Geografia fisica tra armonia e devastazione: “Il Bel Paese” di Stoppani, “Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia” di Stella e Rizzo e “Paesaggio, Costituzione, Cemento” di Settis – da “Anima e Terra” Ottobre 2012

abate stoppani

di Renzo Penna

Che l’Italia sia – o, come sarebbe meglio dire, fosse – un “Bel Paese” lo sostenevano senza avere dubbi i nostri grandi antenati: Dante, nel canto di Ugolino, parla del “bel paese dove il sì suona”, Petrarca, nel rivolgere le sue lodi a Laura, si compiace che le sentano nel “bel Paese  Che Appennin parte e’l mar circonda e l’Alpe”.  E de “Il Bel Paese”, sottotitolato “Conversazioni sulle bellezze naturali. La Geologia e la Geografia fisica d’Italia”, scrive e nel 1876 pubblica l’abate Antonio Stoppani[1] con uno notevole successo editoriale che ne ha fatto “il terzo libro per numero di edizioni, del secolo XIX, dopo I Promessi Sposi ed il Cuore di De Amicis”.[2]

 

La dimostrazione di quanto a fine Ottocento il libro fosse popolare è testimoniato dalle innumerevoli edizioni e dal suo ingresso nel circuito scolastico. Nel panorama italiano di quegli anni in cui la cultura scientifica risultava decisamente limitata, Stoppani scrive uno dei pochi libri divulgativi che abbiano per oggetto “la cognizione fisica del nostro Paese“. È dalla natura, nella varietà e nella bellezza delle sue forme, che Stoppani attinge ispirazione per la scrittura. Come lui stesso spiega ai lettori – e tra di essi gli uditori privilegiati sono i maestri e le maestre dell’Italia unita – il piano del lavoro è semplice. Senza obbligarsi ad un traccia prestabilita l’autore si cala nelle vesti di uno zio naturalista che racconta ai nipoti le sue escursioni ed i suoi viaggi da un capo all’altro del “Bel Paese” descrivendo le bellezze naturali dei paesaggi italiani insieme alle loro peculiarità. Ogni giovedì sera – per XXIX Serate – i bambini ascoltano con i genitori radunati attorno al camino i racconti che affrontano in modo semplice, ma rigoroso nei dettagli e scientificamente documentato, lo studio della geografia delle Alpi o la geologia degli Appennini e dei vulcani, la storia dei ghiacciai e la fosforescenza del mare o l’importanza dei giacimenti petroliferi italiani. Il tono colloquiale, familiare e autoironico, mai supponente o borioso, cela una conoscenza approfondita degli argomenti trattati da parte di un zio solo apparentemente semplice e bonario: in realtà si tratta dello Stoppani geologo, paleontologo, docente universitario, direttore di museo ed autore di studi di rilevanza internazionale nonché appassionato patriota dell’Italia unita. Ogni escursione è motivo per approfondire un argomento scientifico con naturalezza e leggerezza così da suscitare la curiosità ed il diletto dei suoi giovani uditori (tra di essi anche la piccola Maria Montessori[3]).

Per gli alunni dell’Italia da poco unificata il libro di Stoppani presentava l’indubbio vantaggio di offrire un piacevole compendio degli aspetti naturalistici del nostro paese, dalle Alpi, alle Prealpi, agli Appennini, con la descrizione di cascate, laghi, fiumi, torrenti, sino a raggiungere il mare, soffermandosi nel contempo a spiegare alcuni fenomeni naturali come le eruzioni vulcaniche (illustrate attraverso la storia del Vesuvio nelle diverse fasi storiche e dell’Etna) e i più importanti eventi del regno animale, come il letargo e le migrazioni, o i caratteri zoologici e i costumi dei pipistrelli. La narrazione si sviluppa all’interno di una “cornice” che è occasione di racconto e di insegnamento, ma anche di riunione famigliare facendo coincidere una duplice concezione pedagogica e morale. L’intento è quello di parlare al più vasto pubblico degli allievi delle scuole italiane, quelle cittadine e, a maggior ragione, quelle rurali che, spesso, faticavano a sopravvivere. In un’Italia ancora sconosciuta alla maggior parte degli Italiani è alla scuola che Stoppani attribuisce il compito più importante. Attraverso l’insostituibile lavoro dei maestri l’autore si augura che le sue pagine abbiano fortuna e si diffondano in ogni parte del Paese affinché sia possibile insegnare: “agli abitanti di quelle contrade ad apprezzare un po’ meglio se stessi e le bellezze di cui la natura , ministra di Dio, non fu avara nelle diverse province d’Italia” (Agli Institutori, p. 6)[4]. E non mancano da parte dello zio-abate, nel commentare i diversi episodi, gli insegnamenti e gli indirizzi di valore da tenere in maggior conto nella vita, come quando a proposito della felicità sostiene che:

La felicità non cresce dunque in proporzione all’avere. Il sapere e la virtù, non le ricchezze materiali, sono le vere fonti della felicità: e questa naturalmente tanto più aumenta, quanto quelle sgorgano più copiose (Serata V pag. 84).

Nel 1906, morto ormai da anni lo Stoppani la sua immagine e il titolo del libro, per effetto della loro notorietà, furono utilizzati per dare il nome ad un formaggio. Ci pensò Egidio Galbani ad invadere i mercati con l’etichetta che sulla forma rotonda riproduceva in effigie il celebre abate e il suo titolo più famoso. Col tempo il formaggio, che tuttora esiste, più prosaicamente finì con l’eclissare il libro, uscito dalla lettura collettiva e quasi del tutto dimenticato nel secondo Novecento. L’opera trascurata ed entrata nell’oblio è stata di recente (2009) riproposta dall’Editore Nino Aragno come un ideale tassello della biblioteca degli italiani. L’editore ha integralmente riprodotto l’edizione datata 1876 che si presume sia stata la prima, mentre a presentazione dell’opera vi è una ricca e documentata introduzione di Luca Clerici. Dove, da una parte si propone un profilo biografico e scientifico dell’autore e dall’altra si ricostruisce la fortuna del Bel Paese”, capolavoro della divulgazione naturalistica italiana dell’Ottocento, soffermandosi sugli elementi contenutistici e formali. A emergere è il ritratto di un illuminato uomo di scienza e religione, capace di guadagnarsi dapprima la stima della comunità scientifica come pioniere della geologia regionale, per orientarsi in seguito nella direzione della divulgazione popolare. Infatti fu proprio con Il Bel Paese che l’abate Stoppani raccolse un vasto consenso di pubblico, specialmente tra i nuovi lettori, come donne e fanciulli alfabetizzati grazie alle leggi sulla scolarizzazione obbligatoria.

Nel racconto si può riscontrare una seconda coincidenza. Infatti la prospettiva ambientale si salda agli ideali risorgimentali. Non a caso il viaggio è anche un lungo racconto dell’Italia post unitaria. Il punto di vista dell’autore non è nostalgico, ma proiettato al futuro come dimostra la compiaciuta descrizione delle linee ferroviarie che percorrono e collegano la penisola consentendo la visione di scorci di rara bellezza. La conoscenza dell’Italia e delle caratteristiche del suo paesaggio come ideale civile di rispetto dei rapporti tra l’uomo e l’ambiente benché quest’ultimo sia il protagonista assoluto della narrazione. La riproposta di questo testo, doverosa dopo anni di disattenzione, è risultata, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ancora più opportuna, per ricordarci, come scrive Stoppani con orgoglio, che il nostro Bel Paese è forse il più ricco al mondo “di fenomeni e di naturali bellezze”. L’autore fu un precursore di quella sensibilità nei confronti della bellezza e della varietà dei paesaggi italiani che solo molti decenni dopo si sarebbe insinuata nella coscienza collettiva. Fu una sorta di ambientalista ante litteram, che probabilmente oggi inorridirebbe di fronte alle devastazioni ambientali, all’inurbamento selvaggio, alla progressiva distruzione della straordinaria ricchezza del paesaggio italiano. Ma comunque già attento a denunciare la scomparsa di un “foltissimo bosco”  che rivestiva una vasta porzione del fianco del monte Legnone: “caduto ora sotto la scure vandalica che rese ignude e deserte le montagne del Lario e della Valtellina” (Serata XII pag. 207) e a stigmatizzare chi tra i visitatori delle “caverne di Vall’Imagna” non sa rispettare le stalattiti. O a segnalare tra i ghiacciai delle Alpi la regressione e il danneggiamento di quello del Forno, una anticipazione dell’attuale generale fenomeno della riduzione o della scomparsa dei ghiacciai alpini dovuta al mutamento del clima e all’aumento delle temperature. Il Bel Paese che Stoppani percorre in lungo e in largo e descrive presenta grandi spazi e la campagna, dappertutto ben coltivata e irrigata nella pianura lombarda o solo in parte nel territorio di Napoli, quello di Catania e alcuni distretti delle Puglie per la sussistenza del latifondo, è comunque separata e distinta dalle città. Così in gran parte dell’Italia meridionale e anche centrale “i borghi e le rade città, cinti di una bella aureola di colti, mi apparvero sempre come oasi in seno del deserto” (Serata XIII p. 227). Spazi che diventano zone impervie e poco battute quando si tratta di inerpicarsi sui monti, salire sui ghiacciai e ridiscendere a valle senza altro aiuto che le proprie forze.

Nell’introduzione del “Bel Paese” così l’autore si esprime in una sorta di comparazione-competizione  con le caratteristiche del territorio svizzero in allora più conosciuto e “percorso” dai viaggiatori:

 

… ma il mondo fisico della Svizzera, si riduce, possiam dire, alle Alpi; mentre il nostro mondo è assai più vasto e infinitamente più ricco di fenomeni e di naturali bellezze. Alle bellezze ed alle ricchezze scientifiche delle Alpi, noi aggiungiamo quelle così diverse dell’Appennino; e quando avremmo descritto i nostri ghiacciai, le nostre rupi e le gole delle Alpi e delle Prealpi, troveremo altri nuovi mondi da descrivere: le emanazioni gassose, le fontane ardenti, le salse, i vulcani di fango, i veri vulcani o vivi o spenti, il Vesuvio, l’Etna, poi ancora il mare e le sue isole, i climi diversi, le diverse zone di vegetazione, dalla subtropicale alla glaciale e così via discorrendo, ché l’Italia è quasi (non balbetto nel dirlo) la sintesi del mondo fisico (Agli Institutori, p. 3).

 

Lo Stoppani fu anche un convinto estimatore dei geositi, quei luoghi che non determinano solo la forma peculiare del paese e la varietà dei nostri paesaggi, ma che costituiscono meraviglie della scienza e monumenti della natura di indiscutibile valore culturale. Analizzò a fondo la storia dei grandi ghiacciai e dei loro movimenti nel corso delle ere geologiche. Indagò anche sui massi erratici trasportati dai ghiacciai: fra questi descrisse il famoso e colossale Sasso di Preguda (Lecco), di ben 100 metri cubici di roccia. Il Bel Paese è dunque un viaggio nell’Italia di metà Ottocento, con le sue intatte bellezze naturali raccontate però da un geologo che sa spiegare bene i diversi fenomeni naturali ed è insieme ammirato e appassionato del suo Paese.

Naturalmente il Paese che percorre e racconta Stoppani è un paese preindustriale che lavora e vive nell’agricoltura, l’unica industria degna di nota è quella mineraria, la popolazione è meno della metà di quella attuale[5] e, per viaggiare, nelle lunghe distanze si va con il vapore, in treno o con il piroscafo a ruota; in quelle intermedie si prende il “calesse”, si noleggia un “prosastico baroccio”, una capace “vettura a due” cavalli o ci si accontenta di un  “carro” e nelle situazioni più difficili, se si ha fortuna, si può trovare un “ronzino” o, più sovente, si usano le gambe. È stata soprattutto la ferrovia che, dopo l’Unità, ha contribuito a collegare le differenti realtà dell’Italia. Su impulso di Cattaneo e Cavour si è in pochi anni per questa via vinta una sfida ardita per un paese pieno di montagne e già nel 1890 il grosso della rete era ultimato. Come racconta Paolo Rumiz – anch’egli un instancabile camminatore e scopritore del paesaggio italiano – il nostro sistema ferroviario raggiunse l’apice nel 1940:

42mila chilometri di rete, 330 milioni di passeggeri, 190 milioni di tonnellate di merci trasportate. Il fischio del treno raggiungeva ogni sperduto paese. Poi vennero il boom economico, la gomma e la dismissione delle linee.[6]

E l’abate di idee liberali che in gioventù è stato un attivo patriota utilizza il moto della ferrovia per descrivere le bellezze dell’italico paesaggio. Così la ferrovia dell’Italia meridionale da Ancona a Brindisi,

“forse la più amena tra le ferrovie di Europa, costeggia l’Adriatico per ben 15 ore di furioso cammino. Ridenti colline, fantastiche rupi, castelli pittoreschi, storiche ruine, deliziose città, sfilano (…) sotto gli occhi del viaggiatore, che percorre, a tutta foga di vapore, uno dei grandi lati di questo incantevole giardino che si chiama Italia” (Serata IX, p. 154). “

O partendo in treno dalla stazione di Milano diretto ad Arona “col capo allo sportello” e lo sguardo fisso a settentrione in direzione delle Prealpi si vedono passare in rassegna come un esercito di giganti:

“primo il mio Resegone colle creste dentate; poi le due Grigne … poi l’acuto Bisbino, e dietro di lui il massiccio Generoso; poscia il gran dente del Poncione di Ganna, e in ultimo il Campo de’ Fiori, che digrada con una serie di colli sino alla sponda del lago Maggiore” (Serata VII p. 123).”

 Ma il paesaggio costituito da “l’immenso piano, i colli, le Prealpi e le Alpi” si può gustare anche nella città, a Milano, salendo sul Duomo, sempre che il tempo sia sereno, e non nevichi. Perché allora una abbondante nevicata, nella grande città di fine Ottocento, diviene un avvenimento che richiama eserciti di contadini i quali “vengono dalla campagna a spalare la neve cittadina, lieti che essa prepari loro una grassa giornata.” E lo spettacolo per i bambini ed i ragazzi che escono dalla scuola non manca certo in presenza dei  “mucchi di neve allineati dagli scopatori sui due lati della via”  da scavalcare, mentre “i carri, i cavalli, sono coperti di neve; i condottieri biancheggiano, anzi tempo canuti, o per la neve che li ricopre, o per una bella fioritura di brina, che si va sviluppando sulle barbe, sui capelli, come una crittogama…” (Serata V p. 80).

L’assalto alle bellezze del Paese  

Nei confronti degli atti vandalici verso i monumenti e le opere d’arte la denuncia di Stoppani nelle pagine de “Il Bel Paese” non è certo carente:

… il vandalismo dei brutali ammiratori giunge a smagliare i mosaici di veneranda antichità, a spezzare i marmorei fregi, e fino a decapitare le statue (lo sanno il Duomo di Milano, la Certosa di Pavia, le antichità di Roma, e i monumenti di tutta Italia!). (Serata VIII, p 158).

Ma certo oggi avrebbe più di una difficoltà nel narrare con le stesse ammirate parole l’attuale stato del paesaggio italiano e, da conoscitore attento e amante della natura e del bello, probabilmente utilizzerebbe concetti non dissimili da quelli impiegati dalla coppia dei noti e valenti giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo in uno dei loro ultimi libri di denuncia sulla devastazione, la trascuratezza  e gli orrori del Bel Paese: Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia (2011).[7] Essi, nelle prime pagine del loro libro pamphlet, ricordano come noi italiani non possiamo certo contare su ricchezze naturali come il petrolio, il gas, l’oro, i diamanti, le terre rare, le sconfinate distese di campi di grano del Canada o i pascoli della pampa argentina. Però in cambio abbiamo

“una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d’arte.”

Gli esempi che il libro riporta sulle condizioni del paesaggio e dei beni artistici – al Nord come al Sud, nelle Isole come nelle regioni del Centro – relativi alle poche realtà ancora intatte e alle molte ormai devastate, sono innumerevoli. E riguardano sia lo stato e la valorizzazione di opere d’arte, siti archeologici, musei e località che il consumo, la cementificazione, spesso abusiva, del territorio.

Tra i primi gli autori segnalano la storia del Tempio di Apollo a Selinunte. Dove, nel gennaio del 2000, vennero erette delle impalcature che avrebbero dovuto servire a fare dei rilevamenti sullo stato dell’edificio. Poco dopo la ditta che aveva l’appalto dei lavori litigò con la sovrintendenza e da quel momento nessuno si è più occupato di smontare quelle impalcature. Il turista straniero che viene in Italia per visitare queste vestigia si trova così di fronte a una struttura metallica che le ricopre, totalmente priva di significato. A due passi da Selinunte si trova Triscina mare, un paesone a ridosso della spiaggia di 5.000 case tutte abusive, al punto da non avere vie intitolate, per non parlare delle strade e della rete fognaria del tutto inesistente. Risalendo lungo la Penisola, ecco Pompei: 103.000 € spesi per censire 53 cani randagi che sono ancora lì e che tranquillamente utilizzano muri e affreschi come toilette. Sei milioni di Euro per il restauro del Teatro di Pompei che si stava sgretolando e l’intervento è consistito nell’inserimento di colate di cemento che hanno ricoperto i resti romani e completamente snaturato la gradinata del teatro. Più di recente ad aggravare un quadro già drammatico di una realtà unica al mondo che, come ha ricordato e ammonito la Commissione Europea, “fa parte non solo della storia d’Italia, ma d’Europa e del mondo”, il crollo della “Scuola dei Gladiatori” e della Schola Armatorum. A Nola un villaggio preistorico ricoperto dalla cenere del Vesuvio esattamente come Pompei e dunque ritrovato praticamente intatto è ora sommerso dalle acque piovane e di reflusso che hanno creato un lago sugli scavi, danneggiando in maniera inesorabile gli straordinari reperti. E ancora la pessima condizione nella quale versa il “Villaggio Coppola a Castel Volturno” o il degrado della “Reggia di Carditello”, un gioiello abbandonato e violentato dai vandali e, ancora, a Santa Maria Capua Vetere l’abbandono in cui si trova “Palazzo Teti Maffuccini” dove, nel 1860, alloggiò Giuseppe Garibaldi e fu sottoscritta la resa di Capua che “assicurò il trionfo d’Italia e del suo diritto”. Nella capitale poi, a Roma, le difficoltà in cui versa il Parco archeologico dell’Appia Antica “ogni giorno sottoposto a uno stillicidio di abusi, illegalità, ricorsi”, mentre la stabilità del Colosseo è perennemente sollecitata dal traffico della città con più auto d’Italia: 71 ogni 100 abitanti e sul colle Appio la “Domus Aurea”, l’immensa dimora dell’imperatore Nerone, ha subito crolli e si sta degradando.

 

Al Nord le cose non sembrano andare molto meglio se in provincia di Vercelli ladri, vandali, balordi hanno portato via ogni cosa dalla “casa Cavour di Leri”, che Michele Benso comprò nel 1822 e dove il figlio Camillo sperimentò tecniche d’irrigazione d’avanguardia. Dove c’era una sua statua, a presidio della memoria, che è stata decapitata e dove è stato asportato tutto: porte, affreschi, tegole dei tetti.; perfino la scala interna è stata distrutta per rubare i gradini di marmo. “E non siamo – mettono in evidenza Stella e Rizzo – nella sgangherata periferia campana, ma nel civilissimo Piemonte”.

Non manca, per fortuna, qualche esempio positivo di recupero e rilancio di parti importanti del nostro patrimonio compiuto dallo Stato, dagli enti locali o dai privati che gli autori con puntualità riconoscono, come “Villa Gregoriana di Tivoli” tornata, per iniziativa del Fai dopo anni di abbandono, al fascino che stregò Goethe:

 

Quelle cascate, insieme alle rovine e a tutto il complesso del paesaggio, sono tra le cose la cui conoscenza ci fa interiormente profondamente più ricchi.[8]

 

Analogo discorso vale per la meravigliosa reggia di caccia dei Savoia a Venaria Reale, restaurata e imposta come uno dei massimi poli di attrazione del panorama turistico-culturale italiano ad opera di una virtuosa collaborazione fra le Amministrazioni pubbliche di Torino e del Piemonte. Vale per i magnifici castelli federiciani di Melfi, Lagopesole o Adria. Ma nella attenta disamina dei due giornalisti queste situazioni virtuose rappresentano l’eccezione ed è sufficiente indagare dove sono e come stanno, ad esempio, i “Bronzi di Riace” per avere la conferma di una cronica incapacità nel mettere a frutto i nostri immensi tesori. I due guerrieri del V secolo a.C., dopo il loro ritrovamento in mare e il restauro, nelle prime esposizioni a Firenze e Roma nell’’81 richiamarono folle immense di ammiratori. Un successo clamoroso che continuò anche a Reggio Calabria, dove il Museo archeologico eletto a dimora fissa dei bronzi registrò nel giro di un anno oltre un milione di visitatori. Bene, anzi male perché – ci informano Stella e Rizzo – il Museo di Reggio non è mai entrato fra i top 30  italiani e, secondo i dati del 2008, i visitatori sono ormai “meno di quelli che vanno a vedere lo zoo di Pistoia”[9]. Forse ciò dipende anche dal fatto che per sapere dove sono le statue, che bisognose di cure sono state trasferite in una sala del Consiglio regionale, il povero turista ha difficoltà a trovare indicazioni e se straniero il sito internet del museo non lo aiuta perché le indicazioni sono fornite solo in italiano.

 

Se possibile peggiore, anche perché irreversibile, è il quadro che le pagine di “Vandali” documentano a proposito del consumo di suolo e della inarrestabile cementificazione del territorio che, in pochi decenni, ha devastato interi paesaggi della penisola. Qui davvero Antonio Stoppani – al pari di Goethe e di molti altri europei colti ed eruditi che tra il ‘600 e l’800, per la mescolanza di bellezze naturali e d’arte offerte, viste come le tessere di un armonioso mosaico, consideravano fondamentale al completamento della loro formazione realizzare il Grand Tour[10] che, necessariamente, doveva comprendere un Viaggio in Italia[11]avrebbe difficoltà a riconoscere nell’attuale Il Bel Paese. Stella e Rizzo per esemplificare riportano uno studio del 2004 dell’Associazione europea cementieri che evidenzia come: “l’Austria ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 40,05, battuti di un soffio solo dalla Spagna”. Quella stessa Spagna oggi alle prese con una gravissima crisi economica indotta da una domanda drogata ed eccessiva di nuove costruzioni e che, comunque, ha 90,6 abitanti per chilometro quadrato, noi 199,3: più del doppio. E il Nord in questo campo non si presenta esente da colpe, ma assorbendo il 47% del cemento prodotto non può scaricare le responsabilità sul resto del paese. La Pianura padana, ovvero l’area agricola più vasta e produttiva della penisola italiana, ha una media di superfici edificate pari al 16,4% dell’intero territorio. Così come tra le provincie che nel 2011 presentano le maggiori percentuali di area cementificata troviamo al primo posto Monza (54%), al terzo Milano (37%) e al quarto Varese (29%).[12]

 

Un consumo di territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente ai rischi idrogeologici di un ambiente in molti punti fragile.  Cosa resta, si domandano gli autori, della campagna veneta cantata da pittori come Giorgione o Cima da Conegliano?

 

Capannoni, capannoni, capannoni. E poi svincoli, sopraelevate, ipermercati, sottopassi, villette, villini, villoni, bretelle autostradali, cave, grossisti di pneumatici, grossisti di ferramente, grossisti di laterizi …. (p. 91).

 

Con la provincia di Vicenza, una delle più industrializzate d’Italia che nell’ultimo decennio del novecento ha registrato una crescita edilizia di 56 milioni di metri cubi “pari a un capannone largo dieci metri, alto dieci e lungo 560 chilometri”. Ma quello che vale e accomuna larga parte del Veneto, delle Lombardia, di parte della Toscana e dell’Emilia Romagna – per non citare il paesaggio stravolto dalla speculazione di quasi tutta la riviera della Liguria, che rappresenta un caso a sé stante – e della grande area intorno a Napoli, è il modello della urban sprawl, della città sparpagliata, senza regole dove non si riesce più a distinguere il confine tra la metropoli e la campagna. Mentre una “crescita controllata” è in grado di far risparmiare il 25% dei suoli, senza danni all’attività edilizia, e in più rilevanti risorse per gli allacciamenti idrici, le fognature e le infrastrutture stradali e i servizi locali.[13]

 

Tra il 1990 e il 2005 – accusa per parte sua Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento (2010) – la superficie agricola utilizzata (Sau) in Italia si è ridotta di 3.663.000 ettari, un’area più vasta della somma di Lazio e Abruzzo: abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17,6% del nostro suolo agricolo. Il record assoluto spetta alla Liguria, dove la contrazione della Sau raggiunge il 45,55%, seguita dalla Calabria con il 26,13. E ben poco conta il colore politico delle amministrazioni …”.[14]

 

Carlo Petrini, Presidente di Slowfood, commentando un recente rapporto del ministero per le Politiche agricole sulla cementificazione e il consumo di suolo, conferma e aggiorna i dati:

 

Dal 1971 al 2010 abbiamo perso il 28% della superficie agricola utilizzabile, un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna. In ettari di Seminativi abbiamo perso il 26%, di Prati e Colture permanenti, rispettivamente il 34 e il 27% e l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del nostro fabbisogno alimentare.[15]

 

Su ciò Stella e Rizzo chiosano:

 

E l’assalto continua, basti dire che ogni giorno da Vipiteno a Capo Passero, vengono cementificati 161 ettari di terreno. Pari, par capirci, a 251 campi di calcio (p. 95).

 

Naturalmente tutto ciò non poteva non avere conseguenze negative sull’immagine dell’Italia all’estero e sulla “percezione” globale che i turisti hanno del nostro Paese. Influire sulle presenze e, più in generale, sull’attività turistica. Se nel 1970 l’Italia era la prima tra le mete turistiche mondiali – precedendo Canada, Francia, Spagna e Usa – nel 2009 era scesa al quinto posto, scavalcata da Francia, Usa, Spagna e Cina. Mentre, come incidenza del turismo sulla ricchezza del paese, tra il 1995 e il 2004, l’Italia è l’unica tra le nazioni sviluppate (con l’eccezione degli Stati Uniti) ad averla ridotta passando, sul Prodotto Interno Lordo, dal 6,13 al 5,68%.[16]

 

Il Paesaggio nella Costituzione

 

Come mai l’Italia, che grazie agli italiani di un tempo si meritò il nome di ‘giardino d’Europa’, sta facendo scempio di se stessa? Quello che sta accadendo è una involuzione culturale passeggera o una profonda mutazione antropologica? (p. 14)[17]

 

Per rispondere a queste domande e capire come sia stato possibile distruggere gran parte di un antichissimo Bel Paese nell’arco di pochi decenni, con una forte accelerazione nel secondo dopoguerra, e conoscere le cause che lo hanno favorito è utile riferirsi e vagliare l’importante libro di Salvatore Settis già richiamato: Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile. Un testo impegnato pieno di dati, norme, analisi e ricostruzioni che ha come filo conduttore il paesaggio, più che i beni culturali, anche se tra essi il rapporto è molto stretto.

Secondo l’autore esistono nel nostro Paese alcuni dati di fatto che evidenziano un forte contrasto, al limite del paradosso. In primo luogo l’Italia ha da anni il più basso tasso di crescita demografica d’Europa, e uno dei più bassi al mondo, ma presenta anche il più alto tasso di consumo di territorio del Continente. Come secondo dato siamo tra le poche nazioni al mondo ad avere inserito la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale tra i principi costituzionali, e un complesso di leggi organiche in assoluto tra le migliori; eppure prosegue ogni giorno la selvaggia aggressione al territorio, disprezzando le norme e interpretandole in favore della speculazione edilizia. Ancora, l’Italia ha una lunga tradizione civile di riflessione e studio sul tema della tutela e del ripristino del paesaggio, ma questo tema è del tutto assente nella scuola italiana. In essa il paesaggio descritto è solo quello dipinto dai pittori o descritto da poeti e romanzieri, non quello reale entro il quale viviamo e che vediamo troppo sovente deturpato e offeso. E la mancanza di una educazione alla storia e alla tutela del paesaggio non può che essere tra le cause del suo rapido degrado.

Si può qui ben vedere quanto sia stato preveggente, anche se non ha avuto, purtroppo, un seguito duraturo,  l’intuizione di Antonio Stoppani di fare della scuola il settore privilegiato per lo studio, l’educazione e la conoscenza delle bellezze del Bel Paese.

Tra i principali aspetti che contribuiscono in modo determinante alla mancata difesa del paesaggio Settis individua, in premessa, l’intrico normativo e la frammentazione delle competenze fra Stato, Regioni, Province e Comuni. Il che, di fatto, rappresenta un forte aiuto al partito del cemento. Una situazione che favorisce l’inserimento di norme che permettono di aggirare quelle di garanzia e di tutela e che, applicate con sollecitudine, aiutano a devastare paesaggi e città. Un esempio fu la legge “Tremonti-bis”[18] del 2001 che introdusse la detassazione del reddito d’impresa per chi intendesse reinvestirlo in azienda, in particolare nella costruzione o nell’ampliamento di immobili collegati alla medesima attività. Si motivano così le migliaia di capannoni inutilizzati che hanno invaso intere regioni, con un particolare successo nell’inventivo Nord-Est, dove deve essere parso più naturale ai più “ costruire capannoni inutili violentando il paesaggio che pagare le tasse”.

Più distruttivo per le conseguenze che ha avuto e continua ad avere sul martoriato paesaggio italiano è stato il mutamento normativo che ha riguardato i contributi corrisposti al Comune da chi costruisce un nuovo edificio o modifica la destinazione d’uso di un edificio preesistente. Sono i cosiddetti oneri di urbanizzazione. Nel 1977 la legge Bucalossi aveva correttamente stabilito che tali risorse dovevano essere utilizzate dai comuni per coprire le spese di effettiva urbanizzazione e per null’altro. In particolare per fornire, nelle aree di nuova urbanizzazione, i servizi necessari (acqua, gas, strade, fognature, raccolta rifiuti, illuminazione…). Questo sano principio, rimasto in vigore per oltre vent’anni, è stato inopinatamente abrogato da una norma del “Testo unico per l’edilizia” approvato il 6 giugno 2001 negli ultimi giorni di vita del governo Amato.[19] Autore della cancellazione fu il ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini, che la giustificò come un omaggio all’autonomia finanziaria dei Comuni. Nella realtà l’eliminazione dell’art. 12 della legge Bucalossi ha dato loro la possibilità di utilizzare gli oneri di urbanizzazione nella spesa corrente per qualsiasi finalità e questo fatto, coincidendo con le crescenti difficoltà finanziarie degli enti locali, ha spinto i medesimi a favorire le nuove costruzioni, ad allentare i controlli e, nella sostanza, a svendere il proprio territorio. Una situazione che la cancellazione dell’Ici, voluta da Berlusconi nel 2008, riducendo una parte rilevante degli introiti ai comuni ha ulteriormente aggravato incentivando i medesimi nel favorire nuove costruzioni. Ciò ha prodotto tali e tanti effetti negativi sia sul paesaggio sia sui cittadini da indurre l’attuale ministro dell’Agricoltura Catania ad inserire, nel disegno di legge presentato nel mese di luglio di quest’anno “in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo” l’abolizione dell’uso da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.[20]

 

Lo storico dell’arte che ha diretto il Getty Research Institute di Los Angeles e la Normale di Pisa osserva ancora che:

 

Alla stessa logica di svendita del paesaggio e dell’ambiente per fare cassa si rifanno le varie ondate di condoni per gli illeciti edilizi, paesaggistici e ambientali.

 

Così i cittadini che hanno violato la legge e sarebbero passibili di sanzioni penali e pecuniarie, nonché, nei casi più gravi, dell’abbattimento degli edifici abusivi, vengono assolti dietro il pagamento di una semplice oblazione. È del tutto evidente, poi, che la ripetizione a pochi anni di distanza delle sanatorie – come è avvenuto con i governi Craxi (1985) e Berlusconi (1994, 2003, 2004) – oltre a ignorare i moniti della Corte Costituzionale[21], nel concreto incoraggia ulteriori abusi nell’attesa del prossimo, immancabile, condono. Un rifiuto delle norme, la poca o nulla considerazione per ciò che è pubblico e un egoismo sulla propria proprietà che non può sopportare vincoli o regole,  rappresentano sentimenti oscuri e quasi inconfessabili, ma per molti versi innati in tanti italiani che lo slogan lanciato da Berlusconi con abilità mediatica nel 2001, “Padroni in casa propria”, non ha fatto che assecondare. E l’iter del travagliato “Piano casa” del 2008 si ispira pienamente a questa filosofia che fa della “semplificazione”, dell’aggiramento delle regole, il proprio indirizzo che – sostiene  criticamente Settis – non ha trovato una opposizione adeguata neppure da parte delle Regioni governate dalla sinistra. Una convergenza fra governo e opposizione che:“non è né un caso né un dettaglio, anzi è il cuore del problema”.

I capitoli centrali di “Paesaggio Costituzione Cemento” affrontano una storia articolata e complicatissima, cioè la vicenda della legislazione in materia di beni culturali e tutela del paesaggio che parte da statuti e disposizioni comunali e sovrane del Medioevo, include norme degli Stati italiani prima dell’Unità e si snoda quindi attraverso la legislazione dell’Italia unita. Specialmente nel Sette e Ottocento antichi Stati italiani si dotarono di leggi importanti, all’avanguardia, allo scopo di difendere e tutelare il prezioso patrimonio accumulato nelle epoche precedenti. Ma quello che meno aveva partecipato alla creazione di norme coerenti di tutela fu lo Stato guida del processo di unificazione, il Regno di Sardegna. Nei fatti, dal 1861 fino all’inizio del Novecento si tentò, senza riuscirci, di creare una struttura unitaria e di dare allo Stato gli strumenti per tutelare i beni culturali pubblici. Ad opporsi a queste legittime proposte furono i grandi proprietari, a quel tempo soprattutto aristocratici, in grado di influenzare il Senato, non elettivo, e di far valere “i diritti della proprietà privata e la difficoltà di riconoscere il primato del pubblico bene sul libero commercio ed esportazione delle opere d’arte”. E il discorso sulle opere d’arte vale anche per i beni ambientali e il paesaggio. Ed è solo durante il Fascismo che lo Stato si dota di due leggi adeguate, al punto che esse rappresentano tuttora il substrato delle leggi in materia di territorio e di beni culturali: la legge Bottai del 1938 e la legge quadro in materia di urbanistica del 1942. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, alle istituzioni necessarie e alla centralità della responsabilità dello Stato, per l’autore – questa è la sua tesi – esiste una sostanziale continuità tra Benedetto Croce, Bottai e la Costituzione italiana. Settis discute a lungo sulla discrasia che si venne a operare, alla Costituente, tra legge urbanistica e legge sul paesaggio: la prima densa di poteri programmatori lasciati in capo agli enti locali, mentre la seconda era assistita da piani senza reali autorità di appoggio e mai realmente venuti alla luce. Egli attribuisce a questo errore, nei lunghi anni successivi, il regolare svuotamento della tutela del paesaggio.

Fondamentale e dirimente nel libro è comunque il ruolo che svolge e assume la Costituzione del 1948, la quale consacrò la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio al più alto grado ponendola fra i principi fondamentali dello Stato. E l’Italia è stata in questo il primo Paese al mondo.

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Questo il testo dell’art. 9 che sancisce la natura collettiva del paesaggio, e lo colloca in un nuovo e nobile edificio di diritti individuali e sociali. Carlo Azeglio Ciampi da Presidente della Repubblica lo definì “l’articolo più originale della nostra Costituzione”.[22] La convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32), ha inoltre indicato la tutela dell’ambiente come valore costituzionale primario, in quanto espressione dell’interesse diffuso dei cittadini. Di grande interesse è nel quinto capitolo la puntuale ricostruzione che Settis fa delle diverse formulazioni e collocazioni che nei lavori della Costituente riguardarono il testo dell’art. 9 (ben 11 le proposte) e la descrizione commossa del dibattito in sede di Commissione e Assemblea che vide tra i suoi principali protagonisti Concetto Marchesi, Aldo Moro e Tristano Codignola.

Nel dopoguerra lo sviluppo industriale e abitativo spostò il centro di gravità dell’interesse dal paesaggio all’urbanistica, all’edilizia, a una nuova mobilità dominata dalle autostrade. La legge urbanistica del 1942, pensata per un contesto sociale relativamente stabile e nata per “frenare la tendenza all’urbanesimo” finì per accompagnare un processo diametralmente opposto: l’accelerata urbanizzazione e l’abbandono delle campagne. L’inadeguatezza delle norme del’42 fu evidente a partire dagli anni Sessanta e innescò una serie di tentativi, tutti falliti, di riforma organica. Lo stop imposto ai vari disegni di riforma  urbanistica nei primi governi di centro sinistra – in particolare i disegni di legge di Fiorentino Sullo[23] – ha segnato negativamente lo sviluppo economico e sociale italiano degli anni successivi. Se la riforma urbanistica fosse stata realizzata e quindi la rendita fondiaria avesse avuto meno forza, probabilmente il capitalismo italiano avrebbe dovuto ricercare altri obiettivi per il conseguimento delle proprie fonti di profitto.

La riforma fu impedita proprio dal veto di potenti interessi economici della rendita fondiaria e della speculazione edilizia, che avversarono tutti i tentativi volti a introdurre una qualche forma di controllo pubblico delle aree fabbricabili, dall’esproprio alla proposta di scorporare dal diritto di proprietà il diritto di edificare, subordinandolo a concessioni pubbliche. Una storia in cui, per dirla con le parole di Crainz, “la sconfitta dei riformatori diventa disfatta”.[24] L’autore segue poi, passo dopo passo, la più recente legislazione regionalistica fino alla riforma nel 2001 del titolo V della Costituzione, che critica severamente per aver ampliato in senso federalista le competenze delle Regioni a detrimento di quelle dello Stato espresse dall’art. 9. La sua ferma convinzione, avvalorata da decenni di esperienza, è infatti che

“più le ammistrazioni sono locali, più sono vulnerabili a fattori di distorsione della tutela, dalle congenite fragilità di bilancio, all’uso del territorio come merce di scambio elettorale”.

Inoltre per Settis la riforma, concepita in fretta e male, rispondeva a “un disegno politico fallimentare secondo cui una devoluzione ‘leggera’ avrebbe dovuto arginare le fortune politiche della Lega Nord”. Oggi, anche alla luce degli ultimi avvenimenti, è difficile dargli torto.

Gli anni del boom economico furono anche gli anni selvaggi della speculazione, “mentre le campagne diventavano terra di nessuno, materia morta da riciclare mediante cementificazioni e industrializzazioni.” E negli ultimi vent’anni la situazione si è ripetuta, con le dovute varianti, ma identica nei risultati: la distruzione del territorio nel nome dei diritti dei privati e in spregio del bene comune. Settis fa ben comprendere – sostiene Paolo Leon[25] – come le classi dirigenti non siano affatto all’oscuro del danno collettivo derivante dal cemento. Buona parte del consenso politico derivava e deriva dall’economia del settore delle costruzioni, poco accessibile alla concorrenza internazionale, e perciò gonfio di profitti da spendere a favore delle clientele politiche.

Gli imprenditori vincenti – scrive Roberto Saviano nel 2006 – provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento … La Costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori[26].

Di fronte a una oggettiva situazione di degrado delle nostre città e del nostro paesaggio che evidenzia non solo i limiti di autonomia della politica, il declino di valori e ideali, ma anche la pessima cultura di troppe amministrazioni pubbliche, Settis non sceglie la strada della rassegnazione e conclude il suo lavoro con un invito a noi, ai cittadini che non intendono rassegnarsi, ad indignarsi, e cita Seneca: “Sa indignarsi solo chi è capace di speranza”. Certo la preoccupazione è per l’egoismo di oggi che non si occupa di ciò che lascia alle generazioni future, ma l’attenzione è ai segnali in controtendenza che arrivano dalla società. Al 60% degli europei che, secondo un’indagine dell’Unione Europea, pone l’inquinamento ambientale al primo posto fra i fattori di rischio, ai lavori e ai risultati della Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, al successo in Italia del movimento per l’acqua pubblica e i beni comuni, alle tante associazioni impegnate in modo volontario. Puntando a far conoscere e a valorizzare gli atti coraggiosi di quegli amministratori che si sono battuti e si battono per proteggere il paesaggio e arrestare la selvaggia cementificazione del paesaggio. Il tutto e con speranza in nome del partito della Costituzione. Che, sostiene Settis, è anche il più robusto schieramento popolare del Paese, e lo hanno dimostrato 15.791.293 italiani (il 61,3% dei voti espressi) nel 2006, vincendo il referendum contro “una riforma costituzionale ispirata a sgangherate devoluzioni”.

Alessandria, agosto 2012

 

 

               

 



[1] Antonio Stoppani fu un insigne studioso dell’Ottocento. Nacque il 15 agosto 1824 a Lecco e nel 1835 entrò nel Seminario di Castello per studiare grammatica. Ben presto sentì la vocazione per il sacerdozio e passò quindi al Seminario di Monza e successivamente a quello di Milano dove fu consacrato prete nel 1848. Nello stesso anno il giovane sacerdote, di idee liberali, partecipò attivamente all’insurrezione delle Cinque Giornate schierandosi dalla parte dei patrioti italiani, combattendo addirittura sulle barricate e fabbricando aerostati che furono utilizzati per le comunicazioni con la periferia e le vicine province lombarde. Prese parte anche ai successivi eventi bellici e solo dopo la battaglia di Novara fece ritorno in Seminario, come insegnante di grammatica. I suoi trascorsi patriottici e le sue idee politiche non passarono inosservati ai suoi superiori che ben presto lo espulsero dal Seminario e anche dal Collegio di cui era vicedirettore. La sua fama di insegnante era tuttavia ormai ben consolidata e non gli fu difficile trovare lavoro come precettore nella città di Como. Fu durante questo periodo che ebbe modo di appassionarsi agli studi di geologia e paleontologia, con particolare interesse alla Brianza e alle Alpi Retiche. Dopo la liberazione di Milano lo Stoppani fu riammesso alla precedenti cariche e nel 1861 fu nominato Straordinario di Geologia all’Università di Pavia. Nel 1874 fu nominato presidente della neonata Sezione di Milano del Club Alpino Italiano. Successivamente fu direttore del Museo Civico di Milano e presidente della Società Italiana di Scienze Naturali.  Morì a Milano il 2 gennaio 1891.

 

[2] Luca Clerici, introduzione a A. STOPPANI, Il Bel Paese, Aragno editore, Milano, 2009, p. XI.

 

[3] Maria Montessori, pedagogista, filosofa, medico, scienziata, educatrice e volontaria è nota per il metodo educativo che ha preso il suo nome. Nata a Chiaravalle (Ancona) nel 1870 e morta nel 1952 a Noordwijk in Olanda.

[4] Le citazioni del libro si riferiscono all’edizione originale de Il Bel Paese Conversazioni sulle bellezze naturali. La geologia e la Geografia fisica d’Italia di Antonio STOPPANI, edito a Milano nel 1876 dalla Tipografia e Libreria Editrice Ditta Giacomo Agnelli. Ma sono prese dalla citata edizione del 2009 da parte dall’editore Aragno, che però ha riprodotto la prima edizione citata.

[5] Popolazione italiana nel 1861: 29.249.000 abitanti.

[6] P. RUMIZ, L’Italia in seconda classe,  Feltrinelli editore, Milano, 2009, p. 115.

[7] Rizzoli, Milano, 2011.

[8] Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia , 8 settembre 1786. Si veda il testo in: “Opere”, Sansoni, Firenze, 1944, vol. secondo, qui alle pagg. 436-444.

[9] Antonietta Catanese lo scriveva sul “Quotidiano della Calabria” nel luglio 2009. I dati dei visitatori del Museo archeologico di Reggio nel 2008: 130.696 ticket (dei quali solo 50.085 a pagamento: 137 al giorno); 154.227 sono i visitatori che nello stesso periodo hanno visitato lo zoo di Pistoia.

[10] Richard LASSELS, The Voyage of Italy or A compleat journey through Italy, V. Du Moutier, Paris, 1670, due volume.

[11] Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia , 8 settembre 1786, già cit.

[12] Rosaria TALARICO, Così il cemento si sta mangiando i campi agricoli , “La Stampa”, 25 luglio 2012.

[13] Maria Cristina GIBELLI e Edoardo SALZANO (a cura), No Sprawl: perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo del suolo, Alinea, Firenze, 2006.

[14] Einaudi, Torino, 2010.

[15] Carlo PETRINI, Ogni giorno cento ettari sepolti sotto il cemento,  “la Repubblica”, 25 luglio 2012.

[16] Nello stesso periodo la Spagna è passata dall’8,02 all’11,9%, la Francia dal 4,24  al 6,23%, la Germania dal 4,61 al 6,45% (quasi un punto più dell’Italia), il Portogallo dal 9,57 all’11,67%, la Cina dal 2,50 al 4,66%, la Turchia dal 5,30 al 12,21%.

[17] Salvatore SETTIS, Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi, Torino, 2010.

[18] Legge n. 383 del 2001: Norme per incentivare l’emersione dell’economia sommersa.

[19] D.P.R 380/2001, art.136 c. 2, lettera c.

[20] Carlo PETRINI, Una legge anti scempio, “La Repubblica”, 25 luglio 2012.

[21] Per la Corte Costituzionale il condono è ammissibile “solo a patto di essere del tutto straordinario ed eccezionale”.

[22] Carlo Azeglio Ciampi, discorso del 5 maggio 2003.

[23] 1962, IV governo Fanfani.

[24] G.CRAINZ, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma, 2003.

[25] Paolo LEON, Bene della collettività, non dello Stato , recensione del libro di S. Settis, Paesaggio Costituzione   Cemento,  L’indice dei libri del mese, giugno 2011, www. lindiceonline.com.

[26] Roberto SAVIANO, Gomorra,  Mondadori, Milano, 2006, p. 237.

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