra comunisti e socialisti, che mentre continua ad essere presente nell’ombra, sembra costituire una vicenda da tenere nascosta. Una posizione tragicomica ma del tutto priva, ormai, di un qualche significato: quelle vicende ci sono state, hanno portato a certe conclusioni: si tratta di vedere se si è d’accordo nel continuare a negarle, a far finta di nulla, a coprire il tutto con gli slogan del 1989 per cui se “il comunismo è morto, la socialdemocrazia sta molto male…” e quindi … viva il liberismo …. O se è venuto il momento di rimettersi a ragionare e a fare politica tutti insieme.
L’occasione potrebbe essere quella della ricorrenza del congresso di Livorno del gennaio 1921 e se Vendola volesse accogliere questo invito della Lega dei Socialisti, si potrebbe pensare ad una iniziativa conseguente. Non sarebbe una iniziativa retorica, nè di specifiche componenti politiche, ma un evento che potrebbe rimettere in moto il livello della politica in questo paese, che potrebbe finalmente porre la sinistra riformatrice al centro dell’agenda politica di questo paese.
Se s’intende veramente porre fine alla minaccia costituzionale rappresentata dall’attuale governo, alla perdita del senso etico, civile e sociale nella politica, occorre certamente una forte azione di convergenza verso un programma minimo ma ampiamente accettato nel paese, ma occorre in parallelo costruire degli antidoti di più lungo periodo e di maggiore consistenza strutturale. Solo la sinistra riformatrice può essere l’interprete di questa esigenza che è ormai una necessità per la sopravvivenza civile del paese. Da Livorno potrebbe ripartire un progetto di questa valenza.