Altro che dazi sulle auto elettriche, per competere con la Cina servono politiche industriali
Nelle acque agitate della difficile situazione dell’economia europea, l’incombente concorrenza dell’industria cinese rappresenta un punto di massima attenzione, e le recenti vicende che riguardano la contesa sul mercato dell’auto elettrica ne sono un segno evidente. Lo scorso luglio la Commissione europea è ricorsa infatti all’introduzione di dazi molto elevati sui veicoli elettrici a batteria importati dalla Cina, ritenendo di tutelare in questo modo i produttori della Ue, altrimenti danneggiati dal vantaggio di prezzo di cui godono quelli cinesi grazie alle speciali sovvenzioni elargite a questo settore nel loro Paese. Ma per capire se l’orientamento intrapreso dall’Europa sia il più opportuno è necessario comprendere in che misura la competitività dei veicoli elettrici prodotti in Cina sia davvero ascrivibile alla sola esistenza di sovvenzioni, o se si inserisca in una più ampia strategia pensata per lo sviluppo del sistema produttivo nazionale. Ed è da questo interrogativo che bisogna prendere le mosse per fare luce sulle reali difficoltà che sta attraversando l’industria europea (e di qui tutta l’economia dell’area), a meno che non ci si voglia illudere che il protezionismo sia la panacea di tutti i mali.
Ad oggi non poche sono le voci convergenti nel riconoscere che le incursioni della Cina sui mercati occidentali sono il frutto ormai maturo di politiche economiche tese a promuovere lo sviluppo del Paese all’insegna dell’autonomia della sua base produttiva, sostenendo in particolare l’espansione delle filiere industriali nei settori delle tecnologie avanzate, che presentano più dinamiche prospettive di crescita. Da paese che ospitava gli investimenti produttivi delle maggiori economie industrializzate, la Cina, forte di un approccio che aveva caratterizzato una prima importante fase del suo lungo processo di modernizzazione, ha saputo sfruttare in tempi relativamente rapidi la leva della globalizzazione, capitalizzando l’acquisizione del know-how estero e dando successivamente luogo a ingenti piani di investimento pubblico su base pluriennale, con l’obiettivo di munirsi di una propria capacità di ricerca e innovazione.
In tale contesto la Cina ha saputo inoltre cogliere l’enorme rilevanza delle tecnologie per la mitigazione climatica (tanto da inserirle già agli inizi degli anni duemila tra quelle strategiche), arrivando a destinare alla ricerca in questo campo finanziamenti pubblici sempre più ingenti (tali da portarla già dal 2017 ad essere su questo fronte il primo investitore a livello mondiale) e conquistando infine posizioni di leadership anche nella produzione di brevetti.
La storia dell’auto elettrica s’inquadra dunque in questo scenario e ha in qualche modo il merito di aver riportato alla ribalta l’attuale ritardo tecnologico dell’industria occidentale e la conseguente crisi di competitività che ha investito quest’ultima.
La posizione dell’Europa appare peraltro oltremodo critica se confrontata con quella degli Stati Uniti, che nel 2022 con l’Inflation reduction act hanno almeno iniziato ad avviare un cambiamento di rotta, intervenendo nel settore delle energie pulite con un sostanzioso finanziamento pubblico volto anche a stimolare la ricerca e a sostenere lo sviluppo industriale delle nuove tecnologie (Iea, World energy investment 2023).
La crisi dell’auto elettrica europea finisce così per essere un po’ come la punta di un iceberg di una perdita di competitività che l’Ue ha accumulato da tempo nei settori più rilevanti delle tecnologie pulite, vedendo crescere a ritmi incalzanti il proprio debito estero nei confronti della Cina. Basti solo citare il deficit di fine 2023 di più di 19 miliardi di euro riportato rispetto a quest’ultima nel fotovoltaico e, parallelamente quello di oltre 17 miliardi di euro conseguito negli accumulatori agli ioni di litio, che rivestono un’importanza cruciale per lo sviluppo dei processi di elettrificazione. Cifre ben più consistenti del passivo commerciale registrato nel settore dei veicoli elettrici, pari a oltre 8 miliardi di euro sempre a fine 2023, che però sottende un più accentuato peggioramento dell’interscambio con la Cina nell’ultimo periodo (come rilevato in un recente approfondimento sul commercio internazionale di tecnologie per la decarbonizzazione condotto nell’ambito dell’Analisi trimestrale del sistema energetico italiano curata dall’Enea).
L’introduzione di dazi particolarmente onerosi sui veicoli elettrici importati dalla Cina ha dunque a questo punto per l’Europa lo stesso senso di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da un bel po’ di tempo. Scoraggiare eccessivamente la domanda in un settore che non è ancora decollato implica oltretutto mettere un freno agli investimenti necessari per raggiungere come minimo una scala ottimale di produzione, con effetti immediatamente non trascurabili sul rispetto dei più stringenti obiettivi di decarbonizzazione fissati dalle politiche climatiche. I dati recentemente riportati sulle pesanti flessioni delle vendite di auto elettriche in Europa non risultano d’altra parte in contraddizione con questo quadro, ma evidenziano semmai come l’espansione del settore debba essere sostenuta inizialmente anche da opportune politiche di incentivazione, tenuto conto dell’evoluzione della normativa ambientale (come dimostra l’impatto negativo sull’intero mercato europeo della contrazione delle vendite di auto elettriche in Germania, seguita alla fine degli incentivi nel 2023).
L’Europa farebbe bene pertanto a ritornare sui suoi passi e a considerare seriamente la questione di dotarsi di politiche industriali che coniughino il rilancio del sistema produttivo dell’area con gli ambiziosi obiettivi di tutela del clima di cui si è fatta tra i primi portavoce. E non è un caso che il recente rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa vada proprio in questa direzione, individuando nella capacità di innovazione di cui dovrebbe disporre l’Unione la chiave di volta per affrontare il difficile trilemma della crescita economica, della decarbonizzazione e di una sufficiente autonomia dalla produzione estera.
La strada da percorrere è ancora lunga, ma ricca di opportunità: stando a quanto riportato dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), una larga parte delle tecnologie necessarie per raggiungere gli obiettivi della decarbonizzazione al 2050 è ancora allo stato dimostrativo o prototipale (in alcuni casi anche per più del 50%) e un’accelerazione della transizione energetica si fa sempre più urgente. Volendo ragionare dei maggiori ostacoli che l’Europa si trova a dover affrontare per rilanciare la sua competitività, sarebbe allora quanto mai necessario tornare a riflettere sulle regole in cui si inscrive la governance delle politiche economiche dell’Unione, certamente carente in materia di interventi per l’industria quanto a coordinamento e flessibilità nell’uso degli strumenti disponibili, ma a monte di tutto costretta dentro il ristretto spazio di azione concesso alla politica fiscale dalle regole del Patto di stabilità, che pone tuttora un forte limite al finanziamento pubblico.
Da troppo tempo si discute (invano) di pensare quantomeno a un qualche scorporo delle spese d’investimento dal computo del disavanzo di bilancio pubblico, introducendo così una flessibilità realmente funzionale al perseguimento di uno sviluppo economico sostenibile. L’occasione è d’oro per iniziare a farlo.
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