IL GOVERNO CONSEGNA LA SANITA’ AI PRIVATI
di Renzo Penna
La campagna strisciante volta a privatizzare la sanità pubblica, a vantaggio di imprenditori e assicurazioni e a danno dei cittadini, è in atto da tempo e negli ultimi anni sta registrando una forte accelerazione. Un indirizzo, quello del privato, già esplicitamente previsto nel Libro Verde sul welfare del ministro Sacconi durante il IV governo di Silvio Berlusconi (2008-2011). Ma è stata, in particolare, la legge di “riordino” del 1992[1] che, introducendo il concetto di aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (USL) trasformate in Aziende Sanitarie Locali (ASL), ha modificato nel profondo gli indirizzi della riforma del 1978 e prodotto una dequalificazione delle risorse umane con una conseguente caduta di qualità ed efficacia. È così venuta meno una visione complessiva del SSN. La salute veniva sostanzialmente considerata un costo da governare con un presidio di iper-managerialità, in grado di controllare, secondo una funzione di tipo gerarchico-specialistico, lo sviluppo del sistema. In questa prospettiva si è perso di vista l’elemento della territorializzazione della gestione della salute, vissuto come un appesantimento della struttura sociale. Le ricadute di tale scelta le abbiamo, di recente, misurate durante la pandemia da Covid-19.
E si deve aspettare il 1999[2] perché il Parlamento introduca correttivi alle derive regressive e di eccessiva aziendalizzazione decise in precedenza.
Purtroppo anche i governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno contribuito, con pesanti tagli, al progressivo ridimensionamento del Servizio Sanitario Nazionale, svalutando i principi fondanti del diritto costituzionale alla tutela della salute. In dieci anni, dal 2010 al 2020, le mancate risorse assegnate alla sanità pubblica ammontano a trentasette miliardi di euro, tra ospedali, medicina territoriale, attrezzature e personale. E non vi è stata molta differenza tra governi di centrodestra e governi di centrosinistra: tutti hanno tagliato. Fino alla pandemia, quando i finanziamenti sono temporaneamente risaliti. Passata però la paura del Covid con il governo Meloni è già ripresa la discesa che nel 2025 porterà a soli settantacinque miliardi le risorse disponibili, al netto dell’inflazione. Nel 2006 erano novanta.
Questo è stato possibile perché la sanità è stata valutata come un costo e non come un investimento per la salute e il benessere delle persone, oltre che per una crescita economica del Paese socialmente sostenibile. La spinta verso la sanità privata si giova di queste interessate considerazioni, insieme al racconto di una sanità pubblica “inefficiente e fonte di sprechi”. Come conseguenza i sostenitori del privato prevedono di affidare alle assicurazioni private la diagnostica e le cure specialistiche, lasciando le cure essenziali alla sanità pubblica. Ma non manca chi avanza l’idea di una fuoriuscita dal Servizio sanitario nazionale dei cittadini ad alto reddito e prospetta una sanità pubblica per i poveri, destinata a degradarsi, contrapposta a isole di eccellenza riservate a chi può pagarsi le cure. Realizzando in questo modo un completo stravolgimento dei principi costituzionali e dell’impianto del servizio sanitario pubblico.
Un modello che negli Stati Uniti ha già mostrato i suoi effetti disastrosi, insostenibili sul piano finanziario, con il raddoppio della spesa sanitaria rispetto al Pil e lasciando 45 milioni di cittadini senza alcuna tutela sanitaria. Il sistema sanitario del paese più ricco del mondo è costosissimo, grandemente inefficiente e l’esperienza del Covid ha portato inequivocabilmente alla luce tutti i limiti del sistema privato che, si è calcolato, ha causato negli ultimi due anni la perdita di un milione di vite umane.
E nel nostro Paese non è certo un caso se proprio in Lombardia, nella regione che da anni rappresenta l’avamposto della privatizzazione della sanità in Italia, la pandemia abbia, all’inizio del 2020, prodotto un disastro provocando nella provincia di Bergamo – tra i territori più privatizzati della regione – una vera e propria strage.
Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come i sistemi sanitari basati sul privato siano più costosi e meno efficienti; la ragione è facilmente comprensibile: il privato, in primo luogo, risponde alle esigenze degli azionisti più che a quelle dei malati. Infatti, mentre un sistema pubblico lavora per ridurre le prestazioni quello privato si adopera per aumentarle facendo crescere il fatturato.
Il pensiero politico che sottende l’indirizzo verso il privato è quello neoliberale, che punta ad introdurre modelli di mercato all’interno dell’amministrazione pubblica come sistema per ridurre i costi e migliorare efficienza e qualità. Ma le promesse legate alle privatizzazioni, come già molti casi dimostrano, sono destinate a risultare illusorie; inoltre la presenza del privato limita la spinta all’eccellenza riservandola ai servizi più lucrativi a scapito di quelli non lucrativi, in primis la prevenzione. E la sottovalutazione della prevenzione spinge il sistema sanitario verso la non sostenibilità, perché le cure e i costi correlati crescono.
A 45 anni dall’approvazione della legge 833 che istituiva (23 dicembre 1978) il Servizio Sanitario Nazionale – un modello di sanità pubblica ispirato da principi di equità e universalismo, finanziato dalla fiscalità generale e che ha permesso di ottenere eccellenti risultati – è urgente intervenire per arrestare un processo che rischia di consegnare la sanità ai privati. Una prospettiva cara all’attuale Governo.
Anche a questo proposito mi è sembrata giusta e opportuna la presa di posizione dalle segreterie provinciali di Cgil-Cisl-Uil e delle rispettive categorie dei dipendenti pubblici in difesa della sanità pubblica e di critica alla decisione dell’ASL di Alessandria di affidare ai privati significativi settori dell’ospedale di Tortona.
Risulta infatti grave e difficilmente giustificabile che responsabili della sanità pubblica, invece di impegnarsi nell’eliminare le disfunzioni e migliorare la qualità del servizio, incentivino la privatizzazione di importanti strutture in contrasto con il dettato costituzionale.
Ed è proprio partendo dall’articolo 32 della Costituzione, secondo cui è la Repubblica a dover tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, che si deve operare per ridare forza e centralità al servizio sanitario pubblico. Un diritto fondamentale che nell’attuale situazione risulta sempre più disatteso. Anche perché la critica situazione del Servizio Sanitario – come ha, di recente, sostenuto Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri – ha reso evidente e portato alla luce un problema culturale: “Si avalla una società che fonda il benessere della popolazione sulla concorrenza e sul libero mercato dando così sempre più credito e più potere ad un sistema orientato alle prestazioni e al profitto, finendo per rispondere più agli interessi degli azionisti che ai bisogni degli ammalati”.[3]
Per resistere alla deriva della privatizzazione occorrono certo più risorse e più personale, adeguatamente retribuito, ma, da sole, queste pur importanti misure non bastano. Occorre recuperare lo spirito originario della riforma del 1978 ricreando le condizioni per una partecipazione democratica dei cittadini alla gestione e al controllo del servizio. A questo fine e come esempio la stessa nomina dei direttori sanitari dovrebbe risultare maggiormente democratica, non essere più lasciata solo ai Presidenti delle Regioni, ma prevedere forme e modalità di coinvolgimento e diretta partecipazione dei cittadini.[4]
Renzo Penna
Alessandria, gennaio 2024
[1] D.lgs 502/30-12-‘92 – Governo Giuliano Amato e ministro della Sanità Francesco Di Lorenzo
[2] D.lgs. 299/19-06-‘99 – Governo Massimo D’Alema e ministra della Sanità Rosy Bindi
[3] marionegri.it: seminario “Salve Lucrum: Come salvare il SSN dalla Privatocrazia”. 5 giugno 2023
[4] Dall’intervento di Chiara Cordelli al seminario di cui alla nota n.3