Lettieri: “Con le elezioni sconfitta la politica europea”

Antonio Lettieri da “Eguaglianza & Libertà”

Uno dei meriti più evidenti di un regime democratico è che il periodico svolgimento delle elezioni consente di definire la continuità o l’alternanza dei governi. Ciò è particolarmente evidente nel sistemi bipartisan come negli Stati Uniti e, con alcune variazioni, in Giappone e, fino in tempi recenti, in Germania nel Regno Unito, dove uno dei due partiti principali può, da solo o in coalizione con un secondo partito, formare un nuovo governo.
Nel caso dell’Unione europea, la maggioranza del Parlamento europeo è stata stabilmente formata, nel corso di 40 anni, da due partiti dominanti: il conservatore e il socialdemocratico. La novità è che con le elezioni di maggio questi due partiti per la prima volta non hanno più la maggioranza assoluta. Una svolta storica importante. Ma che non impedisce la creazione di una nuova maggioranza, ricorrendo a uno o due partiti collaterali su una piattaforma comune sostanzialmente orientata alla continuità della vecchia politica europea. Tomasi di Lampedusa, autore del “Gattopardo”, avrebbe potuto ribadire, riferendosi alle elezioni europee di maggio, che “se vogliamo che le cose rimangano come sono, le cose dovranno cambiare”. Ma i risultati elettorali ci forniscono effettivamente un quadro in grado di avvalorare una prospettiva di pura continuità? Se diamo uno sguardo ai principali quattro paesi dell’Unione europea, che da soli comprendono la maggioranza della sua popolazione, i colori diventano molto più sfumati e il futuro molto meno certo.


Per cominciare, in Gran Bretagna il Brexit Party di Nigel Farage ha stravinto la prova elettorale col 31 per cento dei voti. Non sappiamo se l’uscita della Gran Bretagna dall’UE sarà decisa entro il prossimo autunno o se sarà aperto un nuovo negoziato. Ma qualcosa di nuovo è già successo: i Laburisti e i Conservatori, da oltre mezzo secolo tra i protagonisti della politica europea, escono dalla prova elettorale con la più grave sconfitta della loro storia. In Francia, l’evento più clamoroso è stato il sorpasso della Republique en marche, il partito di Macron, da parte del Rassemblement National di Marine Le Pen. Come dire che il protagonista più ambizioso dell’attuale politica europea non gode della fiducia dei francesi. Non a caso, la percentuale di voti ottenuta da Macron è la più bassa tra tutti i presidenti che si sono avvicendati nei quasi 60 anni della V Repubblica. Indubbiamente, l’Unione europea non porta fortuna ai governi in carica. Quanto all’Italia, il successo della Lega è andato oltre le previsioni facendone di gran lunga il primo partito, mentre si è dimezzato l’elettorato dei Cinque stelle. Ma in Italia, al contrario della Francia, i partiti che hanno governato alternandosi nell’ultimo quarto di secolo – il Partito democratico e Forza Italia – erano già usciti di scena con le elezioni dell’anno prima.
Rimane il paese più importante dei quattro, la Germania. Qui il quadro è più articolato. Ma assistiamo anche qui a una svolta importante. I due partiti che sono stati sempre al centro della politica tedesca hanno ottenuto i peggiori risultati della storia del dopo-guerra. Con la coppia CDU- CSU al di sotto del 30 per cento e i socialdemocratici, eredi di Willy Brandt e Helmut Schmidt in passato al centro della politica europea, ridotti al 15 per cento.
Certamente aver fondato e guidato l’UE e, per tre di questi paesi, l’eurozona non è stata una ragione di apprezzamento da parte dell’elettorato. In un contesto democratico, l’autorità che governa l’UE, la Commissione europea, si sarebbe dimessa in anticipo, insieme con l’insediamento del nuovo Parlamento. Ma ciò che stupisce non è che rimanga al suo posto, quanto l’accanimento col quale rilancia la sua vecchia politica che ha contribuito a un’umiliante sconfitta dei principali partiti che ne sono stati ispiratori. Con una sorprendente coincidenza, il Partito Popolare europeo e il Partito socialdemocratico hanno perduto ciascuno un quinto dei voti. Ma ancora più significativamente ne hanno perduto più o meno la metà nei principali quattro paesi dell’Unione europea, vale a dire nei paesi che insieme formano la maggioranza assoluta della popolazione dell’UE. La riprova della separazione delle istituzioni europee dai canoni di rappresentatività democratica. Ma non risulta che questa elementare conclusione abbia trovato spazio nella grande stampa europea impegnata a convincerci che nulla sia successo nell’UE, e in particolare nell’eurozona, alla fine di maggio.

Qualche tentativo di risposta
I risultati delle elezioni europee riflettono le difficoltà dell’UE e, principalmente,la crisi che nell’ultimo decennio ha colpito l’eurozona. Un confronto con gli Usa dove la crisi inizialmente esplose può aiutare a orientarci.
Il confronto è infatti illuminante. Dieci anni dopo l’inizio della crisi del 2008-09 l’eurozona rimane l’area col più basso tasso di crescita e il più alto tasso di disoccupazione tra i paesi avanzati, insieme con l’aumento delle diseguaglianze sociali e l’emarginazione delle regioni più disagiate. Il risultato elettorale rispecchia questa situazione di fatto. Invece, dopo meno di due anni di recessione gli USA, sotto la presidenza di Barack Obama, avviarono una fase di ripresa economica, che ancora si prolunga negli anni di Trump, dando luogo al più lungo periodo di crescita che si ricordi, mentre la disoccupazione si attesta al più basso livello dell’ultimo mezzo secolo. Si era temuto nell’autunno del 2008 che la crisi fosse destinata a replicare gli esiti nefasti del 1929. Ma Gli stati Uniti mostrarono di avere appreso la lezione. Con Obama, insediatosi alla CasaBianca all’inizio del 2009, l’amministrazione lanciò un programma d’investimenti pubblici di 800 miliardi. Autorevoli economisti come Krugman, Stiglitz, James Galbraithlo considerarono sbagliato per difetto, auspicando un finanziamento molto più consistente. Ma, seppure considerato insufficiente, il motore della ripresa lentamente aumentò di giri.
Il governo americano non si limitò a dare impulso all’economia ma intervenne direttamente in alcuni settori in crisi, come nel caso dell’auto, con un importante sostegno finanziario a consolidare la General Motors e la Chrysler destinata al matrimonio con la Fiat. Ancora più importante in linea di principio, Obama, non senza incontrare grandi difficoltà nel Partito repubblicano e nello stesso Partito democratico, innescò la riforma sanitaria, la più difficile che si possa immaginare in America, alla quale perfino Roosevelt aveva rinunciato, e che Johnson solo parzialmente aveva potuto realizzare trent’anni dopo.La politica di rilancio dell’economia combinava la manovra espansiva di bilancio con una politica riformatrice.
Nell’Unione europea fu adottata una politica opposta: la politica centrata sul binomio austerità-riforme strutturali. Una corda al collo destinata a imprigionare e soffocare, in particolare, l’eurozona: le prime vittime furono paesi minori come l’Irlanda, il Portogallo e, drammaticamente, la Grecia, poi fu la volta della Spagna e, dulcis in fundo, dell’Italia.
E’ in questo quadro, colpevolmente deflazionista, che non solo l’Italia rimane ancora segnata dalla crisi, oscillando fra recessione e ristagno, ma la stessa Germania, la più importante economia europea, va in recessione nel secondo semestre del 2018, e annuncia una misera crescita dello 0,5 per cento nel 2019, trascinando verso il basso l’intera area.
Secondo la profezia del premio Nobel Robert Mundell, padre spirituale della moneta unica, l’avvento dell’euro avrebbe dovuto inaugurare la nascita di una potenza economica europea capace di rivaleggiare con gli USA. L’euro si sarebbe esteso a tutta l’Unione europea contribuendo ad allargarne i confini fino a toccare le repubbliche del sud-est asiatico provenienti dalla dissoluzione dell’impero sovietico. Una previsione rivelatasi senza fondamento, ma anche un’affascinante chimera all’inizio del nuovo secolo.

Stato sociale e sindacato, vittime eccellenti
In una situazione di bassa crescita e di alta disoccupazione l’azzeramento del disavanzo pubblico e la riduzione del debito, simboli dell’austerità, non potevano non rivelarsi obiettivi irrazionali e controproducenti. L’austerità, infatti, paralizzava gli investimenti pubblici, gli unici che avrebbero potuto sostenere la crescita e l’occupazione, quando languivano gli investimenti privati. Non si sarebbe potuto fare di peggio.
L’austerità era solo un lato della medaglia. Dall’altro, c’erano le riforme strutturali dirette a ridurre il finanziamento dei servizi pubblici e dello Stato sociale. Il caso italiano del sistema pensionistico ne rappresenta un esempio eloquente. Il sistema pensionistico è stato riformato sulla scia delle controriforme raccomandate dalla Commissione europea, con il prolungamento dell’età pensionabile a 67 anni nel 2019, e in futuro a 71 per le pensioni puramente contributive. Quando l’attuale governo emenda, sia pure marginalmente, il sistema per consentire il pensionamento a chi avendo 62 anni può far valere 38 anni di contributi (Quota 100), la Commissione europea diffida il governo. Ma non si tratta solo di pensioni, l’austerità colpisce indiscriminatamente lo Stato sociale di cui annuncia le riforme. Il sistema sanitario italiano, insieme con quello francese, fu considerato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), il più efficiente del mondo sviluppato. Il blocco dei finanziamenti pubblici ha messo in crisi il sistema, sempre più caratterizzato da lunghe liste di attesa e da strutture ospedaliere inadeguate soprattutto nel Mezzogiorno. Il servizio universale e gratuito si frantuma. Il mercato delle cliniche private si espande a favore dei ceti abbienti che possono consentirsi un’assicurazione privata.

Le classi agiate hanno sempre meno bisogno del servizio pubblico, gli altri ne avvertono soprattutto in alcune regioni il deterioramento. L’austerità muove le sue pedine nel campo dello Stato sociale. Alle grandi riforme che caratterizzarono i regimi democratici si sostituisce un lento ma inesorabile scivolamento dal pubblico al privato, dallo Stato al mercato. Uno scivolamento che non ha a che fare con l’euro in quanto tale, ma con le politiche neoconservatrici che vengono imposte sotto la sua bandiera dalle autorità dell’eurozona con la complicità dei governi nazionali.
La scuola è un caso esemplare in un contesto nel quale la formazione è diventata formalmente un oggetto di culto come premessa e strumento di progresso. A scuole eccellenti, soprattutto nei centri urbani,si contrappongo scuole con strutture cadenti, senza palestre, senza biblioteche, senza laboratori nelle periferie dove le famiglie più disagiate avrebbero bisogno di una scuola efficiente in grado di compensare il diffuso disagio sociale. Mentre, dal canto loro, gli insegnanti sono i peggio pagati nei paesi avanzati, quando non rimangono precari oltre ogni limite ragionevole.
L’austerità non getta la sua ombra solo nel campo del welfare e degli investimenti pubblici di cui si lamenta la carenza ogni volta che si verifica un disastro per eventi naturali, oltre a constatarne la permanente insufficienza e il degrado delle opere pubbliche. Tutti aspetti che impoveriscono la vita collettiva e indeboliscono la fiducia nello Stato. In ogni caso, non piace alla Commissione europea nemmeno il reddito di cittadinanza di recente varato in Italia. Un tipo di assistenza che in forme diverse è diffuso in tutti i paesi avanzati e che, eventualmente, potrebbe essere criticato per non assicurare una copertura più larga di quella riservata alle forme di povertà estrema. Ma non basta. C’ è una dimensione del binomio austerità-riforme strutturali con un carattere generale: la frantumazione del mercato del lavoro. L’obiettivo è in questo caso la destrutturazione della contrattazione collettiva. In particolare della contrattazione nazionale di categoria che ha l’obiettivo di una copertura non solo salariale ma delle condizioni di lavoro dell’insieme del mondo del lavoro dipendente.
L’obiettivo è il passaggio alla contrattazione aziendale come modello autosufficiente. A questo livello, soprattutto in una condizione di ristagno economico e alta disoccupazione, senza l’adeguamento del quadro generale fornito dalla contrattazione di categoria, le forme, i tempi e i contenuti sono nelle mani dell’impresa. Ammesso che ci siano imprese disposte ad aprire un negoziato che non sia sui licenziamenti o sulla Cassa integrazione come possibile o parziale alternativa.
Nel secolo scorso questa politica sociale si sarebbe definita reazionaria. Ma oggi ogni riferimento al passato è considerato un sintomo di arretratezza culturale e di nostalgia politica. Per venire ai nostri giorni, la tendenza è verso il modello degli Sati Unti, dove nel settore privato la contrattazione nazionale non esiste e quella aziendale copre il sette per cento dei lavoratori. Per cui alla Ford o alla GM puoi avere l’United Automobile Workers (UAW), nato nei tempi gloriosi del New Deal, in grado di negoziare un accordo collettivo in uno stabilimento di Detroit o del Canada, ma non in un altro degli Stati del Sud, dove più plateale è la minaccia dei licenziamenti o della chiusura dello stabilimento.

Ideologia e pratica della Commissione europea
La talpa che scava all’ombra della combinazione austerità-riforme strutturali, nei rapporti sociali in funzione della loro progressiva deregolazione, è il segno ideologico e politico della tecnocrazia europea. Una tecnocrazia che ha il vantaggio di essere stabile, senza alternativa, non sfiduciabile, mentre i governi nazionali hanno il difetto di essere sottoposti alle periodiche verifiche degli elettori, segno distintivo dei regimi democratici.
Del resto, quand’anche un grande paese – mettiamo l’Italia o la Francia – decidesse di opporsi a una valutazione della Commissione o del Consiglio europeo nel quale sono rappresentati i 28 governi, la sua posizione dovrebbe confrontarsi con almeno una decina di governi al vertice di altrettanti paesi la cui popolazione complessiva è minore di quella di un solo Stato membro come l’Italia o la Francia. Di qui la minaccia di una procedura d’infrazione contro il governo italiano che, a parte la sua assurdità, non potrebbe essere varata senza il sostegno di molti mini-governi satelliti.
Si ripropone qui il tema dell’identità e della sovranità nazionale. Apparentemente, l’unica disponibilità che rimane nelle mani dei governi degli Stati nazionali (in questo caso riemerge la sovranità dello Stato nazionale) è di decidere sui temi della guerra e della pace. In effetti, una condizione astratta, trattandosi di un campo nel quale non sono gli Stati, rappresentanti di piccole o medie potenze, a decidere, ma normalmente le organizzazioni internazionali, come la Nato, delle quali fanno parte. La sovranità nazionale rimane una prerogativa e un dato di fatto al quale nessun paese ha rinunciato. E sarebbe interessante scoprire che vi abbiano segretamente rinunciato la Francia o la Germania. Ma la Commissione europea si comporta nei confronti degli Stati membri come se potesse disporre delle loro politiche nazionali in tutti i settori della vita collettiva, compresi quelli che appartengono all’identità storica di ciascun paese, come nelle materie dello Stato sociale, delle politiche industriali, delle misure speciali per le regioni in ritardo di sviluppo, dell’assistenza ai cittadini in stato di bisogno. In sostanza, l’annichilimento delle funzioni dello Stato nazionale in funzione della sovranità del mercato, di cui le autorità europee si sentono i supremi guardiani.
E’ l’attuazione di una sorta di thatcherismo allo stato puro – nei fatti mai compiutamente realizzato – incardinato sul principio: meno Stato e più mercato. Un’ideologia, per quanto astratta, coerente con la perdita d’identità dello Stato.

Le identità nazionali
Giuliano Amato, per la sua storia animato da indubitabile fede europeista, significativamente scrive a questo proposito: “In primo luogo le istituzioni europee saranno più legittimate se sarà dato più spazio alle identità nazionali, perché è proprio la percezione di un’assenza di riconoscimento delle identità nazionali che crea alienazione nei confronti dell’Europa” (Il Sole 24 Ore, 7giugno 2019). L’osservazione non concerne una posizione genericamente accademica. Amato prima di essere un giudice della Corte costituzionale è stato un uomo di governo e un attore di primo piano nell’edificazione dell’Unione europea. Quando raccomanda di non sacrificare l’identità nazionale cedendo a una forma di “alienazione nei confronti dell’Europa”, non solo esprime un giudizio critico sul presente ma indica una possibile via per il futuro.
In realtà, si tratta di puro buon senso per chi è convinto di vivere in un paese fondato su una costituzione democratica che prevede accordi sovranazionali ma certamente non alienazione della sovranità nazionale. Ma il paese è stranamente ripiegato su se stesso sotto l’urto minaccioso di una tecnocrazia priva di basi e di verifiche democratiche. Una Commissione europea che minaccia ferro e fuoco nella previsione di un disavanzo di bilancio che potrebbe aumentare di alcuni decimali – cosa, peraltro, del tutto normale in una situazione di stagnazione economica derivante dal quadro internazionale.
Un organismo formato da 28 membri in rappresentanza di altrettanti Stati, in larga maggioranza sconosciuti perfino agli addetti ai lavori. Dove primeggiano, da un lato, Valdis Dombrovskis, ex capo del governo della Lettonia, con la capitale Riga gradevole da visitare, ma con una popolazione più o meno pari alla metà di quella della Puglia. Dall’altro, Moscovici, socialista e ex ministro delle Finanze in Francia, sotto la presidenza di Hollande, il cui partito è incorso nel peggiore risultato della sua storia dopo la fondazione della V Repubblica.
Ovviamente il problema non è l’euro, come moneta comune, ma la politica che vi è stata sovrapposta con la pretesa di determinare le politiche di carattere tipicamente nazionale che secondo le regole democratiche rientrano nelle prerogative dei governi democraticamente eletti, secondo una dialettica che esprime un giudizio sul loro operato e i risultati che ne sono derivati.
Le elezioni di maggio nei quattro più importanti paesi dell’Unione europea e nei tre più importanti dell’eurozona sono stati un giudizio inequivocabile sul fallimento delle politiche praticate nell’eurozona. In altri termini sulla cattiva politica condotta all’insegna dell’euro. Il problema non è infatti il segno monetario ma le politiche condotte sotto la sua bandiera.
La crisi del 2008-09 sconvolse, come abbiamo ricordato, l’economia americana. Ma la responsabilità non fu certo attribuita al dollaro, ma all’avventurosa politica del presidente della Fed AlanGreenspan, durante il cui mandato si era sviluppata la bolla immobiliare e finanziaria destinata a scoppiare. Il problema dunque non era nel dollaro, ma nella politica fiscale e monetaria. Negli anni successivi con l’adozione di una politica economica finalizzata alla crescita, al riordino dei settori in crisi e all’occupazione se n’è avuta la riprova.
Vi sono buone ragioni per sostenere che il problema non è l’euro ma la politica adottata dall’eurozona sotto le sue insegne. La politica di un organismo tecnocratico, sottratto alle verifiche di rappresentatività democratica e sostenuto dagli interessi delle elites economiche e finanziarie e dalla complicità dei governi di tutti i colori. Le elezioni di maggio hanno rotto i vecchi equilibri nei principali paesi delle’UE e dell’eurozona in particolare. E’ difficile predire il futuro che rimane incerto per definizione. Ma una valutazione del passato può essere fatta senza timori reverenziali. Che l’eurozona nel suo complesso a dieci anni dalla crisi sia l’area con la minore crescita e la più alta disoccupazione e che ancora sia sottoposta all’alternarsi di recessione e ristagno è un dato di fatto. Se la politica è l’arte del cambiamento, questo è il momento della politica.

Mercoledì, 19. Giugno 2019

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