“Presadiretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona, nella puntata di domenica 31 marzo ha acceso le telecamere sul caso Brescia, su uno degli inquinamenti, in assoluto, più gravi del Paese in quanto riguarda una porzione ampia di città, quattro milioni quadrati di territorio nella zona sud di Brescia dove vivono 25 mila persone. Si tratta del Sito di Interesse Nazionale “Caffaro”, dal nome della fabbrica, adesso chiusa, che dagli anni trenta fino a metà degli anni ‘80 ha prodotto migliaia di tonnellate di PCB (policlorobifenile) – al pari della diossina un pericoloso cancerogeno – sversandone centinaia di tonnellate allo stato puro nell’ambiente circostante. Una sostanza la cui tossicità per il terreno e per l’uomo si misura in microgrammi. Per quanto riguarda la dimensione e l’estensione dell’inquinamento l’inchiesta ha ricostruito, quartiere per quartiere, l’incidenza del PCB nei terreni, tra le case, nei parchi pubblici, persino vicino alle scuole elementari che i bambini continuano a frequentare. Ne risulta che ad essere coinvolta è tutta la popolazione di Brescia, visto che in cinquant’anni di continuo inquinamento la sostanza è entrato nella catena alimentare, tramite le verdure, la carne, il latte e anche attraverso l’allattamento materno.
La vicenda è conosciuta almeno da dieci anni, da quando nel 2002 il territorio interessato dalla Caffaro è entrato ufficialmente a far parte dei siti di interesse nazionale individuati dal Ministero dell’Ambiente come realtà fortemente contaminata da PCB e quindi da bonificare. Ma a sollevare l’attenzione sul caso era stato un altro evento massmediatico propiziato da uno scoop di “la Repubblica” nel giorno di Ferragosto del 2001. E da allora cosa è cambiato e quanto è stato fatto? Pochissimo. Un’ordinanza del Comune, in vigore da dieci anni, vieta alle persone che vivono nelle zone contaminate di passare sulle superfici non coperte da asfalto o da cemento, mentre la bonifica non è mai partita perché la Caffaro è una società fallita, una scatola vuota senza soldi e al Ministero dell’Ambiente risorse non ce ne sono. E così 25mila persone, donne, uomini e bambini vivono ancora a stretto contatto con il PCB. Ma soprattutto, tranne pochi comitati, a Brescia non si è voluto prendere atto di questa situazione, come se l’emergenza sanitaria non esistesse, un silenzio che “Presadiretta” ha cercato di squarciare.
Brescia e la Caffaro: conseguenze di un inquinamento da PCB sottovalutato
Ma quanto è pericolosa l’esposizione al PCB per la salute dell’uomo? Riccardo Iacona è andato sino a Boston, all’università di Harvard, per intervistare Philippe Grandjean, professore e scienziato di fama internazionale, che studia da più di venti anni l’effetto sulla salute umana dell’esposizione a PCB e a Diossina. “Più della metà del Pcb depositato nel grasso della madre – sostiene Grandjean – passa al neonato tramite il latte materno”. Lo scienziato ha scoperto di recente che oltre a provocare diversi tipi di cancro, l’esposizione prolungata al PCB modifica in profondità il sistema immunitario e l’apparato endocrino, con conseguenze molto gravi soprattutto per i bambini. Come dimostra la terribile storia di Anniston, una piccola città dell’Alabama fortemente inquinata da una fabbrica della multinazionale “Monsanto” che, proprio come la Caffaro, ha prodotto per cinquant’anni centinaia di migliaia di tonnellate di PCB. La trasmissione ha messo in luce e dato voce al dramma di una intera comunità, quella di Anniston, colpita e condizionata dalla malattia.
L’unica rilevante differenza con la situazione di Brescia riguarda il fatto che la Monsanto è stata giudicata in tribunale, ha dovuto pagare 700 milioni di dollari ai cittadini che aveva inquinato e adesso si sta facendo carico di tutte le spese della bonifica. Da noi invece non è successo nulla, la Procura della Repubblica non ha processato i dirigenti della Caffaro, anche perché a costituirsi fu solo Legambiente, mentre l’Amministrazione comunale decise diversamente. Nel frattempo l’azienda è fallita e gli enormi costi della bonifica rimangono a carico del pubblico.
Per le conseguenze sulla salute delle persone vale quello che ha dichiarato Grandjean quando ha raccontato i risultati delle ricerche sugli effetti del PCB ai quali lavora da più di venti anni : “È ormai provato che il Pcb provoca il cancro, in particolare cancro al seno, tumori del sangue e tumore al fegato. Ma fa anche molto di più: è collegato allo sviluppo del diabete e in base alle nostre ricerche impedisce il corretto sviluppo del cervello dei bambini. I bambini esposti al Pcb hanno infatti capacità cognitive ridotte. Ma abbiamo visto anche che attacca il sistema immunitario del nostro corpo indebolendolo, aprendo la strada a diverse malattie”. Grandjean dà un giudizio senza appello: “Questo tipo di inquinamento va trattato come un serio problema di salute pubblica che richiederebbe una immediata bonifica perché espone la popolazione a malattie mortali”.[1]
I dati che invece riguardano Brescia sono nuovi e si riferiscono all’insorgenza dei tumori. Sono il risultato di una recente ricerca svolta da Paolo Ricci, epidemiologo della Asl di Mantova che segue il sito Caffaro da quando si è scoperto il grave inquinamento. La ricerca è stata realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con il Registro Nazionale dei tumori, ed è quindi uno studio importante. Fino ad ora la Asl di Brescia aveva condotto studi sulla mortalità per malattie tumorali nella città, a confronto con quella media del nord dell’Italia e per questa strada aveva già registrato un aumento quasi del doppio di tante forme tumorali, ma la particolarità e l’importanza di questo nuovo studio è che rende conto della incidenza dei tumori a Brescia. Nella sua ricerca il tumore maligno alla tiroide segna un più 49 per cento di incidenza rispetto al Nord Italia, il linfoma non hodgkin più 20 per cento, il tumore al fegato più 58 per cento, mentre il tumore al seno registra un più 26 per cento. Secondo Ricci la correlazione tra questa maggiore incidenza e il PCB è più che probabile, visti i risultati della ricerca scientifica internazionale, ma date anche le incredibili dimensioni dell’inquinamento dei terreni a sud della Caffaro rilevati dai tecnici del Ministero dell’Ambiente e dell’Arpa.[2]
Lo scoop giornalistico di “la Repubblica” e quello, recentissimo, di “Presadiretta” originano però entrambi da una analitica e poderosa pubblicazione di Marino Ruzzenenti, storico dell’ambiente che nel 2001 per Jaca Book ha scritto: “Un secolo di cloro e…PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia”. Una ricostruzione rigorosa e puntigliosamente documentata dello stabilimento chimico di Brescia, delle sue produzioni, del rapporto con la città che generosamente l’ha ospitata e che con essa è cresciuta, delle condizioni sociali degli uomini e delle donne che in essa hanno lavorato e con essa hanno convissuto. Una storia carica di inventiva industriale, che tuttavia si dipana di fronte al lettore, spesso, con il ritmo e lo stile di un grande romanzo. Ma la narrazione, nel finale, si trasforma in un “romanzo giallo”. I gialli più accattivanti, non casualmente, raccontano di crimini sapientemente occultati, in cui la “morte per caso” sopravviene dopo un lentissimo, impercettibile, ma ineluttabile avvelenamento. E nessuno se ne accorge finchè…Dalla produzione del cloro in questo secolo sono infatti nate cose incredibilmente propizie, non solo per il mercato, ma anche per la vita, eppure sono scaturite nefandezze da alcuni suoi composti organici, tra cui i PCB.
E l’autore del libro, dopo la trasmissione che ha riproposto il “caso Caffaro” all’attenzione dell’opinione pubblica, ha inviato una lettera aperta ai candidati a sindaco della città di Brescia nella quale propone: “la necessità di costruire un Programma generale di bonifica, articolato nei diversi settori (rogge e falda, terreni agricoli, terreni di abitazioni private, terreni pubblici, sito industriale,…) che possa restituire ad integrum quel territorio della città agli attuali cittadini ed alle generazioni future”.E suggerisce un percorso che, attraverso la costruzione di un progettogenerale di bonifica e di riuso del sito, capace di attivare risorse scientifiche e tecniche straordinarie, sia in grado di trovare anche le ingenti risorse necessarie accedendo: “… agli appositi fondi europei, sul modello di quello della regione della Ruhr, ovviamente corredato da adeguati finanziamenti reperiti nel nostro Paese”.[3]
A cura di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Luigi Micheletti[4] e del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, e dello stesso Marino Ruzzenenti, è stato recentemente dato alle stampe il volume: “Il caso italiano – Industria, chimica e ambiente”.[5]
La crisi ambientale causata dall’industrializzazione costituisce, secondo molti, la questione cruciale del nostro tempo. Esiste un rapporto certo ed evidente tra lo sviluppo dell’industria, il suo crescente impatto sull’ambiente, il susseguirsi di traumi locali e globali a carico dell’ecosistema e il dispiegarsi, in tempi storici ravvicinati, del processo estensivo e intensivo dell’industrializzazione. Ciononostante, soprattutto in Italia, il difficile rapporto tra industria e ambiente, visto e analizzato nel suo farsi storico, è poco studiato. Il libro, di oltre cinquecento pagine, fornisce materiali importanti, in alcuni casi imprescindibili, per mettere a fuoco le dimensioni reali del problema, utilizzando come banco di prova il caso italiano, ad un tempo peculiare ed emblematico. Un’ampia sezione, incentrata soprattutto sull’industria chimica, ricostruisce e analizza una serie di casi esemplari. Il resto del volume è imperniato sugli apporti che in tema di industria, chimica, ambiente hanno fornito due delle principali figure dell’ambientalismo scientifico italiano: Laura Conti[6] e Giorgio Nebbia[7]. A quest’ultimo è dovuto anche il CD allegato, “Un anno di chimica: elementi e racconti”. La crisi del nostro tempo è senza rimedi – questa è la tesi di fondo della pubblicazione – se non si è in grado di affrontare la crescente insostenibilità della civiltà industriale, estesasi sull’intero pianeta.
L’impatto dell’industrializzazione tra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri
Il criterio guida che gli autori assumono è quello di valutare la dimensione qualitativa e quantitativa dell’impatto[8] che l’industrializzazione ha esercitato sull’ambiente, individuando per l’Italia quattro periodi.[9] – Il Primo, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, con un impatto puntiforme, sporadico. E’ quello segnato dall’avvio del processo di industrializzazione che in Italia si caratterizza, sul piano energetico, per il passaggio graduale dall’uso della forza idraulica diretta all’impiego dei motori elettrici alimentati da centrali idroelettriche. A questa fase è dedicato il bel saggio di Stefania Barca: “Il capitalismo nelle vallate: acque e industrie nell’Italia dell’ottocento”. L’industria chimica compie in questi anni i primi passi e localmente si avvertono le prime rilevanti conseguenze legate alle produzioni di: acido solforico, superfosfati, carburo di calcio, soda caustica, calciocianammide, esplosivi e primi coloranti sintetici, lavorazioni del cromo. L’intervento “L’Acna e la Valle Bormida” di Pier Paolo Poggio inizia con l’atto di nascita della fabbrica dei veleni che si insedia come un dinamitificio, il 26 marzo 1882, nel Comune di Cengio in provincia di Savona.
– Il Secondo periodo, dagli anni Trenta a metà anni Cinquanta, registra un impatto intenso, ma ancora circoscritto. Coincide in buona parte con il fascismo e con i primi anni della Repubblica. In questi decenni lo sviluppo della chimica e della siderurgia è l’asse strategico per la programmata indipendenza economica del Paese. Produzioni a forte impatto ambientale si insediano in alcuni poli della chimica (coloranti ed esplosivi; composti organo clorurati, aggressivi chimici bellici, pesticidi; prime plastiche e gomme sintetiche; piombo tetraetile per i carburanti avio…). La siderurgia da rottame si affianca a quella da altoforno, mentre nuovi materiali “autarchici” come l’alluminio e l’eternit registrano una straordinaria fortuna commerciale, con le note conseguenze ambientali e sanitarie. In particolare alla produzione del piombo tetraetile nel mondo e in Italia e al caso poco conosciuto della Società “SLOI” di Trento che ha iniziato a produrre su base industriale a partire dal 1939, si riferisce il contributo di Marino Ruzzenenti: “La storia controversa del piombo tetraetile”. Mentre sulle vicende ambientali e sanitarie indotte da un’industria di alluminio in una valle del Trentino ne dà conto Edgar H. Meyer con: “Industria, ambiente e inquinamento attraverso la lente dei mass media.
– Il Terzo, da metà anni Cinquanta agli anni Settanta, con un impatto potente e pervasivo. E’ sicuramente quello più devastante per l’espansione impetuosa della petrolchimica e dell’uso di fonti energetiche molto inquinanti. L’utilizzo sregolato delle risorse ambientali accompagnano l’industrializzazione intensiva nel “triangolo” del Nord-Ovest, mentre la politica meridionalista dei “poli di sviluppo” produce ferite profonde in aree di grande pregio paesaggistico nel Sud e nelle isole. Il periodo si caratterizza per l’impiego delle materie prime fossili, segnatamente il petrolio. Raffinerie e giganteschi impianti petrolchimici vengono disseminati anche in zone di grande pregio: laguna veneta, Mantova, Ravenna, Ferrara, Rosignano, Brindisi, Manfredonia, Gela, Priolo, Cagliari, Porto Torres. La chimica dell’etilene, con annesse raffinerie, fa la fortuna della Montecatini, poi Montedison, e dell’Enichem, alimentando operazioni spericolate come quella della Sir di Nino Rovelli. Nel contempo si sviluppa a dismisura la lavorazione delle fibre d’amianto e continua la politica espansiva dei poli siderurgici. La fase si chiude con lo shock petrolifero di metà anni settanta, che mette in crisi la filiera petrolchimica e con l’evento di Seveso del 1976, che per la prima volta fa emergere in maniera drammatica presso l’opinione pubblica il rapporto tra industria e ambiente ed evidenzia come l’Italia avesse consegnato il proprio territorio al libero sfruttamento da parte del capitalismo industriale, senza alcuna limitazione o regolamentazione. Sul disastroso incidente di Seveso il libro ospita il saggio di Giorgio Nebbia: “Industria e ambiente: il caso Seveso”.
– Il Quarto e ultimo periodo, dagli anni Ottanta ad oggi, in cui l’impatto appare diffuso, capillare, anche se contrastato e“mitigato” risulta di più complessa interpretazione. Accanto alla crisi irreversibile di alcuni settori dell’industria di base (siderurgia da altoforno e petrolchimica), il rapporto di una industrializzazione diffusa con il territorio è reso più contrastato dall’emergenza della cultura ecologica e da una nuova legislazione di tutele, limiti e controlli che l’integrazione europea obbliga ad adottare. La contestazione ecologica, sull’onda delle reazioni all’incidente di Seveso, si consolida con la nascita agli inizi degli anni Ottanta di Legambiente – la più importante organizzazione ambientalista italiana – nel 1987 con l’ingresso del partito dei Verdi in parlamento, ma, soprattutto, con la vittoria del referendum contro il nucleare, in seguito alla catastrofe di Chernobyl. La transizione che ne è seguita è stata subita non solo dal mondo industriale alle prese con l’incidenza delle nuove regole sui bilanci aziendali, ma dall’intera classe politica, culturalmente impreparata ad affrontare e a prendere atto della centralità della questione ambientale. La mancanza di una visione prospettica, secondo gli autori, si manifesta da un lato con la riproposizione della crescita resa possibile con il rigore economico o, dall’altro, con il rilancio dell’economia grazie ai consumi. L’obiettivo, condiviso da entrambe le posizioni, è di rimettere in moto la stessa macchina, mentre, soprattutto in un Paese fragile come l’Italia, servirebbe una transizione basata su un rapporto non distruttivo con l’ambiente, capace di fornire anche nuove possibilità di ricerca, di innovazione e di lavoro. Assegnando la dovuta priorità alla crisi ecologica quale prodotto storico dell’industrializzazione.
I costi negati all’ambiente e alla salute
L’ipotesi formulata da Poggio e Ruzzenenti sulla specificità del caso italiano in materia ambientale è che a prevalere nelle élite intellettuali, economiche e politiche sia il negazionismo. Quando, al contrario, un po’ in tutto il mondo sviluppato e industrializzato comincia a farsi strada una nuova cultura ecologica. Alcune tappe fondamentali di questo percorso evidenziano sia gli effetti inquinanti di determinate produzioni che i limiti delle risorse naturali disponibili. Il tema della tossicità di alcuni prodotti, in particolare gli insetticidi a base di idrocarburi clorurati, di cui il DDT è il più noto, esplode con straordinaria risonanza presso l’opinione pubblica mondiale, nel 1962, con la pubblicazione negli Stati Uniti di Silent Sprint di Rachel Carson. Questo testo, un classico della letteratura ambientalista, portò alla messa al bando del “miracoloso” DDT che gli americani, durante il secondo conflitto mondiale, usarono in dosi massicce presso le popolazioni italiane per verificarne l’efficacia nella lotta ai parassiti cutanei e all’anofele portatrice della malaria. Ma la ricerca della Carson non si limita alla denuncia dei danni alla salute umana, ma si sofferma sugli effetti del massiccio impiego degli insetticidi sull’ambiente naturale e la salute dell’uomo. E, a tale proposito, appaiono profetiche le pagine dedicata alla lotta biologica contro gli insetti dannosi, anticipatrice di una diversa concezione dell’agricoltura alleata con l’ambiente naturale. Per quanto riguarda le limitate e “finite” disponibilità di risorse naturali, nel 1972, il Club di Roma animato da Aurelio Peccei[10] rende pubblico il rapporto sui limiti dello sviluppo. I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology pongono per la prima volta in maniera chiara e documentata il problema dell’esistenza di limiti alla crescita esponenziale dell’economia mondiale, sia sul versante delle risorse naturali non rinnovabili, sia dell’inquinamento indotto nell’ambiente. Un’analoga riflessione viene sviluppata dal biologo americano Barry Commoner nel suo Il cerchio da chiudere (1971), e il 6 giugno del 1972 si tiene a Stoccolma la Prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, nella quale si invitano i governi di tutte le Nazioni a cercare una nuova politica capace di soddisfare i bisogni umani nel rispetto della natura.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta si può quindi affermare che, almeno sul piano teorico, il tema del rapporto tra sviluppo e ambiente, industria e territorio, tecnica e natura, sia già correttamente impostato. Ma la società e la politica ne prendono atto e come reagiscono? Da un lato attraverso la rimozione e dall’altro rinviando il più possibile l’adozione di norme e regole, annacquandone comunque l’applicazione effettiva. Secondo gli autori la rimozione continuerà anche nei decenni più recenti e la stessa importante iniziativa operaia, che coincide con l’autunno caldo e prosegue negli anni ’70, per il miglioramento degli ambienti di lavoro e per la prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni, rimarrà – salvo poche e lodevoli eccezioni – chiusa all’interno dei confini delle fabbriche. Le pesanti ristrutturazioni produttive e la svolta neoliberista degli anni Ottanta concorrono, infine, a dimensionare il sindacato in un ruolo prevalentemente difensivo. D’altronde uno degli obiettivi espliciti della fase “neoliberista” che negli ultimi decenni è risultata egemone ha riguardato proprio il contrasto alla nuova legislazione ambientale a carico delle imprese. E se l’integrazione europea costringe l’Italia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, ad adottare normative di tutela e controllo più stringenti, l’approvazione delle Direttive dell’Unione Europea all’interno della legislazione nazionale avviene, in media, con un ritardo di cinque anni dalla loro emanazione. Il nostro Paese così colleziona una serie infinita di procedure di infrazione delle normative CEE, con relative condanne dalla Corte di giustizia europea.
Tra “sindrome Nimby” e “premio Pimby”
Il nuovo secolo si apre, in Italia, con il lancio di un manifesto promosso dalla Società italiana di fisica Galileo 2001 – firmato da un gruppo di importanti scienziati[11] – nel quale si sostiene che sviluppo, crescita, modernizzazione, infrastrutture e nucleare siano i cardini su cui costruire il futuro del Paese e si rivendica il valore della scienza come: “fonte primaria delle conoscenze funzionali al progresso civile” e si stigmatizzano le cosiddette “culture oscurantiste”. Responsabili, ad esempio, di ritenere: “il timore di cambiamenti climatici…imputati quasi esclusivamente alle attività antropiche”, di alimentare “il terrorismo sui rischi sanitari dei campi elettromagnetici”, o la “preclusione dogmatica dell’energia nucleare che penalizza il Paese non solo sul piano economico e dello sviluppo, ma anche nel raggiungimento di obiettivi di…compatibilità ambientale nel sistema energetico”. Una posizione opposta a quella del medico e scienziato Giulio Alfredo Maccacaro che, tra gli anni Sessanta e Settanta, occupandosi della statistica applicata alla medicina e alla ricerca delle cause ambientali e lavorative delle malattie, mette in discussione la neutralità della scienza. Maccacaro dà vita nel 1972 all’associazione Medicina Democratica e dirige dal 1974 la rivista scientifica “Sapere”, impegnata a divulgare un approccio critico alla scienza e alla tecnologia con attenzione ai loro possibili effetti indesiderati sull’uomo e sull’ambiente. Ma, con un crescendo negli ultimi anni, anche da noi nasce e si afferma un fenomeno nuovo e sorprendente. Di fronte a nuovi insediamenti energetici, industriali, infrastrutturali, l’opposizione delle popolazioni locali sembra incontenibile. Sono comitati di cittadini, sovente svincolati dai partiti e dalle stesse associazioni ambientaliste istituzionali, trasversali e socialmente compositi che hanno l’ardire di ostacolare le prospettive di un “nuovo” sviluppo del Paese. Un fenomeno che si estende, si ramifica, si ripropone, originale nel suo genere e che per questo preoccupa l’attuale ceto dirigente il quale, pur avendo a disposizione il sistema dei media in prevalenza impegnato a denunciarne l’arretratezza, l’egoismo e il particolarismo, non riesce a venire a capo del problema. Secondo Poggio e Ruzzenenti non ci si sta rendendo conto che quei cittadini, quei molti giovani, con la loro partecipazione cognitiva e le loro proteste: “stanno ponendo alla politica non solo il problema della democrazia, ma del senso della vita, a partire dal nostro abitare nel mondo”.[12] Gli autori quando si sono espressi non conoscevano certo l’esito delle ultime elezioni politiche, ma è indubbio che sui risultati, così come sulla necessità di un cambiamento, che coinvolge sia la politica che le istituzioni, l’influenza dell’insieme di questi movimenti abbia avuto un peso rilevante.
La risposta al fenomeno di larga parte della classe politica, economica e di governo è stata sin qui tradizionale e culturalmente arretrata. Da un lato si condanna la “miopia campanilistica”, si stigmatizza chi, per salvaguardare “egoisticamente” il proprio “cortile”, ostacola gli interessi generali del Paese, la sua modernizzazione, l’aggancio all’Europa, la crescita che porterà benefici a tutti…Dall’altro, in maniera formalmente più dialogante, si insiste sulla necessità che all’ambientalismo del no si contrapponga l’ambientalismo del sì e nel 2004 il Ministro delle Attività produttive, d’intesa con quello all’Ambiente, sponsorizza la promozione di “Nimby Forum”. Un’associazione, un’Agenzia di ricerca che realizza il monitoraggio del fenomeno delle “contestazioni territoriali ambientali” e organizza convegni scientifici per studiare questa nuova, contagiosa, “malattia sociale”, la “sindrome Nimby” dall’inglese “Not In My Back Yard – Non nel mio cortile”. Che si propone di elaborare: “una politica del consenso…che faciliti l’iter burocratico di approvazione degli impianti e ne renda possibile la successiva fase costruttiva”. A questa difficile impresa[13] ha dato direttamente il suo contributo il fior fiore delle aziende energetiche, dei rifiuti e delle infrastrutture del Paese. E a sostegno della lotta contro la “sindrome Nimby” è stato anche inventato il premio “Pimby”[14], acronimo di “Please In My Back Yard – Per favore nel mio cortile”!
Tuttavia – sostengono i due autori – nonostante questa offensiva mediatica, è stato facile per i comitati locali, in un Paese come l’Italia, che già supera il livello di guardia della “saturazione” impiantistica, infrastrutturale e cementizia[15], dimostrare che i cosiddetti “impianti strategici”sono sovente riconducibili ad interessi particolari, talvolta oscuri, e compromettono invece che rassicurare il futuro del Paese. A ciò si aggiunge il fatto che i vari Nimby sempre più spesso non si limitano a dire “no”, ma si dimostrano in grado di elaborare alternative ragionevoli e praticabili. Alternative meno costose, anche in termini economici, che proprio per questo non soddisfano i fautori dell’ambientalismo del si e di Pimby, perché non comportano il “si” che davvero conta: quello alla crescita illimitata e al business facile secondo il modello dominante. Ma la difesa ad oltranza di questo modello finisce per allargare il distacco tra le popolazioni e i “decisori politici”. Esemplare, in tal senso, la vicenda dell’opposizione della Val Susa alla linea Torino-Lione. Nell’orizzonte della crisi ecologica che definisce la nostra epoca, la “sindrome Nimby”, dunque, concludono Poggio e Ruzzenenti, non è una malattia, bensì una estrema reazione difensiva della società e dell’ambiente. E paradossalmente sono proprio i criticati protagonisti delle lotte “Nimby” a ricordarci la qualità della vita come meta ragionevole di un progresso possibile che sa tutelare i beni comuni ed è rispettoso delle future generazioni. Il ruolo dell’insieme di questi comitati è stato, poi, sicuramente determinante nella raccolta delle firme e nel risultato dei referendum del 12 e 13 giugno 2011 sull’acqua pubblica e contro il ritorno al nucleare. Su quest’ultimo aspetto ha certamente influito il gravissimo incidente di Fukushima del marzo 2011 e, questa volta, a differenza di 25 anni fa, il risultato del referendum ha sancito una maggioranza assoluta di elettori contrari al ritorno del nucleare.
Sovente lungo le molte e intense pagine de “Il caso Italiano – Industria, Chimica e Ambiente” si fa riferimento all’imponente produzione e diffusione dell’amianto, ma tra le storie e i casi analizzati il medesimo non figura. Per questo, a conclusione del lavoro, racconto sinteticamente la vicenda tragica dello Stabilimento “Eternit” di Casale Monferrato e la sua attuale drammatica attualità.
ETERNIT[16]
Giovedì 10 dicembre 2009 è iniziato al Tribunale di Torino il “Processo Eternit”. Un processo storico, atteso da oltre due decenni e fortemente voluto dai lavoratori, dalle loro famiglie e dal sindacato. L’accusa, nei confronti dei responsabili della multinazionale, il miliardario svizzero Stephan Schmidheny e il barone belga Louis De Cartier De Marchienne, è di aver causato la morte di migliaia di persone per la lavorazione dell’amianto nelle quattro sedi italiane. Sono, oltre a Casale Monferrato (Alessandria), quelle di Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli).[17] Le vittime accertate sono quasi 3 mila e 5 miliardi la richiesta del risarcimento.
Da Casale – alle sette del mattino da piazza Castello – partono dieci pullman. Più di 500 casalesi, nella maggior parte famigliari di persone decedute, per costituirsi parte civile. Queste, in totale, supereranno le 5 mila e a rappresentarle ci sarà un collegio legale internazionale. È la prima volta che accade in Europa in una causa per danni ambientali. L’indagine, iniziata nel 2004, sotto l’impulso del Procuratore Raffaele Guariniello che, coadiuvato da altri due Pm, ha condotto l’istruttoria, si è conclusa nell’estate del 2009 con il rinvio a giudizio dei due responsabili. L’accusa è di disastro ambientale e inosservanza delle norme sulla sicurezza. La sentenza è attesa, si spera, entro il 2011. E, intanto, per mesotelioma pleurico ci si continua ad ammalare e a morire, non solo a Casale. I casi accertati dopo il febbraio 2008, che costituiranno il secondo processo Eternit, sono, a fine 2010, già 427. Di cui 257 i morti e 170 i malati. In qualità di assessore provinciale all’Ambiente ho seguito e partecipato alle principali fasi che hanno accompagnato l’indagine. Le riunioni in Comune, con i rappresentanti della Regione, di Arpa e Asl e delle Associazioni dei Famigliari delle vittime. Le affollate assemblee dei famigliari nel salone Tartara del Castello, promosse dal Comitato per la Vertenza amianto, con i sindacati, i patronati, il collegio dei legali e le autorità. Le visite, indossando tuta bianca e mascherina, all’interno dello stabilimento per seguirne la travagliata bonifica e, come Provincia, certificarne l’esito prima della sua demolizione.
Ma al processo si arriva solo dopo una lunga e, per diversi aspetti, straordinaria lotta sindacale e legale che ho conosciuto e potuto seguire direttamente. Con uno dei principali protagonisti, Bruno Pesce, ho iniziato, nei primi anni ’70, tra gli argentieri della società “Ricci”, l’impegno nel sindacato.
Da principio come delegato nel Consiglio di fabbrica e poi, con i metalmeccanici, responsabile della Lega FLM della zona di Alessandria. Pesce a Valenza era, per la Camera del Lavoro, il coordinatore degli orafi, ma seguiva anche le fabbriche di argenteria. Un settore che in quel periodo occupava in Alessandria alcune centinaia di addetti e aveva nella Ricci e nella “Cesa” le due realtà più importanti. Un impegno sindacale difficile e di rari pubblici riconoscimenti quello di responsabile degli orafi. Una realtà fatta da tanti piccoli laboratori, con molti casi individuali da seguire e singole vertenze da istruire con certosina pazienza. Una realtà che Pesce conosceva molto bene per averci lavorato e la cui esperienza gli tornerà utile nella vicenda Eternit. Quando, verso la fine degli anni ’70, fu indicato per dirigere la Camera del Lavoro di Casale Monferrato. Oggi, dopo gli sviluppi della vertenza Eternit, possiamo ritenere che quella sia stata una scelta felice. Si realizzò in questo modo con Nicola Pondrano, giovane delegato aziendale della fabbrica e, dal ’79, direttore del patronato Inca-Cgil della zona, una affiatata collaborazione. Che in pochi anni riuscì a presentare oltre ottocento denunce per malattia professionale da parte di ex lavoratori Eternit. Un impegno che per le competenze sanitarie, dal 1978, si è potuto avvalere della consulenza di una giovane laureata in medicina, Daniela Degiovanni, la quale, come medico del patronato e oncologa dell’ospedale, ha conosciuto e seguito le drammatiche vicende personali della maggioranza degli operai della fabbrica. Si è così realizzato il più grande contenzioso medico-legale e giudiziario mai affrontato dall’Inail del Piemonte, con risultati positivi nei due terzi dei casi. L’intera storia della strage causata dalla fabbrica dell’amianto che si installò a Casale nel 1906, delle prime lotte per migliorare l’ambiente di lavoro e della vertenza che ha portato al processo, si può leggere in una agile e documentata pubblicazione, edita dall’Ediesse, a cura del giornalista Giampiero Rossi che ha come titolo “La lana della salamandra”. Ne ricordo le tappe più recenti.
Nel giugno del 1986 il tribunale di Genova dichiara il fallimento della parte italiana del gruppo. I dipendenti negli anni si sono di molto ridotti, ma in 350 si ritrovano senza lavoro e la “Safe”, la holding francese della Eternit si candida per riavviare la fabbrica e riprendere la produzione di lastre di fibro-cemento. Ma sulle conseguenze mortali della polvere bianca che infestava la città si parlava ormai diffusamente. Tre anni prima al tribunale di Casale c’era stata la testimonianza di Giovanni Demicheli, l’operaio che già molto malato aveva comunque voluto partecipare al primo processo contro l’azienda. L’ingresso in barella nell’aula giudiziaria, l’ascolto della sua voce sofferente e la sua scomparsa, avvenuta solo cinque giorni dopo, suscitarono una profonda emozione nell’opinione pubblica. In quel contesto in presenza di una divaricazione, che tante volte si è presentata al sindacato e ai lavoratori, tra il bisogno del lavoro e del salario e la difesa della salute, la Camera del Lavoro, nonostante la contrarietà degli altri sindacati e della stessa categoria degli edili della Cgil, decise di tenere ferma la sua opposizione alla ripresa della produzione dell’amianto. Nel ricordare le difficoltà di quella che si rivelò una decisione lungimirante, Bruno Pesce ha più volte raccontato come la Safe, pur di riprendere la lavorazione dei manufatti di amianto, fosse disponibile a contrattare qualsiasi condizione con il sindacato. “Potevamo chiedere – dice Pesce a mò di paradosso – di avere a disposizione dei lavoratori anche del latte di gallina, certi che lo avrebbero concesso”. A chiudere definitivamente la partita, qualche mese più tardi, il 2 dicembre ’87, l’ordinanza del sindaco, Riccardo Coppo, che, per la prima volta in Europa, sanciva il divieto all’impiego e all’utilizzo di lastre di cemento-amianto sul territorio del comune. Rappresentando con un atto di coraggio la sensibilità ormai presente a Casale Monferrato sui temi dell’inquinamento e dei rischi alla salute, la domanda di sicurezza e il bisogno di verità dei suoi cittadini. Quel divieto nel marzo 1992, con l’approvazione della legge 257, viene esteso a tutto il Paese con una dotazione legislativa avanzata che sancisce il riconoscimento nazionale delle ragioni di una lotta a tutela della salute e l’impegno unitario del sindacato Confederale che, sulla spinta della mobilitazione della Eternit di Casale, ad essa ha tenacemente creduto. Nel ruolo di vice presidente del Senato, risultò, nell’occasione, importante il sostegno di Luciano Lama. Con la messa al bando dell’amianto l’Inps deve ora accogliere le domande di pensionamento dei lavoratori ex Eternit riconoscendo loro il 50 per cento in più di contributi previdenziali per i periodi nei quali hanno lavorato e sono stati esposti al rischio amianto.
Il valore generale di una lotta
Ma è il 16 febbraio 1989 quando, in un affollato convegno organizzato da Cgil e Inca che si tiene nella penombra del cinema Politeama di Casale, la vertenza Eternit assume un valore generale e la questione dell’amianto viene riconosciuta come nazionale dal Sindacato. “No all’amianto” il titolo semplice e diretto dell’incontro pubblico al quale intervengono dirigenti sindacali locali, regionali e nazionali, esperti scientifici, medici, giuristi, legali e amministratori della Regione.
Con il congresso dell’86 avevo lasciato la Camera del Lavoro di Alessandria per la segreteria regionale della Cgil, dove mi occupavo anche del rapporto, spesso conflittuale, tra ambiente e lavoro. Di quell’incontro ricordo la grande partecipazione, la tensione che traspariva dalla relazione e dagli interventi in un clima di costante attenzione. Ho presente, fra i molti, quello di Bianca Guidetti Serra, avvocato torinese tra i primi ad occuparsi, con Sergio Bonetto e Oberdan Forlenza, del sostegno legale alla vertenza. Ma sono le conclusioni, convinte e impegnative, di Fausto Vigevani, Segretario Confederale della Cgil, che, nell’assumere e mettere in valore i contenuti della lotta sindacale: “di questa piccola Camera del Lavoro”, li fa diventare piattaforma nazionale del sindacato. Questa contiene la messa al bando dell’amianto in tutto il Paese e la conquista di nuove tutele per i lavoratori esposti. Nell’agosto dell’89 Vigevani mantiene l’impegno e le Segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil presentano le richieste al governo. La riaffermazione del diritto alla salute, del suo valore non mediabile che rappresenta, insieme, le ragioni del lavoratore e del cittadino, sono stati i passaggi più importanti dell’intervento di Vigevani. E l’assumere come generale e nazionale la lotta sindacale della Eternit, la decisione più impegnativa. Presa da uno dei migliori dirigenti sindacali della Cgil, dotato di una particolare sensibilità ai temi delle condizioni di lavoro e alla tutela della salute dentro e fuori la fabbrica. Che gli ha permesso di cogliere, prima di altri, il valore generale di quel conflitto in atto a Casale.
Tutte le volte che in questi anni mi sono recato a Casale per partecipare a riunioni, incontri, convegni e iniziative legate alla vicenda Eternit ho avvertito incombente la presenza della tragedia. Che si percepisce nel quotidiano, immersa in una diffusa e preoccupata attesa del futuro. È una sensazione carica di incertezza che si prova solo qui. La positività della lotta e della denuncia, la rivendicazione del risarcimento e la richiesta di giustizia, portata avanti nei confronti dei responsabili della multinazionale dell’amianto, ha presto finito di essere solo una vertenza sindacale per trasformarsi in una battaglia nella quale si è riconosciuta l’intera città. Una comunità che in assenza di questo comune obiettivo, sotto l’incombenza e il peso dei tanti, troppi lutti, poteva rischiare di chiudersi, avvitarsi nelle singole depressioni e vivere una difficile condizione fatta di costante incertezza. E ha trovato invece il coraggio di reagire. Così non è raro che in assemblea qualche nuovo ammalato prenda la parola e comunichi pubblicamente la sua amara scoperta, trovando nella comprensione degli altri la voglia di continuare a lottare. Anche a Romana Blasotti Pavesi, la presidente dell’Associazione dei famigliari vittime dell’amianto, è toccato leggere, in una assemblea colpita e commossa, la lettera della figlia Maria Rosa che denunciava con semplicità e indignazione la sua malattia. Una famiglia quella della Presidente ripetutamente colpita negli affetti e che ha fatto di questa signora minuta e tenace, il simbolo della lotta che da anni si porta avanti a Casale. Da qui il valore generale della vertenza prima e del processo e della sentenza oggi.
Colpito anche chi all’Eternit non è mai entrato
Con il passare degli anni il mesotelioma colpisce sempre di più persone che all’Eternit non hanno mai lavorato e che sono state esposte all’amianto anche molto tempo prima. Sul finire degli anni novanta, quando i nuovi casi nei dodici mesi raggiungono le 40-45 diagnosi, almeno tre quarti di queste riguardano cittadini che nella fabbrica non hanno mai messo piede. Si tratta di persone che hanno operato nei negozi accanto alla fabbrica, come la panettiera Maria Pastorino, o di mogli e parenti di operai che hanno portato a casa, insieme alla tuta da lavare, la micidiale polvere. Si scopre che sono più esposti al male i cittadini che abitano a ridosso delle strade utilizzate per il trasporto dei manufatti d’amianto. Che avviene su mezzi sprovvisti di protezione. Ma capita anche al barista di piazza Castello, all’impiegato di banca, al vigile urbano, all’agente di assicurazione e a molti altri casi, più o meno noti. E non risparmia chi si batte e lotta contro il male. Muoiono così l’assessore comunale all’ambiente Luisa Minazzi, responsabile di Legambiente e quello regionale Paolo Ferraris, mentre è impegnato ad assicurare i primi finanziamenti pubblici per la bonifica. Uno stillicidio drammatico, una tara che accompagna e non risparmia anche chi si è trasferito altrove.
È il caso di Guglielmo Cavalli, un caro amico. Ho conosciuto Guglielmo a metà degli anni settanta. Era arrivato ad Alessandria da Casale, dove era nato, per assumere la responsabilità, nella Segreteria provinciale della Cgil, della zona del capoluogo. Impiegato in una azienda casalese del freddo, la “Franger Frigor”, in politica socialista “lombardiano”, si era distinto nella sua città nelle lotte sindacali della fine degli anni sessanta, nel mitico “autunno caldo” della riscossa e del protagonismo di operai e studenti, ed era diventato segretario della locale Camera del Lavoro. Ad Alessandria trovò inizialmente casa di fronte alla “Borsalino” e dalle finestre del suo alloggio, raccontava, si vedevano gli spogliatoi degli operai dello storico cappellificio. Dove oggi ha sede l’Università del Piemonte Orientale. Cavalli ha convinto e guidato molti giovani all’impegno diretto nel sindacato e con lui, nella seconda metà degli anni settanta, è nata la corrente socialista della Cgil più forte e riconosciuta del Piemonte. Pieno di risorse, di nuove idee con un carattere estroverso e una dedizione totale alla causa comune ha saputo, in poco tempo, costruire e rilanciare la zona sindacale di Alessandria. Sul finire degli anni settanta Cavalli fu eletto Segretario Generale della Camera del Lavoro di Alessandria e nell’83 venne chiamato a Torino ad affiancare Cesare Damiano nella direzione regionale della Fiom-Cgil. La categoria di punta del sindacato, quella degli operai di Mirafiori e della Fiat. In seguito divenne il Segretario Generale aggiunto della Camera del Lavoro di Torino e nel ’90 decise di tornare in Alessandria. Quando, sul finire del ’92, Cavalli avvertì le prime fitte non ebbe molti dubbi. Riconosceva in quel tipo di dolore quello che aveva già colpito la madre, operaia all’Eternit, e riviveva la sua lunga sofferenza prima della fine. Ricordo la commozione, che gli impedì di concludere il suo intervento, in una riunione a Casale dove i famigliari delle vittime dovevano decidere se accettare o meno il risarcimento economico offerto dall’Eternit, che aveva posto come condizione la rinuncia a costituirsi nel processo. Guglielmo quel giorno rappresentava sua madre e, con alcuni altri, rifiutò la somma decidendo di continuare a sostenere il diritto alla verità e alla giustizia nel primo processo contro i dirigenti dello stabilimento. Era nato e cresciuto al “Ronzone”, il quartiere dell’Eternit, dove gli scarti delle lavorazioni di amianto si trovavano ovunque, ma parlava poco di quel periodo, quasi ne temesse il rischio. Una volta però ci raccontò di come da ragazzo fosse normale giocare con gli amici usando le lastre di amianto per costruire capanne e progettare difese nelle innocenti e ripetute guerre tra indiani e cowboy. Il suo carattere irrequieto, il ricordo della madre e il dolore che non gli concedeva tregua, proprio a lui che non aveva mai sofferto di alcun malanno, lo convinsero a tentare un difficile intervento. Nella primavera sino all’ultimo aveva cercato di mantenere gli impegni al sindacato, rientrando sempre in ufficio dopo ogni ricovero al vecchio ospedale Borsalino progettato dall’architetto Gardella. Ci salutammo a casa sua alla vigilia della partenza dopo aver programmato, in funzione dei tempi del suo ricovero, una iniziativa pubblica sulle perenni prospettive della sinistra. Cavalli non superò l’operazione e terminò la sua esistenza il 21 maggio 2003. Nel nome di Cavalli – promosso dalla Camera del Lavoro e dall’Associazione dei famigliari delle vittime dell’amianto, patrocinato da Provincia e dal Comune di Casale Monferrato – ogni anno si svolge il Concorso “La salute e l’ambiente”. Dedicato ai ragazzi delle scuole sul complesso e delicato tema della difesa e della tutela, insieme, di ambiente, salute e territorio. L’iniziativa coinvolge i ragazzi sia delle scuole materne ed elementari che delle medie fino alle superiori.
La demolizione della fabbrica e i rischi dell’indulto
Il mese di marzo 2006 è ricco di appuntamenti, anche simbolici, per il riscatto democratico di una città che da tempo combatte le terribili conseguenze dell’attività di una fabbrica che lì ha operato per ottanta anni e prima ha significato lavoro e sicurezza, per poi seminare dolore e lutti. E’ una comunità impegnata nel presente a riparare i guasti del passato, per ridurre nella normalità i rischi di contagio delle nuove generazioni e costruire un diverso futuro. Il 22, in occasione della Giornata mondiale dell’acqua, è in programma a Casale, nel salone Tartara, l’assemblea dell’Associazione di cui è presidente la signora Romana Blusotti Pavesi, con le organizzazioni sindacali, per fare il punto sulla vertenza Eternit. Vi partecipo e annuncio la costituzione della Provincia come parte civile nel processo. Il 30 marzo è un giovedì e di mattina inizia la demolizione dello stabilimento che è stata resa finalmente possibile dalla avvenuta e accertata bonifica di tutta l’area interessata. In quella operazione, delicata e rischiosa, l’azienda che si è aggiudicata i lavori ha impiegato personale esclusivamente immigrato. In un’altra e più recente occasione, l’eliminazione delle coperture in amianto della argenteria Ricci al quartiere Cristo di Alessandria, non molto distante dalla mia abitazione, ho rivisto all’opera altri stranieri, altri ragazzi di colore. Sono i famosi lavori che ormai gli autoctoni si rifiutano di fare, ma dei quali, troppo spesso, ci si dimentica. Le ruspe, riprese dalle telecamere di Rai3 Piemonte e di televisioni locali, iniziano ad abbattere i muri dalla parte del capannone che porta sulla fiancata la grande scritta “Eternit”. Come per cancellarne subito la presenza. Insieme al gruppo delle autorità e dei numerosi giornalisti sono presenti alcuni ex dipendenti della fabbrica e la loro è la commozione più profonda. L’atto racchiude un forte significato simbolico per la città tutta e per coloro che: Amministratori, Associazioni, Organizzazioni sindacali, da anni, prima in pochi, adesso molti di più, portano avanti la lotta per la completa bonifica. D’altronde la vera strage civile procurata dall’Eternit rappresenta una delle vicende industriali del ‘900 nelle quali massima è stata l’inconciliabilità tra lavoro, salute e ambiente. L’abbattimento chiude simbolicamente una fase importante di questa lotta e sancisce l’urgenza di estendere la bonifica a tutta la città. Sia per le strutture pubbliche che per le abitazioni e le aree private dove esiste amianto da smantellare e il famigerato polverino da eliminare. Un compito nel quale alle strutture pubbliche di Comune, Asl e Arpa è richiesto il massimo delle capacità organizzative e di coordinamento, alla Provincia e alla Regione di garantire il necessario sostegno e al Governo nazionale le indispensabili risorse economiche. Una risposta incoraggiante arriva qualche settimana dopo: il 28 aprile, in occasione della giornata mondiale della lotta all’amianto, viene siglato a Roma un accordo tra Ministero dell’Ambiente, Regione, Provincia e Comune di Casale Monferrato che in totale stanzia per la bonifica due milioni e mezzo di euro. A disposizione, da subito, un milione e 800 mila e, nel giro di pochi mesi, altri 700 mila. Il nuovo esecutivo di Romano Prodi assegna, ed è un bene, una priorità al tema della lotta all’amianto che sino ad allora era stata insufficiente.
Ma dalle iniziative legislative del nuovo Parlamento giungono anche delle preoccupazioni. Nel testo di legge in discussione a luglio sull’indulto sembrano compresi anche i reati in materia di sicurezza del lavoro e rischiano di subirne le conseguenze, tra gli altri, le vittime dell’amianto e i malati della ex Eternit. Il Comitato Vertenza amianto scrive al Presidente della Repubblica, a quelli di Camera e Senato e al capo del governo, ricordando che i casi di mesotelioma sono circa mille l’anno e ad essi vanno aggiunti i decessi causati da asbestosi e cancro al polmone. Non è certo il caso di fare sconti e offrire impunità in un caso così grave per la salute e la sicurezza dei lavoratori e di un’intera città. Una vicenda analoga si ripeterà, due anni dopo, in occasione della discussione parlamentare sul cosiddetto “processo breve”. A rischiare, questa volta, saranno le migliaia di cittadini truffati dagli scandali finanziari, in primis quello della “Parmalat”, mentre per le responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro, alle morti per amianto si affiancano, tra i casi più eclatanti e gravi, le vittime dell’incendio del 6 dicembre 2007 alla “Thyssen Krupp” di Torino.
In questo contesto la lotta contro l’amianto consegue un importantissimo successo con l’approvazione, il 4 giugno 2006 a Ginevra, di una risoluzione per la messa al bando dell’amianto a livello mondiale adottata dalla 95° Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil). Fondamentale per questa storica risoluzione è stato il sostegno unanime di tutte le Nazioni dell’Unione europea che, con l’appoggio dei paesi africani hanno sconfitto le resistenze opposte dal Canada – l’attuale maggiore produttore ed esportatore di amianto – e dagli USA. Infatti, mentre nel nostro paese la produzione e la commercializzazione di amianto è vietata dal marzo 1993 nel mondo si producono tuttora ogni anno due milioni di tonnellate di amianto. Questa situazione sta provocando un allargamento del “contagio” dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo e, ogni anno, si stima siano almeno 100.000 i lavoratori che muoiono per le malattie indotte dall’esposizione all’amianto. Secondo Jukka Takala, direttore del programma dell’Oil “Safe Work” (Lavoro Sicuro), le morti da amianto proseguiranno fino alla fine del secolo, mentre l’attuazione della risoluzione potrà portare, nei prossimi dieci anni, il numero dei paesi che hanno bandito l’asbesto, dagli attuali 40 a 100, riducendo radicalmente l’impiego dell’amianto. Questa risoluzione giunge opportuna e può rappresentare un buon viatico, sia per l’andamento dell’inchiesta contro l’Eternit, sia per consentire di superare nel nostro paese i ritardi dei programmi per il censimento, il controllo e la bonifica dei componenti di amianto esistenti e la tutela dei lavoratori ex esposti.
I milioni di Thomas Schmidheiny
A Casale intanto si comincia a discutere su come sarà sistemato lo spazio dove sorgeva la fabbrica, abbattuta e sepolta sotto uno strato di cemento armato. Il progetto del Comune prevede una riqualificazione complessiva del quartiere Ronzone del costo di sei milioni di euro. Secondo il sindaco Paolo Mascarino l’area, un tempo occupata dallo stabilimento, si trasformerà in un parco verde di oltre 36 mila metri quadri, compreso tra la città e il Po.
Nella seconda parte del 2007 sono numerose le riunioni che si tengono a Casale, in Comune o, per le assemblee, nel Salone Tartara di piazza Castello. Si tratta di discutere e informare sulle novità che arrivano dal Palazzo di giustizia di Torino dove il procuratore Guariniello ha completato la sua indagine. Diventano così note le accuse avanzate nei confronti dei responsabili e si delineano le basi dell’impianto probatorio a carico di Stephan Schmidheiny e il barone belga De Cartier. La speranza di giungere finalmente al processo in questo modo si rafforza. Mercoledì 14 novembre 2007 è convocata una assemblea generale che è chiamata anche a decidere su un aspetto nuovo, giunto un po’ inaspettato, e che crea qualche imbarazzo. Il salone è, come al solito gremito, e sotto la presidenza campeggia lo striscione rosso dell’Associazione famigliari vittime amianto. Prende tra i primi la parola l’avvocato Sergio Bonetto che ha sin dall’inizio seguito la vertenza e fa il punto sulla complessa vicenda giudiziaria. Rivolto ai presenti in sala lancia infine un appello: “Voi siete i mattoni di quel muro che noi da anni cerchiamo di erigere contro i responsabili di questa strage. Per questo – continua – dovrete essere presenti fisicamente a Torino quando saranno chiamati sul banco degli imputati i responsabili dell’Eternit. Pian piano stiamo intravedendo la fine di questo tunnel”. Ma tocca a Bruno Pesce comunicare la notizia clamorosa. Thomas Schmidheiny, il maggiore dei due fratelli della famiglia svizzera proprietaria del gruppo, la cui posizione è stata stralciata e non è più indagato nel processo, ha deciso di donare tre milioni di euro all’Associazione dei famigliari. A dire il vero, dagli avvocati della controparte elvetica, già in passato erano arrivate proposte di risarcimento, poi sempre smentite e, comunque, tese a far recedere i cittadini a proseguire nel contenzioso. Ma questa volta la situazione è differente e i portavoce di Thomas tengono a sottolineare che si tratta di un gesto esclusivamente umanitario di una persona che conosce bene la situazione di Casale e intende sdebitarsi in questa maniera. Certo è che questa decisione ammette, anche se in maniera implicita, una responsabilità e sembra danneggiare la posizione processuale dell’altro fratello indagato. Forse, ipotizza qualcuno, è in corso uno scontro in famiglia tra i due miliardari svizzeri? I collaboratori di Thomas smentiscono le voci e sostengono che Stephan è informato su tutto e condivide la scelta del fratello. Non c’è alcuna guerra fratricida in corso. Meglio così. La cifra è certamente ingente, ma alla portata di uno che le riviste specializzate collocano al 146° posto fra gli uomini più ricchi del mondo. La proposta suscita nell’assemblea qualche apprensione e qualcuno solleva la preoccupazione che sia stata fatta per ammorbidire la vertenza. Pesce, Pondrano, Romana Blusotti non hanno però alcun dubbio e sostengono che nulla cambierà nella strategia del comitato. Anzi quei soldi serviranno per coprire le pesanti spese legali in vista del processo e si trasformeranno in un aiuto. “Quei soldi devono essere investiti per fare giustizia e noi possiamo tirare avanti con la pensione”, sostiene Anna Maria Scaiola, che all’Eternit ha lavorato e nell’intervallo del pranzo correva a casa con il camice impregnato d’amianto ad allattare la figlia. E oggi trema pensando alle possibili conseguenze. Intervengono anche Piero Ferraris, entrato all’Eternit nel ’49 e poi trasferito in Svizzera ad insegnare ad altri il lavoro, e Francesco Lanziani, sindacalista e consigliere comunale che ha lavorato nello stabilimento per trenta anni, ed entrambi, oggi con una buona dose di asbestosi, si dichiarano d’accordo nell’accettare la somma e: “proseguire nella richiesta di giustizia per le migliaia di vittime che l’amianto ha causato”. Al termine l’assemblea vota con una unanime alzata di mano e approva la proposta di come utilizzare i tre milioni, decidendo altresì di comunicare al donatore il dettaglio di come sarà ripartito e a cosa servirà il suo denaro.
Un processo e una sentenza storica
Come ha dichiarato a caldo il procuratore di Torino Raffaele Guariniello il 13 febbraio 2012, dopo la lettura della sentenza del Tribunale di Torino che riconosce la responsabilità di disastro doloso permanente e omissione dolosa delle tutele infortunistiche dei due massimi vertici della Eternit e li condanna a sedici anni di carcere, si tratta, per la sicurezza e la tutela della salute dei lavoratori, di una sentenza e di un processo storico. La tragica e, per tante singole vicende, dolorosa storia dell’Eternit di Casale Monferrato si è, infatti, negli anni trasformata in un emblematico punto di riferimento, sia a livello nazionale che internazionale, per tutte quelle lotte che vogliono affermare il diritto alla salute nei luoghi di lavoro e pretendono giustizia nei confronti dei responsabili dei tanti, troppi, disastri ambientali. La sentenza rappresenta il punto di arrivo atteso di una lunga e insieme straordinaria iniziativa sindacale e legale: il miliardario svizzero Stephan Schmidhaeny e il barone belga Louis De Cartier De Marchienne sono stati riconosciuti colpevoli di aver causato la morte di migliaia di persone per la lavorazione dell’amianto nelle quattro sedi italiane.
Nei mesi che hanno preceduto la sentenza, la lotta democratica dell’Associazione, dei sindacati e dei cittadini di Casale Monferrato si è dovuta anche confrontare con lo sconcertante voto della nuova Amministrazione Comunale della città che, in un primo momento, ha accettato il “patto col diavolo” e per 18,3 milioni di euro si stava piegando alla richiesta di ritirare la Costituzione di parte civile del Comune nel processo, diventando complice di Schmidheiny. La mobilitazione popolare e una indignazione che ha valicato i confini del Monferrato ha costretto però il sindaco e i Consiglio comunale a mettere in discussione quel voto. E lo stesso risarcimento economico previsto dalla sentenza in favore del Comune è risultato superiore di quasi cinque milioni a quello offerto da uno degli imputati della multinazionale. E’ giusto infine sottolineare come la lotta per avere giustizia dalla Eternit sia stata segnata, nel corso di oltre trent’anni, da coraggiose decisioni prese e dall’impegno determinato di molte e diverse persone: lavoratori colpiti dalla malattia, sindacalisti, medici, sindaci, avvocati, parenti delle vittime e da un Procuratore della Repubblica che ha saputo dare impulso alle indagini e ha condotto con competenza e tenacia una lunga istruttoria. A tutti loro si deve se oggi ai lavoratori dell’Eternit, alle loro famiglie e ai cittadini di Casale è stata riconosciuta piena giustizia. Una giustizia che il processo d’appello, attualmente in corso a Torino, è chiamato a confermare.
Alessandria 15 Aprile 2013
[1] Riccardo Iacona: “Brescia, dove ai bambini è vietato giocare sull’erba” – Il Fatto Quotidiano del 31/03/2013.
[2] Vedi nota 1
[3] Marino Ruzzenenti: “Lettera aperta ai signori sindaco della città di Brescia” del 4/04/2013. Home Page – Presadiretta.
[4] www.fondazionemicheletti.eu
[5] Editoriale Jaca Book Spa, Milano e Fondazione Luigi Micheletti, novembre 2012.
[6] www.lanuovaecologia.it – Scienziata, scrittrice, giovane partigiana. Consigliere provinciale e regionale, studiosa di problemi ambientali e deputato, Laura Conti intreccia nella sua vita una molteplicità di impegni e interessi: dal campo scientifico a quello pedagogico, a quello ambientalista, e diventa presenza e voce autorevole nelle battaglie civili e culturali degli ultimi quarant’anni. Nata a Udine nel 1921, è scomparsa a Milano nel maggio 1993.
[7] www.educazionesostenibile.it – Giorgio Nebbia è nato a Bologna nel 1926. Si è laureato in Chimica nel 1949; professore ordinario di Merceologia nella Facoltà di Economia dell’Università di Bari dal 1959 al 1995; ora professore emerito; dottore honoris causa in Scienze economiche e sociali (Università del Molise) e in Economia e Commercio (Università di Bari; Università di Foggia). È stato parlamentare della Sinistra indipendente alla Camera (1983-1987) e al Senato (1987-1992). Giorgio Nebbia ha orientato i suoi studi nel campo della Merceologia verso l’analisi del ciclo delle merci. Nel campo dell’utilizzazione delle risorse naturali si è dedicato a ricerche sull’energia solare, sulla dissalazione delle acque e sul problema dell’acqua.
[8] Per la definizione di impatto ambientale vedi Art.3 direttiva n. 85/337/CEE.
[9] Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti – Introduzione di: “Il caso italiano Industria Chimica e Ambiente”.
[10] It.wikipedia.org: Aurelio Peccei – Torino 4/07/1908, 13/03/1984 – è stato un imprenditore, manager alla Fiat, partecipò alla Resistenza e fece parte di “Giustizia e Libertà”. Nel 1964 amministratore delegato della Olivetti, nel 1968 riunì a Roma alcuni studiosi e insieme costituirono il Club di Roma.
[11] Il manifesto “Galileo 2001 per la libertà e dignità della Scienza” è firmato, tra gli altri, da Carlo Bernardini, Edoardo Boncinelli, Silvio Garattini, Tullio Regge.
[12] P.P. Poggio e M. Ruzzenenti, Introduzione pag.27 da: “Il caso Italiano Industria, Chimica e Ambiente”.
[13] Secondo il Nimby Forum sarebbero almeno 140 gli impianti contestati nel nostro Paese, di cui il 62% legati al ciclo dei rifiuti, il 24% alla generazione di energia, il 9% alle grandi infrastrutture e il 5% ad altre tipologie. I progetti contestati diventano 171 nel 2006 e 283 nel 2009.
[14] Presidente del Comitato scientifico di Pimby è Chicco Testa.
[15] Il suolo agricolo e forestale disponibile si è ridotto dai 673 ettari ogni mille abitanti del 1936 ai soli 278 ettari di oggi, cioè di quasi due terzi in settant’anni.
[16] Una trattazione più ampia del caso Eternit si trova in “Ambiente da Limite A Valore” di Renzo Penna – Editori Riuniti università press 2011.
[17] Sono 2.969 le vittime accertate dalla Procura di Torino: 142 a Cavagnolo, 2.272 a Casale Monferrato, 55 a Rubiera e 500 a Bagnoli. A queste si aggiungono altri 11 casi che riguardano lavoratori degli stabilimenti Eternit in Svizzera.