IL PRIMO CENTROSINISTRA E LA DIREZIONE DELL’ “Avanti!” DI RICCARDO LOMBARDI
Luca BUFARALE*
«Da oggi ognuno è più libero»
«Da oggi ognuno è più libero»: così l’«Avanti!» annuncia il 6 dicembre 1963 la costituzione del primo governo italiano che, dopo la rottura tra la Dc e le sinistre del 1947, vede la partecipazione dei socialisti. L’occhiello del quotidiano del Psi rincara la dose: «I lavoratori rappresentati nel governo del paese».[1] Un trionfalismo forse eccessivo – si potrebbe dire ex post – ma che ben rappresenta le speranze suscitate dal centro-sinistra presso settori consistenti dell’opinione pubblica. Libertà ed eguaglianza: due aspirazioni che, come rimarca il titolo, vengono viste come inscindibili dai partiti della sinistra, almeno in questa fase storica. Il centro-sinistra sembra venire incontro ad entrambe. Se, ad esempio, le proposte di elaborare uno statuto dei diritti dei lavoratori e di modificare i codici di pubblica sicurezza sembrano aprire nuovi spazi di libertà dopo il clima repressivo degli anni Cinquanta, i progetti di riforma che toccano l’energia elettrica, la scuola, i contratti di mezzadria nelle campagne, le società per azioni, l’energia elettrica e i suoli urbani edificabili appaiono diretti ad una gestione più democratica di alcune risorse fondamentali, a contrastare alcuni assetti monopolistici dell’economia e a garantire maggiori possibilità alle fasce sociali meno abbienti.
Di “svolta a sinistra”, dopo più di un decennio di governi centristi imperniati sulla Democrazia cristiana, si inizia a parlare concretamente già tra il 1959 e il 1960, in un contesto di espansione economica ma anche di crescente divario sociale e di instabilità politica, specie dopo la caduta di Fernando Tambroni – il presidente del consiglio Dc che riceve l’appoggio in Parlamento dei neofascisti del Msi – in seguito ai moti di piazza del luglio 1960. Sono molti i fattori che favoriscono questa prospettiva. Senz’altro il boom economico, con il quale l’Italia si lascia alle spalle gli anni difficili della ricostruzione ed entra definitivamente nel novero delle nazioni più industrializzate. Ma riveste un ruolo decisivo anche la distensione internazionale tra Stati Uniti e Unione Sovietica (malgrado i momenti di frizione in seguito alla costruzione del muro di Berlino e alla crisi dei missili di Cuba), senza dimenticare le ricadute politiche, in alcuni settori del mondo cattolico, delle innovazioni conciliari del pontificato di Giovanni XXIII.
Durante il congresso del marzo del 1961 l’area autonomista del Partito socialista – di cui fa parte Riccardo Lombardi insieme al segretario del partito Pietro Nenni e al suo vice Francesco De Martino – consolida la vittoria ottenuta nell’assise congressuale di due anni prima. La rottura con la corrente di sinistra, più legata alla storica alleanza con il Partito comunista, è scongiurata, almeno per il momento. Nel gennaio dell’anno successivo, il congresso della Democrazia cristiana, dopo un lungo discorso del segretario Aldo Moro, dà il via libera all’alleanza con il Psi aprendo così la strada al centro-sinistra.
É il febbraio del 1962 quando il governo presieduto dal democristiano Fanfani e composto anche da repubblicani e socialdemocratici riceve l’appoggio dei socialisti. Malgrado in questa fase il Psi resti fuori dall’esecutivo, secondo la maggior parte degli storici è questo il centro-sinistra che ha prodotto le maggiori riforme.[2] Tra il 1962 e l’inizio del 1963 viene realizzata la scuola media unificata, si costituisce la prima commissione nazionale antimafia e una risorsa fondamentale come l’energia elettrica viene sottratta ai monopoli privati, anche se le modalità della nazionalizzazione (con l’indennizzo che finisce alle ex società elettriche anziché agli azionisti) delude molti suoi fautori. Ma le modifiche dei codici di pubblica sicurezza, lo statuto dei diritti dei lavoratori e le nuove leggi sulle società per azioni restano nel cassetto, mentre la riforma urbanistica – che nei progetti del suo estensore, il democristiano Fiorentino Sullo, dovrebbe contrastare il business della speculazione edilizia e assicurare alloggi e servizi adeguati in un paese caratterizzato da una crescente urbanizzazione selvaggia – viene sconfessata dallo stesso segretario Dc Moro.
Di tutte queste riforme Riccardo Lombardi è indefesso fautore. Dal suo punto di vista il centro-sinistra si giustifica nella misura in cui è in grado di garantire uno sviluppo più equo, aprire nuovi spazi di manovra al movimento operaio e attaccare alcuni centri di potere, come i monopoli elettrici privati, in grado di condizionare pesantemente tanto la politica quanto l’economia del paese. Tra i vari dirigenti socialisti, Lombardi è anzi forse quello che conferisce maggiore dignità teorica, attraverso il discorso sulle riforme di struttura, alla politica che porta i socialisti ad assumere posizioni autonome dai comunisti e ad avvicinarsi all’area governativa.[3]
Ma è proprio il «riformismo dimezzato»[4] di cui dà prova il centro-sinistra del 1962-63 a far raffreddare le simpatie di Lombardi (e, con lui, di una parte crescente dei militanti socialisti e dell’opinione pubblica di sinistra) nei confronti di un’operazione in cui le esigenze di stabilizzazione politica e di conservazione sociale sembrano prevalere sempre di più su quelle riformatrici. Una prospettiva – quella di un centro-sinistra “moderato” – consolidatasi dopo le elezioni dell’aprile 1963 che vedono un calo di consensi della Dc, il mancato avanzamento del Psi ed un successo per le opposizioni di sinistra (comunisti) e di destra (liberali). Tanto più che la crescita ininterrotta del quinquennio precedente comincia a mostrare la corda. Si inizia a parlare di congiuntura e la stampa conservatrice addita nella rinnovata forza contrattuale dei sindacati – indubbiamente frutto anche delle nuove aperture politiche – una delle cause del venir meno del “miracolo economico”.
Senza tenere presente questo contesto, non si comprenderebbero le remore di Lombardi al maggiore coinvolgimento dei socialisti in un nuovo governo a guida Dc. Remore che lo portano, ad esempio, a non appoggiare, all’indomani delle elezioni, la costituzione di un esecutivo presieduto da Moro, giudicando insufficienti le garanzie sul programma.
Si accentua in questo modo il divario, all’interno della stessa maggioranza autonomista del Psi, tra la posizione di Nenni e quella di Lombardi. Il primo, infatti, vede sempre di più il centro-sinistra come l’unica via praticabile per consolidare la fragile democrazia italiana. L’alleanza tra democristiani e socialisti risulta, così, una strada obbligata anche a costo di sacrificare molte proposte riformatrici. Per Lombardi, invece, il centro-sinistra non è che una tappa che ha lo scopo di aprire nuovi equilibri politici. I socialisti non possono rinunciare alle riforme, pena la subordinazione alla Dc e la rinuncia a contendere ai comunisti la direzione del movimento operaio organizzato. Con Nenni sta la maggioranza della corrente autonomista, compresa buona parte dell’apparato di partito; con Lombardi un piccolo gruppo composito, che riunisce tanto ex-militanti che, insieme a lui, erano confluiti nel Psi dal Partito d’Azione (ad esempio Tristano Codignola, protagonista delle riforme sulla scuola), quanto socialisti legati al classico riformismo socialista primonovecentesco (il leader sindacale Fernando Santi), oltre a personaggi come Antonio Giolitti, nipote del celebre statista liberale di inizio secolo, comunista sino al 1956 e ora tra più influenti teorici della via riformatrice al socialismo. La frattura si palesa nella riunione svoltasi tra il 16 e il 17 giugno (rimasta nota come la “notte di San Gregorio”) con il rifiuto di Lombardi di avallare gli accordi presi con Moro, e manda in fibrillazione non solo il Partito socialista ma l’intera politica italiana prima di essere faticosamente ricomposta.
Dietro il titolo altisonante con il quale l’«Avanti» annuncia l’avvio nel dicembre 1963 di un centro-sinistra fondato sulla partecipazione diretta – e non più il solo appoggio esterno – del Psi vi è quindi una realtà di trattative spesso snervanti, non solo tra i partiti ma all’interno della stessa corrente socialista di maggioranza, sotto lo sguardo vigile dell’amministrazione e della diplomazia statunitensi. La Cia e il personale dell’ambasciata americana, infatti, pur apprezzando la presa di distanza di Lombardi dal Partito comunista, vedono talvolta con sospetto il suo attivismo riformatore e, soprattutto, non tollerano la sua idea di una partecipazione dell’Italia alla Nato limitata ad esigenze di pura difesa e su un piano di maggiore autonomia dagli Usa.[5]
L’accordo programmatico siglato tra i quattro partiti che compongono il governo (democristiani, socialisti, repubblicani e socialdemocratici) prevede l’attuazione dell’ordinamento regionale – presente nella Costituzione ma sino a quel momento ostacolato da gran parte della Dc anche per timore di una vittoria delle sinistre nelle regioni “rosse” del centro – una nuova legge di pubblica sicurezza, l’effettiva parità salariale tra uomini e donne, l’avvio della programmazione economica, una nuova disciplina delle società per azioni, la fine dei contratti di mezzadria e la riforma di quelli esistenti e una legge urbanistica ritoccata rispetto all’originale ma che prevede comunque l’esproprio obbligatorio, previo indennizzo, delle aree fabbricabili comprese nel piano. Tuttavia, viene stabilito anche che le riforme economiche escluderanno, dopo la creazione dell’Enel, nuove nazionalizzazioni e che dovranno tenere conto dell’esigenza primaria di garantire la stabilità monetaria contro i pericoli dell’inflazione.[6] Mentre nulla di impegnativo viene detto sui tempi di attuazione delle riforme, si chiarisce che la maggioranza dovrà essere rigorosamente autosufficiente. In nessun caso, quindi, il governo potrà ricercare il sostegno del Partito comunista (che, va ricordato, nelle elezioni del 1963 ha ricevuto più del 25 % dei consensi, contro il 14 % dei socialisti). Per la politica estera viene confermata l’adesione piena dell’Italia al blocco atlantico, rimandando ad un futuro imprecisato la questione della partecipazione alla Multilateral Force, l’ambizioso progetto che prevede la costituzione di una forza atomica integrata tra i paesi aderenti alla Nato e armata con missili nucleari Polaris.[7]
Lombardi è tanto sinceramente disposto a difendere gli accordi dalle critiche degli esponenti della sinistra del suo partito quanto risoluto nell’ammonire che solo un impegno costante affinché il programma non venga disatteso può giustificare la presenza del Psi nel governo.[8] Anche per questo motivo, soltanto una settimana dopo il patto che dà vita al nuovo esecutivo, sostiene l’opportunità di accogliere la richiesta della corrente di sinistra per un congresso straordinario «alla scadenza di una tappa significativa e nodale dell’azione di governo».[9] Non si tratta solo del tentativo – rivelatosi vano – di porsi come mediatore con la sinistra interna per evitare una scissione ritenuta catastrofica per il partito,[10] ma anche di scongiurare l’annacquamento della spinta riformatrice.
Durante le trattative per il nuovo governo il nome di Lombardi ricorre spesso come candidato ideale al ministero del Bilancio. Ma il diretto interessato rifiuta (una decisione che gli sarà poi rimproverata più volte[11]) motivando la sua scelta con la preoccupazione che l’accanimento nei suoi confronti possa ritorcersi contro l’intero Psi.[12] Anni dopo, affermerà di essere rimasto fuori dal governo «per svolgere una funzione di stimolo e restare disponibile, non compromesso, per il caso – tutt’altro che improbabile – di fallimento [del centro-sinistra]».[13] Non mancano, del resto, le pressioni da parte degli esponenti Dc più conservatori affinché il principale esponente del riformismo “forte” dei socialisti italiani venga escluso da ogni incarico governativo. Il quotidiano «Il Messaggero», ad esempio, pubblica vari articoli di fondo non firmati (ma attribuibili, secondo la giornalista Miriam Mafai, al democristiano Flaminio Piccoli[14]) che avanzano esplicitamente tale richiesta, pena addirittura «la stabilità e la sicurezza delle nostre libere istituzioni democratiche».[15]
Ad occupare il dicastero del Bilancio è invece Antonio Giolitti, da tempo coordinatore di una sorta di brain trust sulla programmazione economica che comprende esperti come Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini, Michele Giannotta e Giorgio Ruffolo. Oltre a Giolitti, completano la compagine governativa del Psi Giovanni Pieraccini ai Lavori Pubblici, Giacomo Mancini alla Sanità, Carlo Arnaudi alla Ricerca Scientifica e Achille Corona al Turismo. Arialdo Banfi, Luigi Anderlini e Simone Gatto – socialisti vicini alle posizioni di Lombardi – vengono nominati sottosegretari rispettivamente agli Esteri, al Tesoro e al Lavoro. Ma la presenza di esponenti delle correnti democristiane di sinistra della Dc è scarsa, mentre risulta preponderante la componente dorotea, di tendenze conservatrici, cui fanno riferimento tanto il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, quanto il ministro del Tesoro Emilio Colombo. Quest’ultimo, come vedremo, appoggerà una politica economica per tanti aspetti diametralmente opposta a quella dei socialisti. Infine, i dicasteri degli Esteri e della Difesa vanno a due personalità di sicura fede atlantica e anticomunista come il socialdemocratico Giuseppe Saragat e il democristiano Giulio Andreotti. Nella riunione dei dirigenti della maggioranza Psi subito dopo la conclusione degli accordi, Lombardi si lascia sfuggire un commento negativo sulla composizione del governo:
Buona soluzione programmatica, mediocre soluzione governativa. Lato negativo gli esteri a Saragat. Peggio il tandem Saragat – Andreotti. […] Per il bilancio: il modo in cui sono andate le cose dimostra che avevo ragione a non accettare.[16]
Nello stesso giorno dell’inaugurazione del nuovo esecutivo il «Corriere della Sera» commenta a tutta pagina: «Fanfani e Lombardi: due personaggi che possono dare fastidio al governo». L’assenza dell’ex Presidente del Consiglio da un lato e dell’esponente di punta del Psi dall’altro viene giudicata, paradossalmente, un «fattore di interferenza nella attività di governo», che «potrà produrre seri guai».[17] Due giorni più tardi, un articolo di fondo li descrive addirittura come «i nemici di Moro». Lombardi, in particolare, è visto come «l’uomo della sinistra marxista che può riunire intorno a sé molta parte dei socialisti e mantenere i contatti coi comunisti».[18]
Meno di un mese dopo la costituzione del centro-sinistra “organico”, la minoranza di sinistra dà vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup) collocandosi decisamente all’opposizione. La nuova formazione politica sottrae al Psi non pochi dirigenti di peso. Tra questi vi sono anche personalità come Vittorio Foa, Emilio Lussu e Fernando Schiavetti che avevano condiviso con Lombardi la militanza nel Partito d’azione durante la Resistenza e nell’immediato dopoguerra.[19] Anche se tra le motivazioni della scissione vi è una comprensibile sfiducia per l’involuzione moderata del centro-sinistra, la nascita del Psiup contribuisce obiettivamente ad indebolire la forza contrattuale dei socialisti rispetto alla Democrazia cristiana. «Si conferma così che più vai a sinistra, più ti trovi a destra», commenta, amaro, Nenni.[20] A pagare il prezzo più alto, però, è forse proprio Lombardi e la sua idea di centro-sinistra risolutamente riformatore. Esclusa la possibilità di entrare nel governo e sfumata anche quella di diventare il nuovo segretario del Psi al posto di Nenni (una carica che passa a Francesco De Martino),[21] il sessantatreenne leader socialista continuerà però a turbare i sonni di chi spera, per vari motivi, in un centro-sinistra “moderato”. Lo farà da una postazione che – data l’importanza che all’epoca ancora riveste la stampa di partito – risulta non poco temibile: la direzione dell’«Avanti!».
- La direzione dell’«Avanti!» di Lombardi
Il 4 febbraio 1964 Riccardo Lombardi diventa direttore del quotidiano socialista. Non è la prima volta che ricopre questa carica. Già tra il giugno del 1948 e il maggio dell’anno seguente l’ex leader del Partito d’azione – entrato solo da qualche mese nel Psi – si era trovato a dirigere l’«Avanti!». Allora Lombardi si adoperò per rivitalizzare un partito indebolito dalla scissione dei socialdemocratici e dalla débâcle elettorale del 18 aprile 1948, mantenendo una linea di opposizione al governo De Gasperi (e all’ingresso dell’Italia nella Nato) e, al contempo, di maggiore autonomia dal Partito comunista. Né con Mosca, né con Washington. Una posizione difficile, specie nel contesto plumbeo dell’incipiente guerra fredda, e che procurerà ai socialisti italiani la sconfessione della maggior parte dei partiti socialisti dell’Europa occidentale. Ma Lombardi era aduso a posizioni politicamente scomode. Nel 1948-49 si trattava per lui di difendere la neutralità dell’Italia e di definire il modo di stare all’opposizione, presentando il proprio partito come risolutamente riformatore e alieno da velleità rivoluzionarie («il programma dell’opposizione – affermava in uno dei suoi primi articoli da direttore – dovrà apparire fin da oggi come la politica del governo di domani»[22]). Quindici anni dopo, si tratta di qualificare la maniera di stare al governo, evitando di sacrificare i progetti di riforma sull’altare della stabilità del quadro politico.
In questo senso, la direzione lombardiana dell’«Avanti!» finirà per turbare i sonni non soltanto dei “moderati”, ma anche di quei dirigenti socialisti che concepiscono sempre di più il centro-sinistra come un’alleanza, almeno nell’immediato futuro, sostanzialmente irreversibile e senza alternative praticabili. Per il leader socialista, insomma, l’«Avanti» è anche uno strumento di battaglia politica e di discussione all’interno del partito. Lo studioso di filosofia Fulvio Papi, chiamato alla vicedirezione del quotidiano, ricorda così la linea editoriale del suo direttore:
Lombardi sosteneva, e io ero del tutto d’accordo, che il giornale non dovesse essere l’ostentazione (ridicola) del valore di ogni provvedimento, ma l’occasione intellettuale per un giudizio di merito che alla fine mostrava i limiti dei provvedimenti. La pratica di governo non aveva affatto il suo cantore. La memoria non mi soccorre nel ricordare le varie occasioni ma su questo punto le critiche della maggioranza del partito furono piuttosto violente. Si diceva che il giornale assomigliava più a un foglio di opposizione che a uno di governo. La risposta di Lombardi fu che il partito per essere al governo non perdeva la sua caratteristica di partito che interpreta le ragioni del suo elettorato popolare. Solo così sarebbe stato possibile non approfondire le ragioni di dissenso con il partito comunista e mantenere intatto un potenziale sociale che avrebbe pesato anche nella continua contrattazione con gli alleati di governo.[23]
Non a caso, un attento osservatore della politica italiana come Umberto Segre vede la nomina di Lombardi a direttore dell’«Avanti!» come la migliore garanzia dell’impegno riformatore dei socialisti:
Nel PSI vi sono certo altre risorse e altre riserve di dissenso. Tuttavia, per ora, questa è la più evidente. Fossimo socialisti, pregheremmo Lombardi e i suoi amici di non stancarsi e di non recedere. Si fa così presto a perdere tutto. Non temano neppure di spingere la critica, a volte, sino alla tensione, sino alla necessità di spiegazioni, da parte di compagni di segreteria o di governo o di gruppo parlamentare. Non raccomandiamo questo come suscitatori di discordie, è ovvio; come intriganti azionisti; ma come riserva di quel sale della terra, che è il fattore ideologico della politica.[24]
Una delle prime occasioni di polemica è fornita dalla decisione del governo di modificare la legge del dicembre del 1962 riguardante la cedolare d’acconto sui titoli azionari. In base alle nuove norme l’aliquota viene ridotta, per un periodo di due anni, dal 15 al 5 %. Inoltre si consente – sempre per lo stesso periodo – di poter scegliere tra la cedolare d’acconto e una cedolare “secca” del 30 %. Con la seconda opzione l’azionista è esonerato dall’obbligo di denunciare i titoli posseduti: decade, quindi, il principio della nominatività presente nel provvedimento di un anno e mezzo prima. La misura viene giustificata con la necessità di rianimare il mercato azionario e, soprattutto, di frenare la fuga di capitali all’estero. Quest’ultimo fenomeno aveva preso piede in Italia specie dal 1962-63, alimentato dalle paure nei confronti delle riforme del centro-sinistra. Al consiglio dei ministri Giolitti, pur dichiarandosi disposto a modificare la legge, cerca di opporsi, invano, alla soluzione della cedolare “secca”. A suo parere, infatti, l’abolizione del principio di nominatività legittima di fatto l’evasione fiscale sulle proprietà azionarie.[25]
Il neo-direttore del quotidiano socialista definisce subito il nuovo provvedimento «un passo indietro». La posta in gioco, malgrado il suo carattere apparentemente tecnico, è politica. Gli avversari del centro-sinistra, attraverso una ben orchestrata campagna di stampa, sono riusciti ad instillare in parte dell’opinione pubblica la convinzione secondo cui la crisi del mercato azionario sia da addebitare alla nominatività dei titoli (oltre che alle conseguenze della nazionalizzazione dell’energia elettrica). Lombardi replica che un ribasso delle quotazioni, dopo il boom intercorso tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, è fisiologico. Il periodo di euforia dei mercati – che ha generato in alcuni settori della media e alta borghesia la prospettiva di guadagni facili attraverso la speculazione borsistica – non poteva prolungarsi indefinitamente. Ma l’allarme sul ribasso delle quotazioni rischia di avere i suoi effetti anche sui piccoli risparmiatori, il che spiega l’insistenza della stampa conservatrice sull’abolizione della nominatività dei titoli. Il rischio paventato da Lombardi è che «dopo la cedolare, e sempre per alimentare la fiducia, da parte delle destre si pretenderà la rinuncia o il travisamento della legge urbanistica, la svirilizzazione della riforma delle società per azioni, lo svuotamento della programmazione».[26] Il direttore dell’«Avanti!» lancia un chiaro avvertimento: l’atto di responsabilità dei socialisti, che evitano di aprire su questo provvedimento una crisi di governo, non potrà ripetersi anche per altre e più consistenti riforme.
La sortita di Lombardi non passa inosservata tra le file del Psi e suscita l’apprensione di Nenni. I socialisti – afferma il neo-vicepresidente del Consiglio in una lettera indirizzata al direttore dell’«Avanti!» – non possono permettersi di parlare con due voci diverse, criticando sul quotidiano di partito provvedimenti che hanno contribuito ad approvare – pur se controvoglia – in sede di governo. Nella missiva, manoscritta e piena di cancellature a penna, Nenni scrive (cancellando in parte la frase, che resta comunque leggibile): «credo che ciò derivi meno dalla sostanza delle posizioni che assumi [ma piuttosto] dal modo il quale ti è congeniale ed era facilmente prevedibile e non può quindi esserti rimproverato». «Semmai era da vedersi se il tuo posto di lavoro fosse quello che la Direzione ti ha affidato. Problema che esiste anche per me».[27]
L’episodio della cedolare d’acconto si rivela il primo scontro di una battaglia sulla maggiore o minore opportunità delle misure anticongiunturali. Da un lato, infatti, si prospetta una stretta creditizia con l’obiettivo prioritario di stabilizzare la lira, un’opzione patrocinata dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Dall’altro, i socialisti ribadiscono la priorità delle riforme o almeno la contestualità tra misure anti-congiuntura e riforme economiche. Già a metà gennaio, però, il ministro Dc del Tesoro Colombo sembra sposare la linea di Carli sostenendo che il raggiungimento della stabilità monetaria dovrà essere la premessa per qualsiasi riforma. Una politica, in sostanza, rigidamente deflazionistica – di austerity si direbbe oggi – anche a costo di comprimere investimenti, consumi e salari. Moro non prende una posizione netta, ma in un articolo su «Il Popolo», quotidiano della Dc, lancia un appello a tutte le forze politiche e sindacali per far fronte comune contro la crisi economica.[28] Lombardi gli risponde affermando che l’adozione di misure anticongiunturali non può essere fatta pagare a tutti allo stesso modo.
Indubbiamente la società italiana si trova a fronteggiare una folla di rivendicazioni compresse durante il periodo dell’euforia economica e malamente rinviate e occorre in esse mettere ordine, e stabilire priorità.
Ma confuse tra la folla degli interessi legittimi e ragionevoli, si mescolano esigenze e pretese di ben diversa natura e non è lecito confondere le prime con le seconde per rivolgere lo stesso discorso ad entrambe. Fra l’esigenza di aumentare il salario del macchinista ferroviario sotto la minaccia sindacale di arrestare il traffico e l’esigenza del possessore di capitali di continuare a godere dell’immunità tributaria sotto la minaccia di esportare i suoi capitali non esiste né omogeneità né paragone possibile.[29]
L’economista Michele Salvati noterà vent’anni dopo che le misure anticongiunturali prese dalla Banca d’Italia tra la fine del 1963 e il 1964 risultavano «direttamente proporzionali alla larghezza di quelle che avevano assecondato un boom senza precedenti di consumi e di importazioni, di salari e di prezzi tra il 1961 e l’estate del 1964».[30] Nelle sue memorie Carli difenderà questo cambio di rotta adducendo motivazioni di carattere squisitamente politico.
La critica […] trascura due fatti fondamentali della nostra storia: in quell’anno, 1962, si discusse, si preparò, si realizzò la nazionalizzazione dell’energia elettrica; contemporaneamente, la contestazione spontanea dei lavoratori del Nord si organizzò in richieste salariali che strapparono un successo completo, anche grazie al mutato quadro politico, conducendo ad un aumento dei redditi da lavoro dipendente che nel biennio raggiunse il 43 %. Ebbene, il motivo politico dell’espansione monetaria che non contrastammo fu questo: consentire alle imprese di trasferire sui prezzi i costi crescenti, senza dover comprimere i margini di profitto. Fu una scelta del tutto consapevole degli effetti che potevano verificarsi sul lato della bilancia dei pagamenti: sostituzione di offerta interna di beni con offerta estera, aumento delle importazioni, disavanzo delle partite correnti.
La coscienza di aver accumulato ingenti riserve valutarie ci diede la serenità necessaria per perseguire due obiettivi: in primo luogo consentire che non s’interrompesse lo sviluppo della domanda interna, favorendo l’aumento del benessere, anche se con beni importati […]. Ma l’altro obiettivo, essenziale, fu la difesa dell’esistenza dell’impresa privata, dell’industria capitalistica, messa in serio pericolo dalla prepotenza nazionalizzatrice del centro-sinistra.[31]
Di fronte, però, al venir meno dei tassi di crescita del boom dopo il 1963, Carli non esita ad imporre un brusco cambiamento di indirizzo. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i socialisti. Se la politica espansiva del biennio precedente aveva forse generato qualche illusione di troppo sulla facilità di ottenere le riforme, ora la nuova linea deflazionistica suona come un chiaro «alt!» per queste ultime. La «stanza dei bottoni» – per usare la famosa espressione di Nenni – si rivela così assai più difficile del previsto da manovrare.
Particolarmente attivo nell’opera di contrasto alla politica economica dei socialisti è il «Corriere della Sera». Il principale quotidiano italiano ospita spesso articoli e interviste del presidente del Senato Cesare Merzagora, grand commis in stretti rapporti con il mondo imprenditoriale e finanziario milanese, che dipinge un quadro a tinte fosche dell’economia italiana, minacciata dagli effetti giudicati nefasti delle riforme approvate (in primo luogo la nazionalizzazione dell’energia elettrica) o in cantiere, e da progetti in realtà già ritirati come l’abolizione del segreto bancario. «Si è dimenticato – afferma in un’intervista alla fine di febbraio – che il capitale ha orecchie del coniglio, le gambe della lepre e la memoria dell’elefante; quando lo si minaccia con una sventagliata di prospettive pericolose, cerca istintivamente riparo nascondendosi nel materasso, trasformandosi in beni solidi e infine fuggendo».[32] Lombardi, che aveva conosciuto personalmente il suo interlocutore venti anni prima nella Commissione economica del Cln Alta Italia, replica denunciando la «grande manovra» – a cui presta volentieri il suo contributo la seconda carica dello Stato – «per piegare il centro-sinistra a una pratica moderata o per distruggerlo».[33] Non stupisce che Merzagora sarà poi il proponente di un ipotizzato governo di emergenza che, con l’avallo del presidente della Repubblica Antonio Segni, avrebbe dovuto sostituire il centro-sinistra dopo la crisi del giugno 1964.
Lo scontro sulle politiche economiche coinvolge anche le rivendicazioni salariali. La spinta rivendicativa manifestatasi nel biennio 1960-62 in seguito alla compressione degli anni Cinquanta non si è ancora esaurita e nei primi mesi del 1964 entrano in sciopero varie categorie, dai tessili ai chimici, dai metallurgici ai tranvieri, sino agli statali. Il segretario del Partito repubblicano Ugo La Malfa propone un tavolo d’incontro permanente tra governo, Confindustria e sindacati. Quasi un antecedente – si potrebbe affermare – della concertazione degli anni Settanta. All’inizio di marzo, Moro e Nenni incontrano i dirigenti della Cgil: sono presenti Agostino Novella, Fernando Santi e Vittorio Foa, rappresentanti rispettivamente delle correnti comunista, socialista e psiuppina nel sindacato. Si chiede loro, in sostanza, di adeguare le richieste salariali alla produttività: l’abbozzo di quella politica dei redditi cara al leader repubblicano. Il governo, come contropartita, si impegnerà ad avviare la programmazione economica. Foa è il più contrario a qualsiasi ipotesi di ingabbiamento “concordato” delle rivendicazioni salariali. Novella si dichiara possibilista ma non per il momento, a causa delle rigidità di Confindustria e della mancanza di certezze sulle intenzioni riformatrici del governo. Santi condivide le preoccupazioni di Lombardi sul rischio che il partito ceda alla linea economica Carli-Colombo e, inoltre, teme che il già limitato spazio del Psi nel principale sindacato italiano si riduca ulteriormente a vantaggio dei comunisti e del Psiup. Per questo, rimane assai freddo di fronte alla proposta e chiede al governo almeno qualche contropartita tangibile, come l’approvazione dello statuto dei lavoratori.[34]
Anche per Lombardi risultano preliminari le contropartite politiche e in primo luogo l’avvio della programmazione economica, che consentirebbe di intervenire sui profitti e sulle rendite. In caso contrario, la politica dei redditi si trasformerebbe, a suo giudizio, in mera politica di controllo dei salari. A coloro che parlano della necessità di limitare le rivendicazioni salariali – afferma – «è facile obiettare che non si è trovato fino ad oggi in una economia di mercato, altro sistema per scoprire i margini di produttività non utilizzati, se non la pressione dei salari e che in quei settori ove tale pressione non ha determinato l’aumento di produttività si è messo a nudo il carattere monopolistico o parassitario, col trasferimento sui prezzi dei maggiori costi del lavoro dipendente».[35] In assenza di una programmazione economica avviata, quindi, è del tutto giustificabile per Lombardi la diffidenza dei sindacati nei confronti del tentativo di imporre un controllo sulla dinamica salariale.
Il nodo della questione risiede dunque nella certezza della contropartita: vale a dire nella presenza di un interlocutore valido con cui il sindacato possa contrattare l’aumento pianificato dei salari.
S’intenda bene: l’aumento. Giacché in un’economia in sviluppo non è proponibile alcun blocco salariale, ma solo l’alternativa tra una crescita affidata alla «spontaneità» cioè al variabile rapporto di forza e al livello dell’occupazione, e una crescita pianificata. […]
I lavoratori non adoperano il linguaggio degli economisti; posseggono tuttavia benissimo in concreto il concetto di variabile «indipendente» e sanno cosa implichi assumere come tale il salario e non invece il profitto o la rendita…[36]
Qualche giorno più tardi Moro e Nenni incontrano i rappresentanti di Confindustria: la richiesta principale è quella di abbassare il costo della manodopera. In pratica, un ritorno al passato, agli anni di un boom economico fondato sul basso costo del denaro e, soprattutto, su salari decisamente inferiori rispetto alla media europea.[37] Del resto, l’alta borghesia italiana continua ad essere in fibrillazione e, con poche eccezioni, sembra non fidarsi delle rassicurazioni di Moro e delle soluzioni di compromesso. Come scrive Giorgio Bocca su «Il Giorno», «per la prima volta il ceto proprietario ha l’impressione che il potere decisorio sfugga al suo controllo»: «ogni parola di Lombardi è una coltellata, ogni dichiarazione di Moro un tradimento, ogni intervento di La Malfa un tranello insidioso».[38]
Le difficoltà dei socialisti nell’impostare la politica economica (e la pervicace volontà di Lombardi di fare da argine ad ogni cedimento a riguardo) si evidenziano in molte occasioni, dalla riforma della Federconsorzi al dibattito sul destino dell’Olivetti.[39] Sin dal secondo dopoguerra, la Federazione dei consorzi agrari è dominata dalla Coldiretti capeggiata dal democristiano Paolo Bonomi che trasforma l’organizzazione in un formidabile strumento di condizionamento politico oltre che di utile serbatoio di consensi elettorali. Attraverso un’efficiente rete organizzativa comprendente una pletora di enti, il binomio Federconsorzi-Coldiretti esercita un controllo quasi monopolistico sul settore ed è per questo bersaglio privilegiato delle critiche, oltre che di socialisti e comunisti, anche di liberali di sinistra come Ernesto Rossi e Manlio Rossi-Doria e di settimanali di quell’area politica quali «Il Mondo» e «L’Espresso».[40] Già durante le trattative per la formazione del governo, il Psi aveva chiesto la trasformazione della Federconsorzi in un’organizzazione che assicurasse il diritto di associazione per tutti i produttori agricoli, non escludendo la soluzione del commissariamento, almeno per un certo periodo. Il 20 febbraio il suo presidente Nino Costa, democristiano, si dimette per protesta contro le insormontabili resistenze che incontra di fronte a qualsiasi ipotesi di riforma. Nel mese successivo l’«Avanti!» pubblica alcuni articoli che accusano la Federconsorzi di accrescere i costi dei piccoli coltivatori attraverso una politica smaccatamente favorevole ai grandi monopoli privati, ad esempio limitando la produzione dei concimi e vincolandone i prezzi per evitare di fare concorrenza alla Montecatini.[41] La rivelazione delle prove dell’accordo tra la Federconsorzi e il grande polo privato dell’industria chimica getta l’ennesima ombra sul funzionamento dell’organizzazione. Il direttore dell’«Avanti!» scrive al ministro dell’Agricoltura, il democristiano Mario Ferrari Aggradi, sollecitando il governo ad intervenire attraverso il commissariamento della Federconsorzi.
In queste condizioni è naturale che interventi stiracchiati, lungamente oggetto di contrattazioni fra i partiti e in definitiva vincolatissimi alle esigenze di rispetto e salvaguardia di posizioni di potere che interessano la D.C. non arriveranno mai a essere persuasivi, a meno che non assumano quella forma rigorosa, palese e radicale che dia la prova a un’opinione pubblica resa esigente, che si fa finalmente sul serio.[42]
Il timore di Lombardi è che, limitandosi ad interventi di facciata, il Partito socialista venga semplicemente associato alla gestione dell’ente: si arriverebbe così al «delitto politico di vincolare il governo di centro-sinistra e il suo avvenire a questo sciagurato bubbone». I socialisti riescono ad ottenere il distacco delle gestioni pubbliche dalla Federconsorzi e il loro conferimento ad un’azienda statale controllata dal Ministero dell’Agricoltura. Ma lo strapotere della Coldiretti di Bonomi non viene sostanzialmente intaccato. Nuovi tentativi di riforma, riproposti nel 1967 per iniziativa di Rossi-Doria, verranno presto abbandonati.[43]
A fine marzo scoppia il caso Olivetti. Quattro anni prima la grande azienda di Ivrea, una delle eccellenze del panorama industriale italiano, aveva perso Adriano Olivetti, il dinamico imprenditore noto anche per i suoi ideali comunitari e per la maggiore liberalità, rispetto alla media degli industriali italiani, nei rapporti con le organizzazioni sindacali. L’azienda, dopo anni di ininterrotto sviluppo, sta vivendo una fase di crisi: la domanda nei mercati esteri diminuisce mentre aumenta l’indebitamento del gruppo. Il 15 marzo la direzione comunica alle maestranze la decisione di limitare per un certo periodo la durata della settimana lavorativa: si paventano riduzioni del salario e licenziamenti. Intanto, alla Borsa di Milano le quotazioni dell’Olivetti calano pericolosamente.[44] Lombardi scorge nella corsa al ribasso del titolo una manovra di alcuni grandi gruppi industriali per impadronirsi di quote consistenti della società. Tra questi gruppi vi è la Fiat.
Se la FIAT o direttamente o attraverso il canale della finanziaria della famiglia Agnelli, l’IFI-FIAT, da sola o associata a altri gruppi da essa egemonizzati, riuscisse con qualche decina di miliardi a impadronirsi sotto costo di uno dei complessi industriali più dotati di forza e di avvenire, il panorama generale del potere monopolistico già segnato a tratti così rilevanti in Italia, ne risulterebbe eccezionalmente oscurato.[45]
Secondo Lombardi, il comportamento della Fiat sarebbe stato favorito da Mediobanca e da alcuni «alti dirigenti dell’IRI»: quest’ultimo riferimento è probabilmente rivolto a Bruno Visentini, all’epoca vicepresidente dell’istituto. Visentini, in effetti, si sta muovendo da tempo per creare una sorta di gruppo di controllo per l’Olivetti, che associ istituti bancari e grandi imprese private.
Considerata l’importanza dell’Olivetti nel tessuto produttivo piemontese e la rilevanza dell’azienda, senz’altro tra i marchi più conosciuti internazionalmente del made in Italy di allora, il direttore dell’«Avanti!» chiede un intervento pubblico di sostegno all’Olivetti, da attuarsi attraverso l’Iri. Ritorna qui un punto fermo della politica di Lombardi sin dal secondo dopoguerra: convertire l’Istituto per la ricostruzione industriale da organo di intervento pubblico a servizio dei gruppi privati (per pubblicizzare le perdite e massimizzare i profitti, come affermò Salvemini nella sua polemica contro il fascismo negli anni Trenta),[46] a strumento per una politica di programmazione a favore dell’interesse generale.[47] Nel caso specifico dell’Olivetti, del resto, l’intervento non sarebbe neppure eccessivamente oneroso da un punto di vista economico, «trattandosi non di un salvataggio di azienda in fallimento ma di una iniezione atta a sostenere, nel momento di uno sforzo eccezionale, un corpo perfettamente sano».[48]
Questa volta Lombardi riceve critiche non soltanto da quotidiani come «Il Corriere della Sera»[49] ma anche da un settimanale di orientamento liberal-progressista e fautore del centro-sinistra. Dalle colonne dell’«Espresso», Eugenio Scalfari prende le distanze dall’articolo di Lombardi e difende il comportamento della Fiat. Pur ammettendo i rischi di un accrescimento del potere di pressione del gruppo torinese sul ceto politico, Scalfari respinge la soluzione prospettata dal direttore del quotidiano del Psi con argomenti di schietto sapore liberista: un intervento statale può giustificarsi solo nella gestione di «pubblici servizi, monopoli tecnici, o settori industriali dove la concorrenza è comunque impossibile». D’altra parte, secondo il direttore dell’«Espresso», l’associazione di una florida impresa come la Fiat nell’ipotizzato gruppo di controllo dell’Olivetti non impedisce al governo di attuare la programmazione.[50] Lombardi replica a Scalfari stigmatizzando la sua sottovalutazione dello strapotere del gruppo automobilistico. Quest’ultimo, infatti, con la sua «logica di sviluppo e di espansione tipicamente autoritaria», specie nella gestione delle relazioni sindacali, fa da contraltare ad un modello come quello perseguito da Adriano Olivetti che, pur nei limiti dei rapporti proprietari e delle esigenze del profitto, si è fondato sul «rifiuto costante della discriminazione sindacale» e la partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, ad esempio attraverso «il mantenimento del consiglio di gestione».[51]
Lombardi non è il solo a preoccuparsi per le conseguenze della crisi dell’Olivetti nell’economia italiana. Su «Mondo Nuovo», periodico del Psiup, Lucio Libertini arriva a conclusioni simili. Per Libertini, in seguito alle manovre in Borsa si sta delineando un gruppo – composto da Iri, Mediobanca, Fiat e Pirelli – interessato ad acquisire quote dell’azienda di Ivrea senza però la volontà di impegnarsi in un rilancio degli investimenti. Libertini paventa anzi il rischio (rivelatosi poi tutt’altro che infondato) che il nuovo gruppo di intervento finisca per cedere uno dei fiori all’occhiello dell’Olivetti: quella Divisione elettronica all’avanguardia nel settore dei computer (all’epoca conosciuti ancora come calcolatori elettronici).[52] I deputati comunisti Pajetta, Barca e Sulotto chiedono in un’interpellanza che vengano accertate le responsabilità delle banche Iri nelle operazioni finanziarie collegate all’Olivetti e che si esamini, invece, l’opportunità di un intervento pubblico «per garantire allo stato nella lotta apertasi attorno al gruppo Olivetti la proprietà del complesso elettronico, il cui controllo è di grande rilievo ai fini di una politica di sviluppo».[53] Intanto, il vicedirettore finanziario della Olivetti Nerio Nesi, socialista vicinissimo a Lombardi, denuncia le manovre del gruppo d’intervento, sollecitando l’intervento di Giolitti in qualità di ministro del Bilancio.[54]
Tra aprile e maggio si arriva ad un accordo che prevede la concessione di un finanziamento a medio termine, in parte da istituti bancari pubblici (Imi e Mediobanca) e in parte da finanziarie di gruppi industriali privati (Fiat, Pirelli, Centrale). Nelle trattative con Visentini, Giolitti cerca, senza ottenere grandi risultati, di limitare il peso dei finanziamenti privati e di concedere tempi più lunghi al gruppo Olivetti per il rimborso del prestito. Il ministro del Bilancio chiede anche, inutilmente, un impegno scritto del gruppo di intervento «per assicurare la direzione efficiente e lo sviluppo produttivo dell’azienda e per limitare a dimensioni di minoranza la partecipazione FIAT».[55]
La soluzione viene presentata da quasi tutta la stampa come l’unica possibile per evitare che il controllo della Olivetti passi sotto il controllo di gruppi tedeschi o statunitensi. Anche l’«Avanti!», rispondendo alle critiche del Pci, afferma con un certo trionfalismo che lo Stato ha ora i mezzi per contribuire al rilancio dell’Olivetti.[56] In realtà, il potere di condizionamento della Fiat nel gruppo d’intervento appare sin da subito assai più ampio di quanto il quotidiano socialista non voglia ammettere, tanto da riuscire ad imporre i suoi candidati nel nuovo consiglio d’amministrazione. A completare il quadro, soltanto pochi mesi dopo gli accordi la Divisione elettronica dell’Olivetti viene ceduta ad una grande impresa statunitense.
Crisi e resurrezione del centro-sinistra
Oggi siamo in Italia alla stretta da noi chiaramente prevista fin dal momento in cui il nostro Partito ha assunto responsabilità di maggioranza e di governo. Bisogna essere ciechi per non accorgersi che la battaglia per uno sviluppo democratico della società italiana si vince o si perde proprio nel ristretto spazio dei mesi immediatamente prossimi, e che se essa fosse perduta nessuno può dire se e quando e da chi possa essere ripresa. E’ nei mesi immediatamente prossimi difatti che si decide se sì o no l’Italia avrà un ordinamento regionale autonomistico, una legge urbanistica avanzata, una serie di interventi pubblici organici sul processo di accumulazione […][57]
Lombardi lancia questo allarme nel suo articolo di fondo del 14 aprile 1964. L’avvertimento è rivolto anche alla direzione del Partito comunista. Dopo aver condotto durante il primo centro-sinistra del 1962 un’«opposizione di tipo particolare» (per usare la formula di Togliatti) che non escludeva determinate aperture – ad esempio il Pci votò a favore della nazionalizzazione dell’energia elettrica, pur con riserve sulle modalità del provvedimento – ora i comunisti accentuano la critica al governo Moro, sottolineando l’impotenza del Partito socialista nel determinare una politica economica conforme agli impegni presi. Lombardi – aduso da tempo alle polemiche con i comunisti ma fermamente convinto della necessità di mantenere il dialogo con la principale forza della sinistra – polemizza con il direttore dell’«Unità», Mario Alicata, secondo cui senza il peso del Pci sarà impossibile per i socialisti contrastare l’offensiva della destra economica.[58] Sottoposti agli attacchi della stampa conservatrice, agli appelli alla “moderazione” da parte dei loro alleati di governo e, al tempo stesso, alle critiche dei “compagni” comunisti e psiuppini, i socialisti subiscono la «pressione delle due braccia di uno schiaccianoci, da destra e da sinistra».
Mentre dunque si gioca in Italia un programma che i comunisti non hanno contestato essere anche per essi la via obbligata dello sviluppo democratico del nostro Paese, il Partito Socialista è costretto a subire anche il convergente attacco del Partito Comunista il quale pone come obiettivo della sua linea politica la caduta immediata del governo di centro-sinistra: caduta immediata, cioè prima che la battaglia da esso impegnata sia decisa, prima che si possa giudicare se e per merito o per colpa di chi essa sia stata guadagnata o persa.[59]
La lotta decisiva per l’esito del centro-sinistra (almeno per come viene inteso da Lombardi) si svolge in effetti tra l’aprile e il giugno del 1964 e si gioca proprio sul rapporto tra una politica di contenimento della domanda come quella sostenuta dal governatore della Banca d’Italia (ma avallata dalla maggior parte della stampa conservatrice, dal ministro del Tesoro e, come vedremo, anche dai rappresentanti della Cee) e le riforme. Sul lato delle riforme i socialisti ottengono qualche parziale successo in aprile, con la legge che abolisce la mezzadria. Ma gli altri provvedimenti, in primo luogo la legge urbanistica, vengono bloccati, mentre si accentua lo scontro all’interno del governo tra i fautori e i contrari alla linea di Carli. Nell’esposizione economica e finanziaria tenuta alla Camera il 28 aprile 1964 il ministro del Bilancio Giolitti sottolinea i pericoli che possono derivare per l’occupazione e per il livello dei salari dal perseguimento di una politica basata soprattutto sulla stretta monetaria e creditizia come quella voluta dal governatore.
Se lasceremo che le cose vadano per il loro verso avremo sì, prima o poi, un riequilibramento: ma attraverso l’inflazione o attraverso la disoccupazione. In tutti e due i casi questo riequilibramento avverrà a prezzo di una caduta nel saggio di sviluppo del prodotto nazionale e a spese dei lavoratori: e, ovviamente, senza aver risolto uno solo dei gravi squilibri di struttura che ci siamo impegnati a risolvere.[60]
Tra i socialisti inizia a diffondersi l’idea di fare pressione sui sindacati per ottenere un alleggerimento delle rivendicazioni, anche a costo di allargare il solco con le componenti comuniste e psiuppine della Cgil. Durante la riunione della Direzione del partito del 23 aprile, Giolitti sostiene l’opportunità – di fronte al rifiuto di Carli di allentare la stretta creditizia, descritta come «un freno di fatto alle rivendicazioni salariali» – che siano le organizzazioni sindacali stesse a moderare le richieste. Questa volta anche Lombardi afferma che «il movimento operaio si deve convincere che un alleggerimento della pressione salariale è indispensabile». Il problema principale – afferma – è costituito dal «declino degli investimenti» e dal conseguente rischio di «una disoccupazione di massa» a cui si deve far fronte sia attraverso l’impresa pubblica, sia favorendo quelle imprese private disposte a investire. Si tratta in pratica di creare un embrione di programmazione economica, che costituirebbe anche la necessaria contropartita da offrire ai sindacati. Ma l’auspicata programmazione è ostacolata non solo da una campagna di stampa tesa a presentarla come l’inizio della “sovietizzazione” dell’economia italiana, ma anche dall’inefficienza della burocrazia statale in Italia: «dobbiamo servirci – avverte Lombardi – di una macchina scassata».[61]
Lo scontro tra le due linee di politica economica, presente in nuce sin dalla formazione dell’esecutivo, diventa palese il mese successivo. Il 12 maggio l’«Avanti!» esce con un articolo di fondo del suo direttore dal titolo «C’è più di un modo» che suona come un attacco diretto a Carli, alla sua linea economica – a torto presentata come l’unica possibile – e alle sue pesanti ingerenze nelle politiche del centro-sinistra.
Ascolteremo il 30 maggio la relazione del Governatore dell’Istituto di Emissione e sarà questa un’importante occasione per valutare se e fino a che punto sia conveniente in Italia una dualità di poteri, l’automatismo di uno dei quali tende a rendere subalterno l’altro: quest’altro che è poi il governo, il solo che abbia responsabilità democratica […]
Non è detto, per parlar chiaro, che il rallentamento della stretta creditizia debba e possa indefinitamente prolungarsi colla conseguenza di cumulare alla pressione inflazionistica dal lato della domanda, la convergente pressione dalla parte dell’offerta che deriva dall’anemia dell’apparato produttivo. Esistono bene strumenti efficaci per consentire un arresto nella contrazione del credito che non si risolva in carica inflazionistica: a partire dalla manovra dell’imposta che, a dispetto dello stato miserando dei mezzi di accertamento, può sempre fare assegnamento su interventi rapidi e efficaci suscettibili di evitare la pressione diretta sui consumi inevitabilmente ingiusta, perché esercitata sui consumi rigidi e nello stesso tempo apprestare le disponibilità per gli investimenti nei settori prioritari.[62]
Il 26 maggio Giolitti consegna ai sindacati un Memorandum sui problemi di politica economica, elaborato insieme agli economisti Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini. Il ministro del Bilancio propone una politica tesa a spostare una quota delle risorse dai consumi agli investimenti, inducendo l’autorità monetaria a praticare una linea meno restrittiva. Ai sindacati Giolitti chiede non dei vincoli precostituiti alla loro azione rivendicativa, ma la fissazione di alcuni «limiti di compatibilità» delle rivendicazioni rispetto agli obiettivi della piena occupazione e della stabilità dei prezzi.[63]
Proprio nel momento in cui i socialisti danno prova di “moderazione”, la stampa conservatrice sferra un nuovo attacco contro di loro. Il 27 maggio il quotidiano «Il Messaggero» pubblica in esclusiva alcuni stralci di una lettera confidenziale inviata dal ministro del Tesoro Colombo al presidente del consiglio Moro dodici giorni prima, che suona come una vera e propria sconfessione della politica riformatrice. Secondo il ministro la crisi non sarà di breve durata. Per la fine dell’anno si prospetta, anzi, un aumento dei prezzi e un maggiore squilibrio nella bilancia dei pagamenti. Di fronte a questa situazione il governo ha due strade: la compressione del livello dei salari ricercando la collaborazione dei sindacati, oppure l’adozione di ulteriori restrizioni creditizie e provvedimenti fiscali. Data l’ostilità delle principali organizzazioni sindacali al contenimento salariale, il governo dovrà optare probabilmente per la seconda soluzione. In ogni caso, secondo Colombo vanno respinte quasi tutte le riforme in programma, dalla legge urbanistica all’ordinamento regionale sino allo statuto dei lavoratori.
Di fronte al pericolo mortale che corre non solo l’economia ma anche la democrazia, si insiste su una politica dogmatica di riforme strutturali che nessuno sa bene in che cosa consistano. Si insiste sul progetto di decentramento regionale […], sulla legge urbanistica, che ancora prima di vedere la luce ha paralizzato l’industria delle costruzioni e minaccia di provocare una situazione di disoccupazione di massa.[64]
Tre giorni dopo, nella sua relazione annuale, il governatore Carli propone il blocco delle rivendicazioni salariali.
La pubblicazione della lettera di Colombo suscita naturalmente un vespaio di polemiche, tanto che un portavoce di Moro si affretta a ribadire che il programma del governo rimane inalterato. Lo stesso ministro del Tesoro rettifica in parte le sue posizioni in un editoriale apparso su «Il Popolo».[65] Nonostante questo, la Direzione del Psi del 30 maggio non può esimersi dal chiedere una verifica degli impegni programmatici. Giolitti, d’accordo con Lombardi, dichiara che se Colombo esprimerà le opinioni manifestate nella lettera in sede di Consiglio dei ministri, i socialisti presenti nel governo «non avrebbero evitato a trarne le inevitabili conseguenze».[66]
Non tutti però, all’interno del Partito socialista, sono disposti ad andare sino in fondo. Cresce, anzi, l’ostilità per Lombardi, accusato di alimentare con i suoi articoli una continua instabilità, nel partito come nel governo. Il 31 maggio l’esponente socialista Giacomo Mancini lo critica pubblicamente in un suo discorso: la linea del direttore dell’«Avanti!» non coinciderebbe con quella stabilita dal partito.[67] Il 7 giugno il «Corriere della Sera» esce con un attacco diretto, significativamente, non a tutto il Psi, ma in particolare a Lombardi e a Fernando Santi.
É impossibile ragionare coi Lombardi e i Santi del partito socialista. L’uno vuol abbattere a colpi di piccone, un piccone politico e legislativo, il sistema in cui opera e deve operare il governo cui partecipano i socialisti. L’altro collabora coi comunisti nella CGIL al fine di sconvolgere lo Stato e la comunità nazionale. Tutt’e due, insieme a una frazione del loro partito, che è partito di governo, hanno interessi e aspirazioni assolutamente in contrasto con gli interessi e le aspirazioni, anzi, con gli obblighi del governo. […] Le riforme o il caos, dice Lombardi. Ma caos potrebbero portarlo anche riforme malfatte, intempestive, sconvolgenti. [68]
Il banco di prova della fedeltà agli impegni programmatici dovrebbe essere costituito dalla legge urbanistica, la cui presentazione al Parlamento è prevista per la fine di giugno, e dalla legge sul finanziamento delle Regioni, ossia le due riforme su cui si sono appuntate le critiche di Colombo nel documento pubblicato dal «Messaggero». Lombardi si rende conto, del resto, che, in attesa dell’approvazione delle riforme, va contrapposto subito alla linea Colombo-Carli un diverso tipo di politica congiunturale. A questo scopo il direttore dell’«Avanti!» propone a più riprese un’imposta sul patrimonio. La proposta, tuttavia, viene scartata dagli altri dirigenti socialisti per il timore che, in mancanza di mezzi idonei per essere attuata in breve tempo, l’imposta avrebbe inizialmente più effetti negativi che positivi per la stabilità.[69]
A muoversi dietro le quinte sono anche i rappresentanti della Comunità economica europea. Soltanto qualche giorno prima della pubblicazione della lettera del ministro del Tesoro sul «Messaggero», Moro riceve dalla Commissione una lettera che invita il governo a diminuire le spese per gli investimenti, aumentare le imposte sui redditi (salari inclusi) e le tariffe su alcuni servizi come le poste e i trasporti ferroviari, rivedere i programmi di investimento delle imprese pubbliche, restringere il credito e impostare una politica dei redditi con le organizzazioni sindacali. All’epoca la Cee è ancora ai suoi primi passi (i trattati di Roma risalgono al 1957) e le “raccomandazioni” della lettera non sono vincolanti, tuttavia è indubbio che concorrano ad appoggiare, nei fatti, la politica economica di Carli e Colombo, tanto più che i rappresentanti della Cee ventilano la possibilità di concedere un prestito all’Italia nel caso questa ottemperi alle condizioni poste. Tra il 18 e il 19 giugno il vicepresidente della Cee e commissario europeo per gli affari economici Robert Marjolin incontra Moro, Nenni, Carli e i ministri dei dicasteri economici, ribadendo, in pratica, le conclusioni della lettera inviata un mese prima.[70] Due settimane più tardi il settimanale «Il Punto» esce con una ricostruzione che accusa alcuni membri del governo (il riferimento è soprattutto a Colombo) e importanti esponenti della Cee di aver influenzato il giudizio di Marjolin in senso pessimistico, in modo da ridimensionare le pretese dei socialisti. La ricostruzione, smentita da «Il Popolo», è ripresa da Lombardi sull’«Avanti!», il quale pur mantenendo la necessaria cautela, non perde occasione per stigmatizzare tanto il piano proposto da Marjolin quanto l’insufficiente rappresentanza dell’Italia negli organismi comunitari.[71]
Nel periodo intercorso tra la pubblicazione della lettera di Colombo e la visita di Marjolin in Italia, Giolitti mette a punto un progetto di piano di sviluppo per il quinquennio 1965-69, che stabilisce l’obiettivo di un incremento del 5 % annuo del prodotto nazionale. L’aspetto forse più innovativo sta nell’obbligo per le grandi società di comunicare al governo i loro programmi biennali di investimento al ministero del Bilancio, che avrebbe dovuto accertarne la congruità rispetto agli obiettivi del programma nazionale. Viene proposta, inoltre, una razionalizzazione degli investimenti (attraverso la creazione di un fondo nazionale per lo sviluppo), delle esenzioni fiscali e creditizie e l’istituzione di una commissione di vigilanza sulle società per azioni.[72]
Il Piano Giolitti, che riceve subito forti critiche da Confindustria, non avrà neppure il tempo di essere discusso in sede di governo. Il 25 giugno 1964, infatti, il governo Moro viene battuto alla Camera durante il voto sul bilancio della pubblica istruzione. Il ministro democristiano dell’Istruzione Luigi Gui – in contrasto con l’accordo preso insieme agli altri partiti di affrontare il problema dei contributi alla scuola privata durante la discussione sulla legge sulla parità scolastica – inserisce nel bilancio due capitoli (il 65° e l’88°) che prevedono lo stanziamento di 149 milioni di lire di contributi per la scuola privata. I socialisti, così come i socialdemocratici e i repubblicani, si astengono. Liberali, comunisti e Psiup votano contro. In seguito alla bocciatura dei capitoli di spesa (228 voti contrari contro 221 sì), il 26 giugno Moro rassegna le dimissioni.
Lombardi la descrive come «una crisi fuori tempo». Moro – argomenta il direttore dell’«Avanti!» – non è affatto obbligato a dimettersi poiché l’astensione socialista sul voto riguardante i capitoli dei finanziamenti alle scuole private, oltre che prevista da tempo, non è, «per aperta dichiarazione del gruppo socialista», un voto di sfiducia nei confronti del governo. Le vere cause della crisi sono ben altre: la maggioranza della Dc – riluttante ad attuare le riforme – vuole evitare la verifica sul programma richiesta dai socialisti.[73] Secondo Lombardi, del resto, si tratta della logica conclusione di un processo di “ostruzionismo” contro le riforme, iniziato già a fine febbraio con il provvedimento che cancellava la nominatività dei titoli azionari e reso esplicito con la pubblicazione della lettera di Colombo.
[…] a partire dall’ultimatum con cui i grandi esperti (quelli che a ogni piè sospinto dicono di non voler fare finanza «congolese» indulgendo però a quella del Lichtenstein) hanno imposto la rinuncia alla cedolare d’acconto, dando in partenza un carattere obiettivamente antiriformatore alla politica congiunturale (e per giunta compiendo un errore macroscopico di previsione che ha dimostrato la completa inettitudine del provvedimento) via via fino alle stupefacenti proposte di fiscalizzare gli oneri sociali… trasferendoli dall’imprenditore al consumatore, ci siamo trovati di fronte ad una politica congiunturale che obiettivamente divorava le riforme di struttura ancora prima che nascessero […][74]
Moro, in un colloquio con Nenni del 27 giugno, esclude la possibilità di andare ad elezioni anticipate. Il leader Dc è disponibile a ricevere un nuovo incarico per formare un esecutivo con i socialisti. Questa volta, però – annota Nenni – «vorrebbe […] essere garantito dai “guastatori” tra i quali comprende Lombardi nella misura in cui dall’ “Avanti!” parla in nome del partito».[75] Durante la riunione della direzione democristiana del 29 giugno il segretario democristiano Mariano Rumor afferma che vi è stato, da parte di certi esponenti socialisti, il tentativo di considerare il centro-sinistra come un fatto strumentale in vista di una società socialista, un obiettivo che naturalmente non è mai stato quello della Democrazia cristiana. L’esponente doroteo Flaminio Piccoli sostiene che «bisogna chiudere il periodo del centro-sinistra romantico». Il comunicato della direzione stabilisce che le due condizioni per la ripresa del centro-sinistra sono la salvaguardia dell’efficienza dell’economia di mercato e l’estensione della delimitazione della maggioranza (e quindi il rifiuto delle giunte socialisti-comunisti) alle regioni e agli enti locali.[76] Il primo di luglio Nenni incontra il governatore Carli, il quale ribadisce che la principale condizione per allentare la stretta creditizia consiste nel blocco della pressione salariale.[77]
Ma il nuovo centro-sinistra piegato alle condizioni volute dalla maggioranza Dc e da Carli non potrà che passare per una marginalizzazione di Lombardi e del suo gruppo. Le note del diario di Nenni sono decisamente esplicite a riguardo. Per il leader socialista due sono le opzioni: o una maggioranza «nenniana» (finalmente debbo adoperare questo odioso aggettivo) o una maggioranza azionista che vorrà dire dissolvimento del PSI.[78]
Il riferimento al Partito d’azione rimanda ovviamente alle provenienza politica di Lombardi. Imputare ai socialisti di matrice azionista la mancanza di realismo politico è in effetti un cliché ricorrente tra i componenti di vecchia data del Psi, anche se, in realtà, nel gruppo dei contrari alla prosecuzione “a oltranza” del centro-sinistra vi sono, come abbiamo visto, anche esponenti del classico riformismo socialista come Santi. Giuseppe Tamburrano, storico socialista e autore del primo importante volume sul centro-sinistra, è lapidario a riguardo: a suo giudizio la crisi «fu voluta da Moro con l’accordo di Nenni, Lo scopo principale era di dimostrare, sono parole di Nenni, che “dal centro-sinistra si esce solo per rientrarvi”».[79] Questa interpretazione è stata contestata, tra gli altri, da Giovanni Pieraccini, all’epoca ministro socialista dei Lavori pubblici:
C’è stato chi ha sostenuto che Nenni aveva colto l’occasione per eliminare Riccardo Lombardi, Giolitti e il suo gruppo dal governo e dalle posizioni dirigenti nel partito, data la divergenza di vedute sul tipo di riformismo e sul governo. Non fu così: non ho mia sentito propositi di questo genere né da parte di Nenni né da parte di nessun altro.[80]
Anche indipendentemente, però, dalla volontà di Nenni, l’esclusione di Lombardi dai ruoli direttivi nel partito (e dei “lombardiani” all’interno della compagine governativa) è la logica risultante di pressioni tanto da parte democristiana, quanto da parte di tutti quei dirigenti del Psi che non vogliono affatto rinunciare ad un approdo governativo costato anni di preparazione e di trattative.
Al Comitato centrale socialista del 3, 4 e 5 luglio il segretario della federazione romana Roberto Palleschi attacca senza mezzi termini il direttore dell’«Avanti!»:
L’Avanti!, che doveva essere lo strumento della direzione per orientare nella battaglia tutto il Partito, ha manifestato una incredibile indipendenza dagli organi del partito ed ha concepito la giusta autonomia del partito dal governo con una ingiusta continua critica al centro-sinistra che in realtà ha contribuito a screditare negli obiettivi per i quali era necessario chiamare i lavoratori a battersi.[81]
Anche il segretario del Psi De Martino, che in precedenza ha spesso cercato di fare da mediatore tra le posizioni di Lombardi e quelle di Nenni, si schiera decisamente a favore di quest’ultimo, pur cercando di evitare la rottura con il gruppo lombardiano. Da un lato, infatti, critica coloro che hanno trasformato «la pur necessaria e feconda opera di stimolo e sostegno in un’estenuante controversia, […] disorientando tutto il partito»; dall’altro, però, rimanda ogni decisione sull’attribuzione della carica di direttore del quotidiano socialista alla conclusione della crisi politica.[82]
Replicando alle critiche, Lombardi difende le sue posizioni come le più aderenti al carattere originario dell’impegno dei socialisti nel centro-sinistra. Pur ammettendo, d’accordo con Nenni, che «non esiste nessuna maggioranza a sinistra di ricambio», il direttore dell’«Avanti!» avverte che non si può neppure accettare un qualsiasi centro-sinistra. Così facendo, infatti, il partito non corre soltanto il rischio di subordinarsi alla Democrazia cristiana, ma anche di deludere settori sempre più consistenti dei lavoratori organizzati e dell’opinione pubblica di sinistra che, giocoforza, si rivolgerebbero al Pci.
L’ultimo capitolo della risoluzione della democrazia cristiana in un certo senso significa proprio questo: che non ci sono più partiti della coalizione, ma c’è un unico grande partito del centro-sinistra che ha perso le sue caratteristiche differenziali fra le componenti, cioè l’alleanza generale politica, quell’alleanza generale che noi abbiamo rifiutato, e credo che abbiamo fatto bene a rifiutare pur accettando la collaborazione di governo.[83]
Riguardo al rapporto con il Pci, del resto, Lombardi, pur non contestando la delimitazione della maggioranza richiesta dai democristiani, ritiene che si debba offrire ai comunisti la possibilità di influire positivamente sulle riforme attraverso le comuni battaglie sindacali.
Noi ai comunisti dobbiamo dire che, sia pure attraverso i sindacati, offriamo loro la possibilità di intervenire nel processo produttivo e in definitiva nelle decisioni. Queste cose vanno dette chiaramente, alla luce del sole. E nessuno pretende che lo faccia la democrazia cristiana; ma noi, che siamo ingaggiati in una polemica che vuole essere reciprocamente costruttiva con i comunisti, dobbiamo tenerne conto, considerare queste situazioni e anche nei vincoli che assumiamo in sede di governo dobbiamo porci in una condizione di apertura alla quale si prestano oggi molte condizioni in Italia se vogliamo portare avanti la politica di centro-sinistra. Perché se vogliamo portare avanti un simulacro di politica di centro-sinistra che poi in realtà non riesca neanche a tentare di infondere fiducia e forza alla classe lavoratrice, non varrebbe la pena neppure di aver tentato questa esperienza.[84]
Nel Partito socialista sembrano ricrearsi per un attimo le condizioni per una riproposizione, ad un anno di distanza, di una nuova “notte di San Gregorio”, quando la spaccatura della corrente autonomista impedì ai socialisti di chiudere subito le trattative per il centro-sinistra. Ma i rapporti di forza sono ora sfavorevoli a Lombardi e nel gruppo che gravita attorno a lui non manca chi, come Giolitti, è propenso a trovare un accordo. Lo stesso Lombardi, del resto, non vuole ancora rompere definitivamente con la Democrazia cristiana, e in questo si differenzia dagli esponenti della corrente di sinistra rimasti nel partito dopo la scissione del Psiup. Nenni rileva in proposito:
Lombardi ha parlato e il suo è stato il solito discorso onesto e apprezzabile se avesse avuto la sua logica conclusione in un no risoluto. Invece la conclusione è mancata. Nessuna polemica aperta con De Martino; nei miei confronti appena una critica al mio ottimismo quanto all’avvio delle riforme. [85]
Gli oppositori della linea di De Martino finiscono così per presentare due diversi ordini del giorno: quello di Giolitti, sottoscritto da Lombardi, che conferma la piena validità della politica del centro-sinistra, chiedendo però maggiore fermezza su alcuni punti considerati irrinunciabili (legge urbanistica, istituzione delle regioni, programmazione, statuto dei diritti dei lavoratori), e quello della sinistra di Vincenzo Balzamo, che critica il tentativo di ingabbiare le rivendicazioni salariali e chiede esplicitamente il passaggio all’opposizione nel caso del mancato rispetto di tutti i punti dell’accordo programmatico del novembre 1963. L’ordine del giorno di De Martino che autorizza le trattative per la formazione di un nuovo governo con la Dc passa a maggioranza con 52 sì contro 23 voti ricevuti dal documento della sinistra e soltanto 11 voti dell’ordine del giorno di Giolitti e Lombardi.[86]
Il 3 luglio il presidente Segni conferisce a Moro l’incarico di formare il nuovo governo. Le trattative si protraggono sino al 17 del mese. Per il Psi partecipano, oltre a Nenni e De Martino, anche Giacomo Brodolini, Mauro Ferri e Luigi Mariotti, tutti esponenti della maggioranza “nenniana”. I punti più controversi riguardano la legge urbanistica, le regioni e la programmazione. Rumor precisa più volte che la Democrazia cristiana non può accettare il principio dell’esproprio obbligatorio così come lo formulano i socialisti. Riguardo alle regioni, la Dc insiste sul fatto che i socialisti devono impegnarsi a non costituire maggioranze con i comunisti a livello locale.[87] In una riunione dell’8 luglio, a cui prende parte anche Giolitti, i democristiani esprimono forti riserve sul documento dell’ex ministro del Bilancio relativo alla programmazione,[88] critiche ribadite tre giorni dopo anche da Rumor.[89] Per Nenni, però, raggiungere l’intesa con Moro è un’assoluta necessità per la stessa democrazia italiana.
L’unione ci è imposta dal fatto che non c’è nessun’altra maggioranza possibile e che se entro quarant’otto ore non ci mettiamo d’accordo, nessuno sa cosa può succedere: forse un governo per le elezioni; forse un governo presidenziale tipo Tambroni 1960; in ogni caso, l’avventura.
Evitare questo è più importante dell’urbanistica o delle regioni o di ogni singolo punto del programma.[90]
I riferimenti di Nenni ad un «governo presidenziale» non sono casuali. Il presidente della Repubblica Antonio Segni, democristiano, è notoriamente avverso al centro-sinistra (la sua elezione al Quirinale nel maggio di due anni prima doveva, in un certo senso, bilanciare l’apertura della Dc a sinistra). A suo giudizio, riforme come quella urbanistica sono anticostituzionali e rischierebbero di portare al sovvertimento della democrazia liberale. Rispondendo a Carli, che gli aveva inviato alcuni scritti di Lombardi, il capo dello Stato afferma di concordare con il governatore nel ritenerli addirittura antitetici allo spirito della Costituzione.[91] Nei giorni della crisi Segni riceve più volte il presidente del Senato Merzagora, che da tempo si propone come capo di un possibile governo di emergenza nazionale in grado di rassicurare gli industriali e quella parte di opinione pubblica spaventata dalla “svolta a sinistra”. Nei progetti di Merzagora un esecutivo del genere verrebbe composto prevalentemente da “tecnici” (l’ex-governatore della Banca d’Italia Donato Menichella alla vicepresidenza del Consiglio, l’amministratore delegato di Mediobanca Enrico Cuccia al Tesoro, il dirigente dell’Alfa Romeo e di Finmeccanica Giuseppe Luraghi alle Partecipazioni statali, il finanziere Enrico Marchesano al dicastero dell’Industria e del Commercio con l’estero ecc.), coadiuvati anche da esponenti politici di tutti i partiti, compresi il Pci e il Msi (che riceverebbero però dicasteri di scarso peso).[92]
Anche i timori del leader socialista sul rischio di un’ «avventura» autoritaria in caso di fallimento delle trattative tra Dc e Psi sono tutt’altro che infondati. Tre anni più tardi una celebre inchiesta dell’«Espresso» svelerà alcuni retroscena della crisi e, in particolare, la progettazione di un piano – di cui sarebbe stato al corrente anche il presidente della Repubblica – per “riportare l’ordine” nel caso di un prolungamento della crisi politica o di una sua risoluzione nel senso di una maggiore apertura alle sinistre. Il Piano Solo, così chiamato perché affidato al solo corpo dell’Arma dei Carabinieri al comando del generale Giovanni De Lorenzo, d’intesa con il Sifar (il servizio segreto militare) e con l’avallo dei sevizi segreti statunitensi, prevede l’occupazione di prefetture, istituti civili e militari, sedi di partiti, sindacati, giornali e servizi di radio e televisione, nonché l’arresto e l’internamento nella base sarda della Nato di Capo Marrargiu di oltre settecento tra politici, sindacalisti e intellettuali di sinistra. La lista originaria è stata distrutta, ed è pervenuta solo una lista parziale di quasi un centinaio di nominativi: si tratta perlopiù di comunisti (spicca il nome di Giancarlo Pajetta), ma non mancano anche socialisti come Piero Boni, segretario aggiunto della Fiom, o Giusto Tolloy.[93] Lombardi non è presente ma, considerando le sue posizioni politiche, non è certo da escludere che nelle liste originarie figurasse anche il suo nome. Una testimonianza del sottosegretario socialista agli Esteri Arialdo Banfi – amico personale di Lombardi dai tempi della Resistenza – dà un’idea del clima politico arroventato di quei giorni.
A metà luglio Giolitti, ministro, Anderlini, Gatto ed io, sottosegretari, ci riunimmo con Lombardi per fare il punto della situazione ed egli ci riferì che il PSI era sottoposto a fortissime pressioni per la ripresa della collaborazione governativa con la DC e che Nenni gli aveva fatto presente i pericoli di una soluzione involutiva della crisi: erano i giorni i cui correvano voci di ripetuti incontri tra il presidente Segni e il generale De Lorenzo. Non ebbi rapporti diretti con Nenni: ritenni di dover informare Saragat che se la voce di ricatti al PSI fosse vera e se avesse avuto concreta attuazione io avrei rifiutato la pur prevista mia conferma agli esteri.[94]
Banfi afferma poi di aver ricevuto nei giorni intorno alla metà di luglio una visita di Malfatti, capo di Gabinetto del ministro degli Esteri Saragat:
[Malfatti] mi consigliò vivamente di allontanarmi da Roma ma di non tornare a Milano a casa mia: alle mie domande Malfatti rispose evasivamente ripetendomi che era un consiglio da amico e che andassi in un luogo ove non fossi conosciuto. Poiché era luglio pensai di andare in un luogo di villeggiatura ove non conoscevo alcuno e mi recai a Punta Ala, abbastanza vicino a Roma per poter rientrare velocemente se fosse stata necessaria la mia presenza: anche all’ANPI prendemmo alcune misure di sicurezza.[95]
Si è molto discusso, prima a livello giornalistico e all’interno della commissione parlamentare d’inchiesta e poi in sede storiografica, sulla reale consistenza del progetto eversivo. Oggi prevale la tendenza a considerare il Piano Solo essenzialmente come un piano preventivo, il cui scopo primario consiste nel condizionare in senso “moderato” il governo.[96] Se è così, bisogna ammettere che il condizionamento funziona. La risoluzione della crisi attraverso un nuovo accordo Dc-Psi e la riproposizione di un centro-sinistra con minori ambizioni riformatrici rispetto ai precedenti permetterà, infatti, di accantonare tanto la proposta di Merzagora, quanto la soluzione di forza prospettata come extrema ratio da De Lorenzo.
Venerdì 10 luglio si tiene un nuovo incontro a Villa Madama tra gli esponenti della coalizione quadripartita. Nenni sottolinea «il pericolo di uno scontro frontale fra la destra e le masse controllate dall’estrema sinistra» (il riferimento, ovviamente, è al Pci, anche se Togliatti frena le posizioni più radicali contro il centro-sinistra espresse sull’«Unità» da Alicata e Ingrao). Ma i quattro partiti restano divisi sulla legge urbanistica, i finanziamenti alle scuole private e le misure anticongiunturali. Due giorni dopo Segni convoca Moro: il capo dello Stato chiede l’esclusione di Giolitti dal nuovo governo e ventila, in caso di mancato accordo, la prospettiva di un esecutivo di soli democristiani e delle elezioni anticipate.[97]
La Direzione del Psi si riunisce il 13 luglio. De Martino assicura che i principali impegni programmatici saranno rispettati, ma precisa che, sul disegno di legge urbanistica, la Dc ritiene incostituzionale l’esproprio generalizzato del suolo. Quanto alla programmazione, molti democristiani, da Rumor a Gava, vogliono eliminare il documento Giolitti, nonostante i tentativi di mediazione di Moro. Lombardi sostiene che il progetto urbanistico, depurato del principio dell’esproprio generalizzato, diventa una legge d’ordinaria amministrazione. Per l’istituzione delle regioni la condizione da imporre alla Dc è una sola: la presentazione della legge di finanziamento deve essere contestuale alla presentazione del governo. Ma secondo il direttore dell’«Avanti!» ormai «è difficile ottenere un accordo valido».
Non possiamo sacrificare il partito allo sforzo di evitare quello che Nenni chiama la soluzione extra-parlamentare o di avventura. Il partito in larghi settori teme la saragatizzazione cioè che accettiamo tutto.[98]
Nell’ordine del giorno proposto da Lombardi si afferma che «le richieste del Psi non sono contenibili nel quadro politico che s’è delineato nel corso delle trattative». D’altro canto, pesa il niet del capo dello Stato sull’eventualità di una riconferma di Giolitti nella compagine governativa. Così, l’ex ministro del Bilancio, possibilista fino a qualche giorno prima, ora afferma che, nelle condizioni date, non intende più prendere parte al nuovo esecutivo.[99] La riunione si conclude con 12 voti a favore della prosecuzione delle trattative e 6 contrari. Votano contro Lombardi, Santi, Tullia Carettoni e i tre rappresentanti della sinistra (Veronesi, Verzelli e Balzamo).
La tensione raggiunge a questo punto lo zenit. Il presidente della Repubblica riceve al Quirinale De Lorenzo e il capo di Stato Maggiore della Difesa Aldo Rossi ed esercita pressioni su Moro affinché quest’ultimo non ceda alle richieste dei socialisti. Dopo tre giorni di trattative estenuanti, durante la notte del 17 luglio viene raggiunto l’accordo. Il giorno seguente, alla Direzione del partito, Lombardi ribadisce la sua posizione contraria. Troppi sono infatti, a suo giudizio, i punti insoddisfacenti, dalla programmazione (che resta sulla carta) alla legge urbanistica (in cui viene abbandonato definitivamente il principio dell’esproprio generalizzato del suolo).
La delegazione ha fatto il massimo, però… con l’accordo la politica del c.s. [centro-sinistra] si è disseccata. In queste condizioni coerenza non impegnarsi.[100]
Nonostante l’indisponibilità già dichiarata di Giolitti, De Martino pensa di poter contare ancora sulla sua presenza al governo. Di fronte ad un ulteriore rifiuto da parte sua, viene fatto il nome di Pieraccini per il ministero del Bilancio, affiancato da Mancini ai Lavori pubblici e da Mariotti alla Sanità.[101] Banfi, Anderlini e Simone Gatto decidono, invece, di autoescludersi dal governo.
Sull’«Avanti!» Nenni difende il compromesso raggiunto come l’unico possibile per evitare la soluzione del «governo di emergenza, affidato a personalità cosiddette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del Paese quale è sarebbe stato il governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito»: una chiara allusione all’esecutivo voluto da Merzagora.[102] Nei colloqui con gli altri dirigenti del Psi, però, il leader socialista parla velatamente anche del rischio di un’involuzione autoritaria: il «tintinnare di sciabole» di De Lorenzo. Una prospettiva cui pare dar credito lo stesso De Martino, che accenna «ai risvegliati e palesi propositi della destra miranti a una crisi di regime, alla fine della democrazia parlamentare e alla distruzione dei partiti».[103]
Lombardi, invece, mostra di non credere al colpo di stato e dà una lettura diversa della situazione: lo scopo del «tintinnare di sciabole» (e di chi lo sostiene) non è un golpe militare, ma la riproposizione di un centro-sinistra “moderato”. La minaccia autoritaria assume così le vesti di uno spauracchio da agitare di fronte ai socialisti per diminuire il loro peso politico e ostacolare i progetti di riforma. Una manovra cui, per Lombardi, non può essere estranea almeno una parte della Dc.
Ci siamo […] attardati sullo schema proposta dal compagno Nenni della mancanza di alternative non autoritarie. Ma se si accetta in tal modo il terreno del meno peggio non ci sono più limiti agli arretramenti. Se si ammette infatti che ci si è trovati di fronte alla necessità di parare un pericolo autoritario bisogna chiedersi anche con quali forze tale pericolo avrebbe potuto manifestarsi. Non si può certo pensare all’ipotesi che apparirebbe ridicola di un colpo di stato militare: quindi la manovra autoritaria avrebbe dovuto essere sostenuta da forze politiche che non potevano che essere dell’equilibrio italiano, quelle della D.C. Ma, in tale senso, si sarebbe verificato il fatto inaccettabile dell’imposizione da parte della DC di una precisa alternativa: o con noi con un programma di centro-sinistra ridotto a una riedizione dissimulata della pratica dei governi centristi, o contro di noi con una nostra scelta autoritaria.[104]
Al Comitato centrale del 27 e 28 luglio l’ordine del giorno di Nenni favorevole agli accordi che danno vita al secondo governo Moro ottiene la maggioranza con 52 voti. Gli oppositori alla linea di Nenni si presentano, ancora una volta, divisi. L’ordine del giorno Lombardi – che giudica i nuovi patti in contrasto con la politica del centro-sinistra decisa nell’ultimo congresso, contesta la trasformazione del rapporto con la Dc da un accordo sul programma ad «un’alleanza generale politica», ma rivendica al giustezza della politica del centro-sinistra – ottiene 10 voti contro i 23 dell’ordine della sinistra, che chiede l’immediato passaggio all’opposizione.[105]
Come era avvenuto nel 1949, anche in questo caso Lombardi si ritrova in minoranza e abbandona la guida dell’«Avanti!». Ora, però, le parti sono, in un certo senso, invertite. Nenni e De Martino, che quindici anni prima sconfissero la direzione Jacometti-Lombardi rivendicando l’esperienza del Fronte popolare e l’alleanza con il Pci di Togliatti, ora si schierano per la prosecuzione della collaborazione con la Democrazia cristiana, mentre Lombardi inizia a guardare sempre di più alle altre forze della sinistra per cambiare gli equilibri politici e riprendere lo slancio riformatore. Il suo saluto nell’annunciare le dimissioni dal quotidiano socialista suona anche un severo monito ai compagni di partito.
Nei sei mesi della mia direzione il nostro giornale è stato l’oggetto di un attacco della stampa moderata e conservatrice, di un furore che ha ben pochi precedenti nella pubblicistica del nostro paese. Sciaguratamente tale campagna trovò echi e perfino solidarietà anche all’interno del partito, ove non tutti compresero che isolando l’Avanti! si intendeva colpire il partito. Tutto ciò ha avuto almeno il vantaggio di portare in termini concreti ed esemplari il problema del rapporto che deve correre fra il giornale di partito e un governo di coalizione, cioè in concreto della indipendenza e non identificazione del partito con il governo. […]
Nel corso della dura battaglia di questi mesi mi è stato spesso ricordato che l’Avanti! assillava il risveglio quotidiano di qualche segretario di partito. Mi auguro che l’Avanti! da chiunque diretto non lasci tranquilli i sonni di nessuno: soprattutto quelli del partito che potrebbero essere pagati con amari risvegli.[106]
- Il saggio del professore Luca Bufarale è contenuto nel ‘quaderno’ di Labour n. 12
[1] Da oggi ognuno è più libero, «Avanti!», 6 dicembre 1963.
[2] Cfr. ad esempio P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, pp. 344-403; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, pp. 326-363; Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra 1960-1968, Carocci, Roma 1998; F. Barbagallo, L’Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate (1945-2008), Carocci, Roma 2009, pp. 79-89; G. Crainz, Storia della repubblica, Donzelli, Roma 2016, pp. 106-127.
[3] Cfr. A. Ricciardi, Riccardo Lombardi e l’apertura a sinistra 1956-1964, in A. Ricciardi, G. Scirocco (a cura di), Per una società diversamente ricca. Scritti in onore di Riccardo Lombardi, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2004, pp. 61-110; F. Grassi, Il Partito socialista e la pianificazione economica. Dalla ricostruzione alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, tesi di dottorato in Scienze politiche, Università degli studi di Pisa, 2008, soprattutto pp. 83-102 e pp. 138-201; T. Nencioni, Riccardo Lombardi nel socialismo italiano 1947-1963, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2014, pp. 187-256. Mi permetto di rimandare anche a L. Bufarale, Riccardo Lombardi da fautore a critico del centro-sinistra, in F. Chiarotto (a cura di), Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968, Accademia University Press, Torino 2017, pp. 256-273; L. Bufarale, Riccardo Lombardi e la nazionalizzazione dell’energia elettrica, «Studi storici», Anno LV, n. 3, luglio-settembre 2014, pp. 645-670.
[4] G. Crainz, op. cit., p. 106.
[5] Cfr. R. Faenza, Il malaffare. Dall’America di Kennedy all’Italia, a Cuba, al Vietnam, Mondadori, Milano 1978, pp. 306-376; L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 624-638.
[6] Accordo politico programmatico per il governo di centro-sinistra tra Democrazia Cristiana, Partito socialista italiano, Partito socialista democratico italiano, Partito repubblicano italiano (Roma, novembre 1963), in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 96, fasc. 2252.
[7] Cfr. U. Gentiloni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra 1958-1965, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 228 e sgg.; L. Nuti, op. cit, pp. 639-655. Sulla posizione dei socialisti nei confronti della MLF cfr. Promemoria sui problemi atlantici ed europei [1963], in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 95, fasc. 2250.
[8] Intervento di R. Lombardi al Comitato centrale del Psi del 26 novembre 1963, «Avanti!», 27 novembre 1963.
[9] Lettera di R. Lombardi a F. De Martino, Roma, 13 dicembre 1963, riportata in appendice a F. De Martino, Un’epoca del socialismo, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 431-432.
[10] Cfr. l’intervento di R. Lombardi al Comitato centrale del Psi del 10 dicembre 1963, in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 96, fasc. 2253; vedi anche la sua testimonianza in Cinquant’anni di coraggio. A tutto antepose la difesa della democrazia, intervista a cura di F. De Luca, «La Repubblica», 3 gennaio 1980
[11] Cfr. ad esempio U. La Malfa, Intervista sul non-governo, a cura di A. Ronchey, Laterza, Roma-Bari 1977; p. 108; N. Nesi, Riccardo Lombardi e il centrosinistra, intervista a cura di A. Ricciardi, «Il Ponte», a. LVII, n. 12, dicembre 2001, p. 91
[12] Cfr. l’intervento di R. Lombardi nella riunione della Direzione del Psi del 30 novembre, in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 95, fasc. 2250. Vedi anche la lettera di R. Lombardi a P. Nenni, s. l., 26 novembre 1963, in ACS, Fondo Nenni, s. carteggi, b. 30, fasc. 1518.
[13] Testimonianza di R. Lombardi, in G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Rizzoli, Milano 1990 (ed. originale Feltrinelli, Milano 1971), pp. 275-276.
[14] M. Mafai, Lombardi. Una biografia politica, Ediesse, Roma 2009 (ed. originale Lombardi, Feltrinelli, Milano 1976), p. 108.
[15] Davanti alle trattative, «Il Messaggero», 9 novembre 1963(articolo non firmato). Cfr. T. Nencioni, op. cit., p. 251.
[16] Riunione della maggioranza del Psi del 3 dicembre 1963, in ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 110, fasc. 2362.
[17] U. Indrio, Fanfani e Lombardi: due personaggi che possono dare fastidio al governo, «Corriere della Sera», 6 dicembre 1963.
[18] I nemici di Moro, «Corriere della Sera», 8 dicembre 1963 (articolo non firmato).
[19] A. Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 50-54.
[20] P. Nenni, Gli anni del centro-sinistra. Diari 1957-1966, a cura di G. Nenni e D. Zucaro, SugarCo, Milano 1982, p. 308, nota del 15 dicembre 1963.
[21] F. De Martino, op. cit., p. 277.
[22] R. Lombardi, Contro le impazienze, «Avanti!», 11 agosto 1948. Su questo periodo mi permetto di rimandare a L. Bufarale, Riccardo Lombardi. La giovinezza politica (1919-1949), Viella, Roma 2014, pp. 300-373.
[23] F. Papi, La memoria ostinata, Viennepierre, Milano 2005, p. 178.
[24] U. Segre, Il PSI alla prima prova, «L’Astrolabio», 10 marzo 1964, ora in Id., Il Partito socialista e gli altri partiti, Edizioni associate, Roma 2005, p. 206.
[25] Intervento di A. Giolitti nella riunione interministeriale del 13 febbraio 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 110, fasc. 2363. Su questo provvedimento cfr. F. Forte, La congiuntura in Italia 1961-1965, Einaudi, Torino 1966, pp. 130-146 e pp. 220-229; F. Magistrelli, G. Ragozzino, La cedolare “mista”: vincitori e perdenti, «Problemi del socialismo», marzo 1967, pp. 285-297.
[26] R. Lombardi, Cedolare: un passo indietro, «Avanti!», 23 febbraio 1964. Cfr. anche l’intervento il suo intervento in Tribuna politica. Incontro-dibattito tra i parlamentari sul tema «Come giudicate la crisi economica?», 18 marzo 1964, in ATR, D 2680.
[27] Lettera di P. Nenni a R. Lombardi, s.l., 25 febbraio [1964], in ACS, Fondo Nenni, s. carteggi, b. 30, fasc. 1518. Cfr. anche P. Nenni, op. cit., p. 336, 25 febbraio 1964.
[28] A. Moro, Il Governo per le esigenze della Nazione, «Il Popolo», 23 febbraio 1964.
[29] R. Lombardi, L’appello di Moro, «Avanti!», 25 febbraio 1964.
[30] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Garzanti, Milano 1984, p. 91.
[31] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 268-269 (corsivo nel testo).
[32] C. Merzagora, Le difficoltà economiche. Origini, cause e rimedi, «Corriere della Sera», 25 febbraio 1964, ora anche in Id., Lo strano paese. Scritti giornalistici 1944-1986, a cura di N. De Ianni, Prismi, Napoli 2001, pp. 459-461 (il passo citato è a p. 459).
[33] R. Lombardi, La lepre il coniglio e l’elefante, «Avanti!», 26 febbraio 1964.
[34] Interventi di V. Foa, A. Novella e F. Santi nella riunione tra governo e Cgil del 7 marzo 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 110, fasc. 2363.
[35] R. Lombardi, Con i piedi per terra, «Avanti!», 1 marzo 1964.
[36] Ibidem. Sullo stesso argomento cfr. R. Lombardi, La democrazia difficile, «Avanti!», 22 marzo 1964.
[37] Riunione tra il governo e la Confindustria dell’11 marzo 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 110, fasc. 2263.
[38] G. Bocca, Ve l’avevo detto io, «Il Giorno», 3 aprile 1964, citato in M. Pivato, Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana degli anni Sessanta, Donzelli, Roma 2011, p. 116. Per l’ostilità del mondo industriale, specie milanese, nei confronti di Lombardi cfr. L. Vergallo, Controriforma preventiva. Assolombarda e centro-sinistra a Milano (1960-1967), Archivio del lavoro, Sesto San Giovanni, 2009, pp. 105-106.
[39] Per una visione d’insieme della politica economica del Psi nel primo governo Moro cfr. C. Pinto, Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze, realtà (1945-1964), Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp.179-204.
[40] Cfr. ad esempio M. Rossi Doria, Rapporto sulla Federconsorzi, Laterza, Bari 1964; E. Rossi, A vele spiegate, «L’Astrolabio», 25 gennaio 1964, pp. 14-20.
[41] V. Piga, Ecco le prove del «cartello» Federconsorzi-Montecatini, «Avanti» 15 marzo 1964; Id., Ancora sulla Federconsorzi, «Avanti» 18 marzo 1964.
[42] Lettera di R. Lombardi a M. Ferrari Aggradi, Roma, 27 marzo 1964, in risposta a lettera di M. Ferrari Aggradi a R. Lombardi, s. l., Pasqua 1964, entrambe in ACS, Fondo Nenni, s. carteggi, b. 30, fasc. 1518.
[43] Cfr. S. Misiani, Manlio Rossi Doria. Un riformatore del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 597-601.
[44] Sulle vicende dell’Olivetti di questo periodo cfr. la dettagliata ricostruzione di L. Soria, Informatica: un’occasione perduta. La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centro-sinistra, Einaudi, Torino 1979, pp. 26-46. Vedi anche M. Pivato, op. cit., pp. 45-53.
[45] R. Lombardi, Olivetti, FIAT e IRI, «Avanti!», 20 marzo 1964.
[46] G. Salvemini, Sotto la scure del fascismo. Lo stato corporativo di Mussolini, De Silva, Torino 1948.
[47] Cfr. L. Bufarale, Riccardo Lombardi. La giovinezza politica, cit., pp. 238-239.
[48] R. Lombardi, Olivetti FIAT e IRI, cit.
[49] Cfr. ad esempio P. Ottone, La Ivrea di Olivetti vetrina del neo-capitalismo, «Corriere della Sera», 18 aprile 1964.
[50] E. Scalfari, Lombardi, la Fiat e l’Olivetti, «L’Espresso», 20 marzo 1964, ora anche in Id., Articoli, vol. IV, L’Espresso dal 1955 al 1968, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2004, pp. 938-940.
[51] R. Lombardi, Ciò che è in gioco all’Olivetti, «Avanti!», 27 marzo 1964. Cfr. la controreplica di E. Scalfari, Ancora su Lombardi e sull’Olivetti, «L’Espresso», 5 aprile 1964, ora in Id., op. cit., pp. 943-945. Sulle divergenze tra i due cfr. E. Scalfari, La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal Mondo alla Repubblica, Mondadori, Milano 1986, pp. 221-222.
[52] L. Libertini, L’era del capitalismo collettivo, «Mondo nuovo», 29 marzo 1964.
[53] Cfr. L. Soria, op. cit., p. 33.
[54] Cfr. la sua testimonianza in N. Nesi, Banchiere di complemento, Sperling & Kupfer, Milano 1993, pp. 42-43.
[55] L. Soria, op. cit., p. 42. Vedi anche A. Giolitti, Lettere a Marta. Ricordi e riflessioni, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 138-139.
[56] Cfr. I comunisti e l’operazione Olivetti, «Avanti!», 28 maggio 1964 (articolo non firmato).
[57]R. Lombardi, La stretta, «Avanti!», 14 aprile 1964.
[58] M. Alicata, Risposta al compagno Lombardi, «L’Unità», 16 aprile 1964.
[59] R. Lombardi, La stretta, cit.
[60] Citato in M. Carabba, Un ventennio di programmazione, 1954/1974, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 52-53.
[61] Cfr. gli interventi di A. Giolitti e R. Lombardi nella riunione della Direzione del Psi del 23 aprile 1964. in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 97, fasc. 2256. Sulla programmazione economica in questa fase, oltre a M. Carabba, op. cit., pp. 27-78, cfr. anche F. Lavista, La stagione della programmazione. Grandi imprese e Stato dal dopoguerra agli anni Settanta, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 308-369.
[62] R. Lombardi, C’è più di un modo, «Avanti!», 12 maggio 1964. L’articolo si trova anche in Id., Scritti politici 1963-1978. Dal centro-sinistra all’alternativa, a cura di S. Colarizi, Marsilio, Venezia 1978, pp. 11-15.
[63] Cfr. la relazione sull’incontro tra il ministro del Bilancio e i sindacati del 26 maggio 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 110, fasc. 2363. Vedi anche A. Giolitti, op. cit., pp. 140-143.
[64] Una lettera di Colombo a Moro sulla gravità della crisi, «Il Messaggero», 27 maggio 1964, citata in Y. Voulgaris, op. cit., p. 143.
[65] E. Colombo, La situazione economica, «Il Popolo», 29 maggio 1964.
[66] A. Giolitti, op. cit., p. 143.
[67] Cfr. G. Tamburrano, op. cit., p. 309; A. Giolitti, op. cit., p. 143.
[68] Attese deluse, in «Corriere della Sera», 7 giugno 1964.
[69] F. De Martino, op. cit., p. 286; G. Tamburrano, op. cit., pp. 305-306; P. Nenni, op. cit., p. 357. La proposta era già stata avanzata da Lombardi nel febbraio del 1964. Cfr. promemoria di R. Lombardi per P. Nenni, s.d. [febbraio 1964], in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 110, fasc. 2363. Sul punto riguardante l’imposta sul patrimonio Nenni appunta a mano le reazioni del governatore della Banca d’Italia e del ministro delle Finanze: «sarebbe il colpo di grazia (Carli), rese pochissimo (Tremelloni)».
[70] Cfr. E. Cavalieri, Il prestito della Cee all’Italia del 1964: storia di un aiuto mai concesso, paper presentato per Storie in corso – Workshop nazionale dottorandi in Storia contemporanea, Napoli, 23-24 febbraio 2006 (su queste vicende vedi soprattutto pp. 8-12); più estesamente Ead., Il ricatto della congiuntura. Il Centro-sinistra e la crisi della bilancia dei pagamenti italiana del 1963-64, tesi di dottorato in Scienze politiche, Università degli studi di Firenze, 2007.
[71] R. Lombardi, Neppure come ipotesi, «Avanti!», 7 luglio 1964. Cfr. la replica del quotidiano Dc La CEE e la Farnesina smentiscono le fantasie su «piani e complotti», «Il Popolo», 8 luglio 1964, e la risposta di R. Lombardi, A proposito di smentite, «Avanti!», 9 luglio 1964.
[72] Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, La programmazione economica in Italia, vol. IV, So.Gra.Ro, Roma 1967, pp. 1-55. Cfr. G. Scroccu, Alla ricerca di un socialismo possibile. Antonio Giolitti dal PCI al PSI, Carocci, Roma 2012, pp. 211-212.
[73] R. Lombardi, Una crisi fuori tempo, «Avanti!», 26 giugno 1964.
[74] R. Lombardi, Due pesi e una misura, «Avanti!», 30 giugno 1964 (corsivo mio).
[75] P. Nenni, op. cit., pp. 370-371, nota del 27 giugno 1964.
[76] G. Tamburrano, op. cit., p. 322.
[77] Resoconto del colloquio di P. Nenni con G. Carli, 1 luglio 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 111, fasc. 2368.
[78] P. Nenni, op. cit., p. 369, nota del 25 giugno 1964.
[79] G. Tamburrano, op. cit., p. 322. A questo proposito, subito dopo le dimissioni di Moro, Nenni scrive: «formalmente il governo non è tenuto alle dimissioni giacché non aveva posto la questione sulla fiducia. Sostanzialmente non può però fare altro che dimettersi. É opinione di Moro con il quale ho avuto al banco del governo un colloquio cominciato su una nota un poco acre (il mancato voto dei ministri socialisti) e finito con cordialità. Avrei potuto nelle ultime quarantotto ore raddrizzare la situazione con qualche espediente procedurale. Non l’ho fatto perché ero da giorni convinto della inevitabile sorte del ministero Moro». (cfr. P. Nenni, op. cit., p. 369, nota del 25 giugno 1964).
[80] G. Pieraccini, F. Vander, Socialismo e riformismo. Un dialogo fra passato e presente, Marietti, Genova-Milano 2006, pp. 190-191.
[81] Sintesi dell’intervento di R. Palleschi al Comitato centrale del Psi del 4 giugno, «Avanti!», 5 luglio 1964.
[82] Sintesi dell’intervento di F. De Martino al Comitato centrale del Psi del 3 luglio 1964, «Avanti!», 4 luglio 1964.
[83] Intervento di R. Lombardi al Comitato centrale del Psi del 4 luglio 1964, riportato anche in Id., Scritti politici, 1963-1978, cit., p. 23 (corsivo mio).
[84] Ibidem, p. 28.
[85] P. Nenni, op. cit., pp. 373-374, nota del 4 luglio 1964.
[86] Cfr. «Avanti!», 5 luglio 1964.
[87] ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 111, fasc. 2368, appunti sulla riunione di Villa Madama, 11 e 16 luglio 1964.
[88] A. Giolitti, op. cit., p. 146.
[89] ACS, Fondo Nenni, s. governo, b. 111, fasc. 2368, appunti sulla riunione di Villa Madama, 11 luglio 1964.
[90] P. Nenni, Gli anni del centro-sinistra, cit., p. 375, 7 luglio 1964.
[91] Lettera di A. Segni a G. Carli, 10 luglio 1964, in M. Franzinelli, A. Giacone (a cura di), Il riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964), Feltrinelli, Milano 2012, p. 527.
[92] M. Franzinelli, Il Piano Solo. I servizi segreti, il centro-sinistra e il «golpe» del 1964, Mondadori, Milano 2010, pp. 110-111 e p. 323.
[93] Ibidem, pp. 88-90 e pp. 287-297.
[94] Lettera di A. Banfi del 7 gennaio 1991, in Atti parlamentari, Senato della Repubblica-Camera dei Deputati, X legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, cartella SIFAR-Piano Solo, riportata anche in A. R. D’Agnelli, La crisi del giugno-luglio 1964, tesi di dottorato in Storia, Università degli studi di Pisa, 2008, pp. 116-117.
[95] Ibidem.
[96] M. Franzinelli, Il Piano Solo, cit., p. 143. Vedi anche E. Cavalieri, I piani di liquidazione del centro-sinistra nel 1964, «Passato e presente», a. XXVIII, n. 79, gennaio-aprile 2010, pp. 59-82.
[97] Ibidem, p. 130.
[98] Riunione della Direzione del Psi del 13 luglio1964, in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 97, fasc. 2256.
[99] Ibidem. Cfr. A. Giolitti, Lettere a Marta, cit., p. 148; P. Nenni, op. cit., p. 378, nota del 13 luglio 1964.
[100] Riunione della Direzione del Psi del 18 luglio 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 97, fasc. 2256.
[101] Riunione della Direzione del Psi del 20 luglio 1964, in ACS, Fondo Nenni, s. partito, b. 97, fasc. 2256.
[102] P. Nenni, Uno spazio politico da difendere, «Avanti!», 26 luglio 1964. Cfr. anche Id., Volevano il governo della Confindustria. (Lo volevano anche i comunisti?), «Avanti!», 22 luglio 1964.
[103] F. De Martino, Valore di un accordo, «Avanti!», 21 luglio 1964.
[104] Intervento di R. Lombardi al Comitato centrale del Psi del 28 luglio 1964, «Avanti!», 29 luglio 1964.
[105] Cfr. «Avanti!», 29 luglio 1964.
[106] R. Lombardi, Saluto ai compagni, «Avanti!», 21 luglio 1964.