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Penna: DALLE POLITICHE KEYNESIANE  AL NEOLIBERISMO

DALLE POLITICHE KEYNESIANE  AL NEOLIBERISMO*

 Lo shock petrolifero e la fine di Bretton Woods

Tra gli accadimenti internazionali dei primi anni ’70 tutti ricordiamo, per i suoi effetti sulla mobilità delle nostre città, lo shock petrolifero causato, negli ultimi mesi del ’73, dal quadruplicamento del prezzo della benzina deciso dai paesi produttori dell’Opec come ritorsione nei confronti dei paesi occidentali per il sostegno fornito ad Israele nella quarta guerra arabo-israeliana. Conflitto iniziata da egiziani e siriani il 6 ottobre 1973 durante la festività religiosa ebraica dello Yom Kippur.

Dai Paesi produttori si decretò l’embargo nei confronti dell’occidente riducendo progressivamente la produzione di greggio. Come conseguenza l’economia delle nazioni occidentali dovette fare i conti con un aumento improvviso e sostenuto del prezzo della sua principale materia energetica. Lo sviluppo economico del dopoguerra, infatti, era divenuto sempre più dipendente dal petrolio come fonte privilegiata di energia per l’industria, i trasporti, il riscaldamento.

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Daniela Palma: Altro che dazi sulle auto elettriche

Altro che dazi sulle auto elettriche, per competere con la Cina servono politiche industriali

Dobbiamo allentare le maglie del Patto di stabilità, per scorporare gli investimenti dal disavanzo di bilancio pubblico
Di Daniela Palma, 

Nelle acque agitate della difficile situazione dell’economia europea, l’incombente concorrenza dell’industria cinese rappresenta un punto di massima attenzione, e le recenti vicende che riguardano la contesa sul mercato dell’auto elettrica ne sono un segno evidente. Lo scorso luglio la Commissione europea è ricorsa infatti all’introduzione di dazi molto elevati sui veicoli elettrici a batteria importati dalla Cina, ritenendo di tutelare in questo modo i produttori della Ue, altrimenti danneggiati dal vantaggio di prezzo di cui godono quelli cinesi grazie alle speciali sovvenzioni elargite a questo settore nel loro Paese. Ma per capire se l’orientamento intrapreso dall’Europa sia il più opportuno è necessario comprendere in che misura la competitività dei veicoli elettrici prodotti in Cina sia davvero ascrivibile alla sola esistenza di sovvenzioni, o se si inserisca in una più ampia strategia pensata per lo sviluppo del sistema produttivo nazionale. Ed è da questo interrogativo che bisogna prendere le mosse per fare luce sulle reali difficoltà che sta attraversando l’industria europea (e di qui tutta l’economia dell’area), a meno che non ci si voglia illudere che il protezionismo sia la panacea di tutti i mali.

Ad oggi non poche sono le voci convergenti nel riconoscere che le incursioni della Cina sui mercati occidentali sono il frutto ormai maturo di politiche economiche tese a promuovere lo sviluppo del Paese all’insegna dell’autonomia della sua base produttiva, sostenendo in particolare l’espansione delle filiere industriali nei settori delle tecnologie avanzate, che presentano più dinamiche prospettive di crescita. Da paese che ospitava gli investimenti produttivi delle maggiori economie industrializzate, la Cina, forte di un approccio che aveva caratterizzato una prima importante fase del suo lungo processo di modernizzazione, ha saputo sfruttare in tempi relativamente rapidi la leva della globalizzazione, capitalizzando l’acquisizione del know-how estero e dando successivamente luogo a ingenti piani di investimento pubblico su base pluriennale, con l’obiettivo di munirsi di una propria capacità di ricerca e innovazione.

In tale contesto la Cina ha saputo inoltre cogliere l’enorme rilevanza delle tecnologie per la mitigazione climatica (tanto da inserirle già agli inizi degli anni duemila tra quelle strategiche), arrivando a destinare alla ricerca in questo campo finanziamenti pubblici sempre più ingenti (tali da portarla già dal 2017 ad essere su questo fronte il primo investitore a livello mondiale) e conquistando infine posizioni di leadership anche nella produzione di brevetti.

La storia dell’auto elettrica s’inquadra dunque in questo scenario e ha in qualche modo il merito di aver riportato alla ribalta l’attuale ritardo tecnologico dell’industria occidentale e la conseguente crisi di competitività che ha investito quest’ultima.

La posizione dell’Europa appare peraltro oltremodo critica se confrontata con quella degli Stati Uniti, che nel 2022 con l’Inflation reduction act hanno almeno iniziato ad avviare un cambiamento di rotta, intervenendo nel settore delle energie pulite con un sostanzioso finanziamento pubblico volto anche a stimolare la ricerca e a sostenere lo sviluppo industriale delle nuove tecnologie (Iea, World energy investment 2023).

La crisi dell’auto elettrica europea finisce così per essere un po’ come la punta di un iceberg di una perdita di competitività che l’Ue ha accumulato da tempo nei settori più rilevanti delle tecnologie pulite, vedendo crescere a ritmi incalzanti il proprio debito estero nei confronti della Cina. Basti solo citare il deficit di fine 2023 di più di 19 miliardi di euro riportato rispetto a quest’ultima nel fotovoltaico e, parallelamente quello di oltre 17 miliardi di euro conseguito negli accumulatori agli ioni di litio, che rivestono un’importanza cruciale per lo sviluppo dei processi di elettrificazione. Cifre ben più consistenti del passivo commerciale registrato nel settore dei veicoli elettrici, pari a oltre 8 miliardi di euro sempre a fine 2023, che però sottende un più accentuato peggioramento dell’interscambio con la Cina nell’ultimo periodo (come rilevato in un recente approfondimento sul commercio internazionale di tecnologie per la decarbonizzazione condotto nell’ambito dell’Analisi trimestrale del sistema energetico italiano curata dall’Enea).

L’introduzione di dazi particolarmente onerosi sui veicoli elettrici importati dalla Cina ha dunque a questo punto per l’Europa lo stesso senso di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da un bel po’ di tempo. Scoraggiare eccessivamente la domanda in un settore che non è ancora decollato implica oltretutto mettere un freno agli investimenti necessari per raggiungere come minimo una scala ottimale di produzione, con effetti immediatamente non trascurabili sul rispetto dei più stringenti obiettivi di decarbonizzazione fissati dalle politiche climatiche. I dati recentemente riportati sulle pesanti flessioni delle vendite di auto elettriche in Europa non risultano d’altra parte in contraddizione con questo quadro, ma evidenziano semmai come l’espansione del settore debba essere sostenuta inizialmente anche da opportune politiche di incentivazione, tenuto conto dell’evoluzione della normativa ambientale (come dimostra l’impatto negativo sull’intero mercato europeo della contrazione delle vendite di auto elettriche in Germania, seguita alla fine degli incentivi nel 2023).

L’Europa farebbe bene pertanto a ritornare sui suoi passi e a considerare seriamente la questione di dotarsi di politiche industriali che coniughino il rilancio del sistema produttivo dell’area con gli ambiziosi obiettivi di tutela del clima di cui si è fatta tra i primi portavoce. E non è un caso che il recente rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa vada proprio in questa direzione, individuando nella capacità di innovazione di cui dovrebbe disporre l’Unione la chiave di volta per affrontare il difficile trilemma della crescita economica, della decarbonizzazione e di una sufficiente autonomia dalla produzione estera.

La strada da percorrere è ancora lunga, ma ricca di opportunità: stando a quanto riportato dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), una larga parte delle tecnologie necessarie per raggiungere gli obiettivi della decarbonizzazione al 2050 è ancora allo stato dimostrativo o prototipale (in alcuni casi anche per più del 50%) e un’accelerazione della transizione energetica si fa sempre più urgente. Volendo ragionare dei maggiori ostacoli che l’Europa si trova a dover affrontare per rilanciare la sua competitività, sarebbe allora quanto mai necessario tornare a riflettere sulle regole in cui si inscrive la governance delle politiche economiche dell’Unione, certamente carente in materia di interventi per l’industria quanto a coordinamento e flessibilità nell’uso degli strumenti disponibili, ma a monte di tutto costretta dentro il ristretto spazio di azione concesso alla politica fiscale dalle regole del Patto di stabilità, che pone tuttora un forte limite al finanziamento pubblico.

Da troppo tempo si discute (invano) di pensare quantomeno a un qualche scorporo delle spese d’investimento dal computo del disavanzo di bilancio pubblico, introducendo così una flessibilità realmente funzionale al perseguimento di uno sviluppo economico sostenibile. L’occasione è d’oro per iniziare a farlo.

Da greenreport.it
Daniela Palma ha conseguito laurea e dottorato di ricerca in discipline statistiche ed economiche presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. È stata Visiting Research Fellow presso il National Center for Geographic Information and Analysis del National Science Foundation degli Stati Uniti. Dirigente di ricerca presso l’Enea nelle aree dell’economia dell’innovazione e dello sviluppo e dell’analisi della sostenibilità ambientale ed economica, è autrice di diversi articoli pubblicati in riviste e libri sia a livello nazionale che internazionale.

 

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Lettieri: “Dalle elezioni Europee in crisi i governi francese e tedesco”

“I terremoti in Europa in un nuovo ordine mondiale”, di Antonio Lettieri

L’esito delle elezioni ha mostrato la crisi dei governi francese e tedesco, cioè dei due paesi che sono stati determinanti nella costruzione e nella guida dell’Unione europea fin dallo storico incontro tra De Gaulle e Adenauer nel 1958. E questo mentre nel mondo si inaspriscono le rivalità e si stringono inedite alleanze

L’importanza delle elezioni europee era ampiamente nota. Ma era impossibile prevedere un cambiamento così radicale nel mondo europeo. La vittoria del partito di Le Pen in Francia era attesa. Ma il risultato supera ogni previsione a causa del crollo del partito di Macron, con un misero 14% di voti.

Fino a pochi giorni fa Francia e Germania, seppure con accenti diversi, erano ancora una coppia al centro dell’Unione Europea. Ora il quadro è cambiato. Alla clamorosa sconfitta di Macron si accompagna quella di Scholz.
I tre partiti del governo tedesco hanno subito perdite clamorose, raggiungendo insieme poco più del 30% dei voti, circa un terzo del totale dei voti tedeschi. In sostanza, l’alleanza franco-tedesca vede il collasso dei partiti degli attuali governi.
Ma non è l’unica novità. Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra, ha vinto più del previsto. Se la vittoria si consolidasse nelle elezioni del 30 giugno e 7 luglio, potremmo assistere ad una svolta clamorosa per la Francia e l’Unione Europea, con il giovane Jordan Bardella capo del governo e Marine Le Pen candidata alla presidenza della Repubblica nel 2027.

L’alleanza franco-tedesca

C’è stato un tempo in cui l’alleanza franco-tedesca era considerata un punto di svolta, fondamentale nella costruzione della Comunità europea. Fu suggellata nello storico incontro nell’autunno del 1958 tra Charles de Gaulle, eletto in estate alla guida della Francia, e Konrad Adenauer, nella residenza privata di Colombey-les-Deux-Églises . Una svolta che dominò i decenni successivi con l’alleanza franco-tedesca.
Tuttavia per de Gaulle i paesi appartenenti alla Comunità europea dovevano mantenere la propria sovranità in un quadro di stretta collaborazione sia nelle politiche interne che in quella internazionale.
Ma ciò che seguì fu caratterizzato da tendenze diverse, con Mitterrand e Delors che videro nell’alleanza franco-tedesca la direzione dell’Unione Europea come alternativa sostanziale alla sovranità degli Stati che la componevano. Come sappiamo, questo capitolo della storia europea si è chiuso con la clamorosa sconfitta di Macron e Schulz nei due principali paesi dell’Unione.
Il cambiamento radicale in Francia coincide – come si diceva – con la clamorosa sconfitta del governo tedesco, con la somma dei partiti di centrosinistra al 31 per cento: Socialdemocrazia ridotta a 14 seggi, Verdi e Liberali rispettivamente a 12 e 5 seggi. Insieme i partiti che sostengono l’attuale governo hanno meno di un terzo dei 96 seggi tedeschi al Parlamento europeo.
Il recente successo della destra in Francia e Germania ha avuto importanti ripercussioni anche in Italia con il consolidamento del partito di destra Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni e dei suoi alleati: Forza Italia, fondata da Berlusconi, e la Lega guidata da Salvini. Buono invece il risultato del Partito democratico guidato da Elly Schlein con oltre il 24 per cento dei voti. Un avanzamento che, però, coincide con il drastico arretramento, seppure previsto, del Movimento Cinque Stelle .
Uno scenario in evoluzione

La politica europea ha subito un cambiamento radicale con il successo iniziale dell’approccio americano basato sulla rottura dei rapporti con la Russia.
L’America ha vinto la prima mano della partita giocata in Europa, ma si ritrova ad affrontare una realtà inaspettata. La Russia, apparentemente espulsa dall’Europa, ha stretto un accordo con la Cina. Nel frattempo, Cina e Russia fanno parte dell’alleanza tra Brasile e Sudafrica insieme all’India, dove il capo del governo Narendra Modi ha vinto nuovamente le recenti elezioni. E molti altri paesi devono essere aggiunti dall’America Latina e dall’Africa.
In questo mutato assetto planetario, gli Stati Uniti hanno sostanzialmente abbandonato l’Ucraina, cercando nel contempo di frenare la politica israeliana nei confronti della Palestina dopo la sostanziale distruzione dei centri abitati nella Striscia di Gaza e la dispersione di oltre un milione e mezzo di palestinesi sui 2 milioni e mezzo della Striscia.
Al profondo cambiamento dello scenario europeo si accompagnano gli inaspettati cambiamenti in Medio Oriente dove l’Arabia Saudita ha pianificato un importante rapporto con l’Iran pur avendo una vecchia alleanza con gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, si è schierata a favore di una soluzione del conflitto con la Palestina indipendente da Israele.
Il mondo è diventato più complicato negli ultimi anni, quando il problema sembrava essere proprio la separazione della Russia dai confini europei e forse l’eliminazione di Putin dalla leadership russa.
Biden – che ha problemi familiari a causa della condanna del figlio come ex consigliere del governo ucraino – ha cercato di convincere il governo israeliano a fermare l’attacco a Gaza senza riconoscere il ruolo di Hamas nella lotta per l’indipendenza palestinese. Ma finora senza risultati concreti, vista la posizione di Netanyahu volta a eliminare il tentativo palestinese di avere uno Stato indipendente accanto a Israele.
La politica di Biden resta alla ricerca di una soluzione incentrata sulla sospensione – ma con quale esito? – dello scontro israelo-palestinese che potrebbe favorire il possibile successo di Trump alle elezioni di novembre. Una vittoria che, tra l’altro, coinciderebbe con la volontà di Trump di sospendere il conflitto con la Russia, ponendo la Cina al centro del confronto.
Pertanto, i cambiamenti verificatisi nelle esperienze europee vengono inaspettatamente inseriti in un quadro internazionale in movimento. Il futuro non può essere previsto. Ma è certo che il quadro è cambiato sotto molti aspetti. Vedremo quali conseguenze avranno i terremoti in Francia e Germania, i paesi più importanti nel passato come nel futuro dell’Unione Europea.

Sabato, 15. Giugno 2024,  da: eguaglianzaeliberta.it

 

SE MANCA LA GIUSTIZIA SOCIALE VIENE MENO LA LIBERTA’

SE MANCA LA GIUSTIZIA SOCIALE VIENE MENO LA LIBERTA’

di Renzo Penna – 25 aprile 2024*

La data del 25 aprile è simbolo dell’Italia libera e liberata, dopo venti mesi di Resistenza e uno straordinario tributo di sangue e di dolore. Fine dell’occupazione tedesca. Fine del fascismo. Fine del conflitto. Si abbatteva lo Stato fascista, ma anche il vecchio Stato liberale, e si avviava la costruzione di un nuovo Stato e di una nuova società. Il 2 giugno del 1946 il popolo sceglieva la Repubblica, votavano per la prima volta anche le donne e con la Costituzione del 1948 nasceva l’Italia democratica che si fonda sul lavoro e che ripudia la guerra.

Dovrebbe essere questa la festa più importante dell’anno, nella quale tutti si riconoscono e celebrano la riconquistata democrazia. Perché cosi non è? Come mai può accadere che, in previsione del 25 aprile, ad uno scrittore, uno storico noto per il suo impegno democratico, sia impedito di intervenire sul significato della festa in una rete della televisione pubblica?

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IL PARTITO DEL NON VOTO – E le ragioni del voto alla destra della working class 

IL PARTITO DEL NON VOTO – E le ragioni del voto alla destra della working class 

di Renzo Penna

Le recenti elezioni regionali hanno confermato la tendenza degli italiani a ridurre la partecipazione al voto. Nelle politiche si è passati dal 93,4% del 1976 al 63,9% delle ultime elezioni, settembre 2022, quando si è registrato un calo di 9 punti sulle precedenti del 2018. Il peggior crollo di partecipazione nella storia repubblicana e tra i dieci maggiori nella storia europea dal 1945 a oggi. Una tendenza all’astensionismo, non solo italiana, che riguarda, soprattutto, le persone meno abbienti e una parte significativa dei giovani.

Nel nostro Paese, secondo l’Istat, un cittadino su quattro vive a rischio di povertà o esclusione sociale. Cioè 14 milioni e 300 mila persone nel 2022 vivevano in una famiglia a grave rischio di povertà, senza un lavoro, con un reddito medio inferiore al 60% di quello mediano, ossia 11.155 euro, cioè meno di 930 euro mensili a famiglia. Mentre gli italiani in povertà assoluta sono 5,6 milioni. [1]

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Penna: “Il Governo consegna la Sanità ai privati”

IL GOVERNO CONSEGNA LA SANITA’ AI PRIVATI

di Renzo Penna

La campagna strisciante volta a privatizzare la sanità pubblica, a vantaggio di imprenditori e assicurazioni e a danno dei cittadini, è in atto da tempo e negli ultimi anni sta registrando una forte accelerazione. Un indirizzo, quello del privato, già esplicitamente previsto nel Libro Verde sul welfare del ministro Sacconi durante il IV governo di Silvio Berlusconi (2008-2011). Ma è stata,  in particolare, la legge di “riordino” del 1992[1] che, introducendo il concetto di aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (USL) trasformate in Aziende Sanitarie Locali (ASL), ha modificato nel profondo gli indirizzi della riforma del 1978 e prodotto una dequalificazione delle risorse umane con una conseguente caduta di qualità ed efficacia. È così venuta meno una visione complessiva del SSN. La salute veniva sostanzialmente considerata un costo da governare con un presidio di iper-managerialità, in grado di controllare, secondo una funzione di tipo gerarchico-specialistico, lo sviluppo del sistema. In questa prospettiva si è perso di vista l’elemento della territorializzazione della gestione della salute, vissuto come un appesantimento della struttura sociale. Le ricadute di tale  scelta le abbiamo, di recente, misurate durante la pandemia da Covid-19.

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Ferrari: “Per una nuova alternativa socialista”

UN VECCHIO PROGETTO PER UNA NUOVA ALTERNATIVA DI SINISTRA

di Sergio FERRARI

Come è noto, l’Associazione Labour “R. Lombardi”, ha curato, con il dott. Bufarale come autore, la pubblicazione di un volume sulla vita politica di Riccardo Lombardi a partire dagli anni iniziali sino ai primi anni ‘60.  Gli anni successivi, il periodo che va dagli anni ’60 al 1984, rappresentano per il nostro paese un periodo storico che avrebbe portato alla seconda repubblica.
In quegli anni il PSI, nonché, ovviamente, il PCI e la DC, praticamente tutte le forze politiche, erano di fatto bloccate su una condizione di conservazione politica in coerenza con gli equilibri politici tra USA e URSSS.
Mentre sul piano economico si andava esaurendo la spinta keynesiana e si affermava la cultura liberista, in un contesto di progressiva e grave crisi economica nazionale e internazionale, Riccardo  Lombardi sviluppava la sua proposta di alternativa di sinistra, che non solo avrebbe dovuto dar seguito all’ormai esaurito  centro-sinistra, ma anche affrontare in termini strutturali e profondi la crisi sociale ed economica da tempo in atto nella società capitalistica.

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Giacomo Brodolini: il ministro che sfidò la morte

 

 

 

 

 

A meno che non si possa far ricorso a guerre, rivoluzioni e altri eventi grandiosi o catastrofici, è difficilissimo portare sullo schermo (o sulle pagine di un romanzo) la vita di un uomo politico, che consiste per la maggior parte di riunioni, telefonate, spostamenti, e ancora riunioni in cui gli stessi discorsi vengono tessuti e ritessuti all’infinito. Nemmeno l’oratoria può arrivare in soccorso come una volta: non siamo più ai tempi di Tucidide, e nelle democrazie moderne il divario tra le parole e le loro conseguenze concrete è sempre più sfuggente ed opinabile. È necessario trovare degli schemi narrativi efficaci, vale a dire delle situazioni, limitate nel tempo e nello spazio, in cui, per così dire, tutti i nodi vengono al pettine. Bisogna insomma rintracciare e rappresentare quei particolari momenti di intensità che sono capaci di rivelare il senso profondo di un’intera vita pubblica. Sono riusciti egregiamente in questa impresa Giancarlo Governi e Marco Perisse, autori di un trattamento cinematografico intitolato «Non ho tempo», e dedicato a Giacomo Brodolini, dirigente sindacale, parlamentare socialista e ministro del lavoro, nato a Recanati nel 1920 e morto in una clinica di Zurigo a soli 49 anni, l’11 luglio del 1969. Spero proprio che il film (prodotto da Gianpaolo Sodano) vada in porto nel migliore dei modi: come cercherò di spiegare racconta una storia davvero interessante, e non solo per i suoi ovvi risvolti politici e sociali.

Con gli operai

Nei libri di storia e nelle enciclopedie Brodolini è il ministro che concepì (con la collaborazione fondamentale del giurista Gino Giugni) e impose alla sua stessa maggioranza di governo lo Statuto dei Lavoratori, finalmente convertito in legge, la famosa legge 300, nel maggio del 1970. Viene spesso ricordato anche il capodanno del 1968 passato assieme agli operai della Apollon in sciopero, in un tendone eretto a via Veneto: un fatto che all’epoca destò scandalo, così come la sua solidarietà ai braccianti siciliani di Avola, che lottavano contro il caporalato e le famigerate gabbie salariali. E non può essere dimenticata la sua lucidissima, intransigente protesta, quando era ai vertici della Cgil, contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, in netto contrasto con la filosofia che vedeva nei sindacati una semplice «cinghia di trasmissione» degli orientamenti e delle decisioni dei partiti. Di lui si può dire che il suo slogan più celebre («Da una parte sola. Dalla parte dei lavoratori») fu tutt’altro che uno slogan, ma un destino, una questione di vita e di morte.

Il ruolo voluto

Tra le tante fotografie che si trovano facilmente in internet, mi piace soprattutto una che lo ritrae a Recanati, nell’immediato dopoguerra, in compagnia di Joyce Lussu, in occasione di un comizio elettorale, con l’eterna (e fatale) sigaretta in bocca: una specie di Jean Gabin sindacale, non bello ma sicuramente affascinante. Ne ho anche un ricordo privato, che fatalmente si mischia alle notizie pubbliche: Giacomo Brodolini era mio zio, e in famiglia su quell’uomo testardo e proteso all’avvenire circolavano molte leggende. Ma leggendo il lavoro di Governi e Perisse, la storia di zio Giacomo mi è apparsa in una luce totalmente diversa, e talmente commovente che voglio provare anche io a raccontarla per quello che è stata: una sfida alla morte, un appuntamento con il Fato che, al di là dei suoi significati storici e politici, ha un sapore antico, che non esito a definire eroico. Se dovessi indicare un epicentro, o meglio un fulcro di tutta la vicenda, sceglierei lo studio di un medico, a Roma, nell’autunno del 1968. Uno di fronte all’altro, stanno il paziente, che è Giacomo Brodolini, da pochi mesi eletto senatore nelle file del PSU, e il medico, di cui non conosco il nome, e che ha pessime notizie: le peggiori che si possano dare a un paziente. Brodolini ha un tumore ai polmoni, con metastasi arrivate alla gola. La sentenza è inappellabile: gli rimangono pochi mesi di vita. È una scena terribile, che si ripete ogni giorno, ogni ora in ogni angolo del mondo: ma questo non toglie nulla alla sua unicità, perché ogni essere umano reagisce a modo suo di fronte agli eventi supremi.

Immagino il giovane senatore (a luglio aveva compiuto quarantotto anni) che, uscito dallo studio del medico, vaga stordito per le strade di Roma, forse già addobbata per le feste di quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Sicuramente pensò a quanto poco fosse il tempo che gli restava: mesi, settimane ? Ma assieme a quel pensiero, deve pure essercene stato un altro, che non smentiva il primo, ma gli dava un altro senso: era ancora vivo, come tutta la gente intorno a lui, e nessuno dei suoi simili avrebbe potuto prevedere con certezza quanto tempo gli restasse. Bisogna anche sapere che erano giorni molto intensi e agitati, nel mondo politico: si lavorava alla formazione di un governo di centrosinistra, il cui presidente sarebbe stato Mariano Rumor. Ai socialisti spettavano alcuni ministeri importanti, e uno di questi sarebbe facilmente andato a Brodolini. Ma lui, in quelle ore terribili, aveva fatto la sua scelta, e la impose ai compagni di partito, a partire dal segretario socialista, Francesco De Martino. Volle un ruolo che, almeno sulla carta, era meno importante di altri che gli venivano offerti: e il 12 dicembre del 1968 divenne ministro del lavoro e della previdenza sociale. Era la posizione che gli avrebbe consentito, nel poco tempo che gli rimaneva, di portare a termine il compito
che si era assunto fin da giovanissimo, quando arrivò a Roma a dirigere il sindacato dei lavoratori edili. Ed era l’occasione, più unica che rara, di conferire un senso a un’intera vita. Ogni giorno che passava, a quel punto, era prezioso.
Sono queste le condizioni drammatiche in cui fu concepito, scritto e infine convertito in legge lo Statuto dei Lavoratori.

L’ultimo gesto

Oggi possiamo affermare che lo Statuto dei Lavoratori mise l’Italia all’avanguardia della vita civile e sociale in Europa e nel mondo. Ma in quei sei mesi che per Brodolini furono un terribile conto alla rovescia, nemmeno gli alleati di governo, nemmeno i comunisti si erano resi pienamente conto dell’importanza della posta in gioco, che era quella di tradurre in una legge, con tutti i suoi articoli limpidamente espressi, lo splendido articolo 1 della nostra Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica «fondata sul lavoro».
Ma cosa significa, in pratica? I princìpi sono sacrosanti, ma vanno riempiti di contenuti effettivi: nel caso specifico, di diritti, imperniati sulla dignità dei lavoratori. In quest’ultima battaglia trascorsero gli ultimi sei mesi della vita di Giacomo Brodolini. Morì l’11 luglio del 1969, in una clinica di Zurigo dove si era ricoverato per tentare un ultimo intervento chirurgico. Una fotografia lo ritrae all’ingresso della clinica, con qualche leggero bagaglio sulla spalla e ancora una sigaretta che pende dalla bocca.

L’ultimo gesto che fece fu firmare lo Statuto. Quando penso alla storia di mio zio mi viene sempre in mente il tempo: l’uso che ne facciamo, la quantità che pensiamo di avere a disposizione. Ho ormai superato di molto l’età raggiunta da Brodolini, ma ancora continuo a perderlo, a rimandare i compiti importanti che pure mi sono assegnato. Non me ne faccio nemmeno una colpa: ognuno vive come sa vivere, e non può diventare un altro. Ma l’idea di quei sei mesi finali e della marcia a tappe forzate che condusse allo Statuto dei Lavoratori mi sembra un simbolo così luminoso dell’esistenza umana che vorrei che tutti lo conoscessero, nella sua grandiosa semplicità. Si dice sempre che la politica e i fatti privati dovrebbero essere due sfere il più possibile distinte, e forse in
generale è vero, ma questo mi sembra un caso assolutamente virtuoso di coincidenza tra le condizioni personali e la vita pubblica. Tante cose su Giacomo Brodolini le ho apprese da sua moglie, Vera, che gli è sopravvissuta a lungo curando la sua memoria.

Era un uomo colto, fiero di essere un concittadino e un omonimo di Giacomo Leopardi. Amava la pittura italiana moderna, e i libri rari. Mia zia mi ha regato un cimelio che conservo sulla mia scrivania, usandolo come fermacarte. È una pesante medaglia di bronzo, in bello stile modernista, che gli fu donata da un sindacato di metalmeccanici americani, da quello che capisco una specie di FIOM d’oltreoceano. Sul retro c’è scritto: con le mani costruiamo automobili, aerei e strumenti agricoli, e con il cuore costruiamo un futuro migliore. I tempi sono talmente cambiati che non so immaginare cosa avrebbe pensato oggi Giacomo Brodolini di tante cose che accadono, e attribuire opinioni ai morti mi è sempre sembrato un gioco macabro e insensato. Ma di una cosa sono sicuro: l’unione dell’abilità delle mani e della lungimiranza del cuore è un’immagine del bene che va a tutti i costi preservata e tramandata.

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Salario minimo e lavoro povero

Di Leonello Tronti – 27 novembre 2023 (eguaglianzaeliberta.it)

Dal 2011 la perdita di potere d’acquisto per l’insieme delle retribuzioni è stata dell’8,3%, caso unico nell’eurozona. Tra il 2005 e il 2021 i lavoratori poveri sono cresciuti dall’8,7 all’11,6% degli occupati, mentre le famiglie in povertà assoluta sono passate dal 3,3 al 9,4% della popolazione; quasi 5 milioni sono i lavoratori a termine o in part-time involontario. Nel frattempo l’andamento dell’economia non è affatto migliorato. Le mobilitazioni sindacali di questi giorni hanno ragioni da vendere ed è bene che la politica se ne renda finalmente conto.

Perché tante imprese, il governo e il Cnel sono contrari all’introduzione in Italia di un salario minimo? Davvero non c’è in Italia un problema di bassi salari? E davvero la remunerazione dei lavoratori non ha nulla a che fare con la crescita asfittica dell’economia?

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In memoria di Salvatore Biasco

In memoria di Salvatore Biasco

Pubblicato da keynesblog il 13 novembre 2023

Ad un anno dalla scomparsa di Salvatore Biasco, economista allievo di Paolo Sylos Labini, Maurice Dobb, Nicholas Kaldor e Hyman Minsky, la rivista Moneta e Credito ha pubblicato uno speciale in memoriam per ricordare il suo lavoro.

Come sottolineato da D’Ippoliti e Roncaglia nell’introduzione “I molteplici contributi di Biasco hanno spaziato dall’economia internazionale alla finanza, passando per l’impegno politico in prima persona. Il lavoro di Biasco ha sempre sottolineato il ruolo centrale della politica economica ma anche la sua natura endogena. In contrasto con le teorie dominanti che attribuiscono le fluttuazioni economiche e le crisi a fattori esterni, Biasco considerava problematica l’idea di un equilibrio stabile di mercato. Il lavoro di Biasco ha gettato luce sull’importante impatto delle variabili finanziarie su quelle reali, ad esempio con articoli sull’endogenità dei cicli valutari e sull’importanza dei flussi lordi di capitali nel sistema monetario internazionale.”

Sui cicli valutari rimandiamo in particolare al contributo di Daniela Palma, pubblicando di seguito l’abstract:

Salvatore Biasco e l’instabilità dell’economia mondiale nella prospettiva dei “cicli valutari”

Con il saggio su “I cicli valutari e l’economia internazionale” di fine anni Ottanta (1987), Salvatore Biasco avvia una importante riflessione teorica sul regime di fluttuazione dei cambi, confutando sulla base di un approccio keynesiano la validità dei modelli di determinazione del tasso di cambio ispirati ai principi di efficienza dei mercati finanziari. A partire da un quadro analitico di determinazione su base finanziaria del tasso di cambio nel quale le scelte di portafoglio degli operatori internazionali avvengono in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, l’analisi mette in luce come la finanza speculativa di breve periodo amplifichi i movimenti della fluttuazione, provocando squilibri strutturali dell’economia reale, che retroagiscono sulla dinamica del cambio e concorrono a destabilizzare il quadro macroeconomico. Su questa linea interpretativa l’analisi di Biasco approda successivamente a una lettura del disequilibrio economico che ha caratterizzato la dinamica dello sviluppo mondiale fino al culmine della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, sottolineando il ruolo del dollaro, in quanto valuta di riferimento del sistema monetario internazionale, e il contributo dell’instabilità dei mercati valutari alla crescente fragilità finanziaria che ha investito l’economia capitalistica.
Link all’articolo: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta_e_credito/article/view/18283

L’intero numero è liberamente consultabile all’indirizzo: https://rosa.uniroma1.it/rosa04/moneta_e_credito/issue/view/1663