Dalla pubblicazione “Volti di un secolo” il ricordo di Riccardo Lombardi scritto, nel settembre ’84, da Rossana Rossanda.
«Non vorrei vivere molto in un mondo dal quale se ne fossero andati i miei amici», ebbe a dire una volta Simone de Beauvoir. E mi viene in mente sentendo della fine di Riccardo Lombardi. Non soltanto perché è triste la perdita di un uomo molto caro e molto rispettato, non soltanto perché è un altro segmento di storia che se ne va, ma perché lentamente se ne sta andando, con compagni come lui, forse l’intelligibilità della nostra stessa esistenza.
Le generazioni politiche sono altra cosa dall’età: ero poco piú d’una ragazzetta quando nel 1944 a Milano conobbi l’ingegner Lombardi, già fondatore d’un partito e suo rappresentante in quel Cln dell’Alta Italia che la gente del Nord considererà sempre il solo vero.
Non so che cosa lo avesse condotto a Milano da Regalbuto, se non il destino dell’intellettualità meridionale; certo è che Lombardi era uno di noi, piú grande, ed allora avremmo vissuto in parallelo la trama che va dalla resistenza ai nostri giorni, questi quarant’anni che altre generazioni vivono frammentariamente, per necessità di esperienza o per anagrafica smemoratezza. Quarant’anni in parallelo, spesso d’accordo sul «contro» e spesso divisi sul «per»; ma intendendoci, volendoci bene, consapevoli senza tante storie di essere sconfitti e senza storie sapendo che in politica non è poi cosí evidente, al di là dei tempi brevi, che cosa significhi perdere o vincere.
Riccardo Lombardi non fu certo tra i vincenti sui tempi brevi; e però non smise mai di battersi. Non perché concedesse a spiriti eroici, ma per un suo senso di ragione e di non dimissione da quella vita civile, nella quale quarantenne, si era preso cosí grandi responsabilità. Quarantenne e già malato, perché lo fu sempre e tanto che finimmo col ritenerlo immortale: immutabile nella precarietà del suo corpo colpito irrimediabilmente dalla tubercolosi quando gli antibiotici non esistevano ancora. Essa gli aveva trasformato i polmoni, aveva modellato quella sua dinoccolata figura un po’ curva in avanti, come succede agli uomini altissimi, gli aveva scavato i lineamenti: l’età non ebbe piú presa su di lui. Né le malattie: scherzava su un cancro ai polmoni che, disse un giorno, aveva, poveretto, ben poco da rodere. Scherzava in modo elegante, come quella sua parlata rapida, in cui restava un’inflessione del Sud arrochita dall’impenitente fumo, che rallentava soltanto per sottolineare, senza mai alzare il tono, poche questioni di principio, l’essenziale.
Perché era un uomo di principio, Riccardo Lombardi, anche se il meno enfatico che io abbia conosciuto; anzi forse l’intera sua vita politica può leggersi come un irrisolto amalgama fra principî e senso di realtà – un’impossibilità di soluzione che ne avrebbe fatto una voce politica a parte, lucida e perlopiú inascoltata. Lombardi proponeva o si schierava, perdeva, si ritirava, tornava alla carica. Se trovò delle amarezze – e dovette incontrarne piú d’una – non ne parlava mai. Poche solitudini furono piú discrete di quel suo lento finale lasciarsi emarginare, per stanchezza o per il senso, che talvolta può prenderti, che non c’è nulla da fare, che una vicenda deve seguire la sua parabola, che non hai le forze per farla mutare.
Ma non senza aver tentato. Era stato fondatore del Partito d’Azione ma lo sciolse senza eccessi d’angoscia. Passò nel Psi, ma non mutò l’orizzonte che ne aveva fatto l’uomo di Giustizia e Libertà. Forse si colorava un poco di piú il suo radicalismo sociale; ma per questo in Italia non occorre essere marxisti o presunti tali. Lombardi stava fermamente a sinistra e con i lavoratori, ma di teoria si impicciò pochissimo; forse anche per questo non furono sempre agevoli i suoi rapporti con le altre sinistre socialiste. Come so-cialista si batté nella ricostruzione, prefetto di Milano e ministro del primo governo d’unità antifascista, trovandosi a sinistra anche del Pci nell’accento subito messo su alcune decisive misure di intervento economico; Togliatti era piú attento ai rapporti politici di stato, l’occhio fisso sul suo grande avversario, De Gasperi, che sulle riforme da fare a caldo. Cosí le proposte lombardiane sulla moneta presero subito, come piú tardi quella sulla nominatività dei titoli azionisti o di certe nazionalizzazioni, la sigla del suo modo di essere: ogni volta che indicava un intervento pratico – ve-niva giudicato o troppo a destra o troppo a sinistra.
Non penso che lo divertisse essere isolato, e tantomeno che ne vezzeggiasse l’immagine: la politica, la società, il che fare furono davvero la sua passione e non si cambiano da soli le carte collettive. Ma se voleva fare e contare, non era a qualsiasi prezzo. Cosí avvenne che lui – il meno formato nella tradizione del movimento operaio – fosse fermamente accanto ai comunisti negli anni della guerra fredda, sul piano Ueo, contro la di-internazionale e interno, contro la discriminazione in fabbrica, contro l’anticomunismo. Acomunista, si disse una volta; anticomunista mai. Il Pci amò piú Nenni di lui, ma Lombardi non sarebbe andato a Pralognan. Lui, non marxista, alzò la voce per chiedere in tempi non sospetti dove stesse andando quel suo partito, che veleggiava verso l’accordo del centrosinistra con la Dc.
Era e si voleva un riformatore – l’uomo della programmazione con il senso acuto del trovarsi in un paese nel quale la classe dirigente non modifica mai nulla e quindi della necessità di andare a uno scontro, e tuttavia diffidente delle spinte dal basso, che dovettero parergli sempre giuste e sempre immature o estreme. Pensò seriamente che Allende fosse caduto per colpa dei minatori di El Teniente, si augurò un governo La Malfa contro il compromesso storico, schierò la sua sinistra con Craxi e levò per primo la voce contro di lui le ultime volte che prese la parola.
Negli ultimi tempi si schierò contro i missili, fermamente dovunque potesse, non andò all’ultimo congresso del suo partito perché già si sentiva fuori contesto. Non era uomo da recitare una rottura soltanto per salvare l’anima, ma certo non doveva essere stata la malattia – lui che l’aveva vissuta con grande indifferenza – a tenerlo lontano da Verona. Con questo Psi, Riccardo Lombardi non aveva piú molto a che vedere, ma era il suo partito; questo Psi lo presentò alle elezioni a Milano e fece cadere uno dei pochi padri fondatori della repubblica, perché non aveva abbastanza respiro da sentirlo ancora un suo uomo e non solo una sua passata gloria. Fu una volgarità gratuita, Riccardo Lombardi non avrebbe piú corso in politica. Quando in tempi meno distratti ed arroganti qualcuno ritornerà su questo mezzo secolo, questa singolare figura di riformatore italiano, cosí poco ideologico e cosí fortemente dotato di una idea morale, cosí pragmatico e cosí fedele ai suoi valori – apparirà nella verità e negli errori fra le piú limpide e coerenti – e nel suo isolamento si vedrà, piú che il destino di un uomo la povertà del ceto politico che ci comanda.
19 settembre 1984