Riccardo Lombardi: “ Il problema dei finanziamenti e l’obiettivo del Piano del lavoro della CGIL” ( da “Rinascita”, febbraio/1950).
Nel 1950 la CGIL lanciava la campagna per il “Piano del lavoro”. Il Piano presupponeva una messa in discussione del modello di sviluppo perseguito dalla DC e dai suoi alleati nel primo quinquennio repubblicano. Un modello di sviluppo teso a privilegiare l’accumulazione privata e la libertà del mercato nel stabilire le priorità di investimento nel Paese. Contro questa visione si scagliò Riccardo Lombardi, uno dei più attivi e competenti difensori del Piano confederale. Nell’articolo che segue, pubblicato su “Rinascita” nel febbraio del 1950, Lombardi confuta l’impianto liberista delle misure economiche portate avanti dai governi De Gasperi e sottolinea le potenzialità di crescita di un piano di intervento statale. Si tratta di un dibattito che, a distanza di quasi 70 anni, risulta utile a capire la vera natura dello scontro in atto oggi tra i sostenitori dell’austerità e chi propone la necessità dell’intervento pubblico come via privilegiata verso la ricostruzione di un’economia al servizio delle persone.
“Il problema del finanziamento del piano della Cgil è stato degradato ad un livello che chiamerei bertoldesco (se Bertoldo non avesse posseduto buon senso oltre che senso comune) dalla frase immeritatamente famosa del Presidente del consiglio dei ministri: “non sono piani che mancano, mancano i soldi”. Lo slogan presidenziale va rigorosamente rovesciato: non sono necessari i “soldi” bensì i piani: piani, ben s’intende, coerenti, razionali e aderenti alle concrete necessità del Paese e soprattutto sorretti da forze umane interessate alla loro realizzazione, disposte agli sforzi e anche ai sacrifici collettivi che tale realizzazione comporta. Sforzi collettivi che non sono esterni al piano ma fanno parte essi stessi del piano.
Per una curiosa avventura […] l’Italia è il solo fra i paesi sottosviluppati e uno dei pochissimi anche fra quelli che non sottostanno a tale infelicità di situazione, ove i problemi della espansione e dei consumi e della lotta alla disoccupazione, vengano ancora affrontati con slogan siffatti, rivelatori di una mentalità arcaica e frusta, impermeabile alle esperienze e dei paesi capitalistici e dei paesi socialisti o avviati al socialismo […]. Quando De Gasperi afferma che per realizzare il piano occorrono i “soldi” ciò non può avere altro significato se non che occorre, prima di dar mano a qualsiasi programma produttivo, avere disponibile la massa di risparmio monetario già formata e non ancora investita […]; indipendentemente da questo primo problema rimanendo il secondo, se cioè affidare ai privati l’investimento di tale risparmio o se sostituirne la iniziativa con quella dello Stato prelevandone la disponibilità mercé l’imposta o il prestito pubblico.
E poiché la formazione del risparmio nel nostro Paese è estremamente lenta rispetto all’aumento della popolazione, gli investimenti non potrebbero venire accelerati se non facendo ricorso ad una drastica limitazione dei consumi, allo scopo di trasferirne il costo in produzione di beni strumentali o di consumo durevole. Il contenuto di classe di siffatta impostazione appare pienamente dispiegato a chi consideri che le sue inevitabili conseguenze non potrebbero esserne che: 1) una compressione dei salari fino al limite dello sterminio dei lavoratori; 2) il raggiungimento di un equilibrio di piena occupazione […] ma ad un livello estremamente basso; 3) un forzamento delle esportazioni anche di beni di consumo, conseguenza e premessa nello stesso tempo del mantenimento dell’equilibrio di piena occupazione a basso livello. Tralasciamo per brevità di sviluppare adeguatamente l’ovvio concetto che il solo sistema politico confacente a siffatta configurazione economica sarebbe il fascismo: così che l’impostazione “ufficiale” data da De Gasperi al problema economico italiano non presenta altre prospettive se non l’alternativa fra disoccupazione e fascismo.
Se non ché la giusta impostazione del problema è tutt’affatto diversa. Senza dubbio alcuno per eseguire un programma di investimenti occorre il risparmio, cioè una quota di beni prodotti, ma non consumati (o perché beni strumentali, o perché beni di consumo esportati in contropartita di beni strumentali, o in contropartita di crediti da utilizzare per beni di consumo dilazionato). Ma non è necessario che tale risparmio preesista all’investimento; esso può essere il prodotto dell’investimento, tanto maggiore quanto più vario e più produttivo è l’investimento stesso. Il fatale errore in cui si è avviluppato il nostro governo, almeno fino ad oggi, è di avere considerato il risparmio come una costante e non come una variabile; di avere cioè trascurato che il risparmio aumenta con l’aumentare della produzione, e che per conseguenza l’aumento di produzione determinato da un aumento di investimenti produce nuovo risparmio. Sotto questo aspetto va intesa la dichiarazione “il piano finanzia se stesso”.
Finanzia se stesso a una condizione: che l’investimento sia produttivo. […] Il problema del finanziamento del piano si articola perciò correttamente nei seguenti altri problemi: 1) stabilire se il livello attuale degli investimenti (pubblici e privati) è sufficiente, o almeno compatibile con un minimo di vita civile del Paese e come tale tollerabile; 2) individuare gli investimenti di massima produttività intendendosi fin da questo momento come tali quelli produttori di massimo profitto collettivo e non di massimo profitto privato; 3) quali metodi adottare per impedire che il potenziale inflazionistico che qualsiasi programma di larghi investimenti comporta non si sviluppi in una spirale di prezzi-salari suscettibile di annullare rapidamente le condizioni stesse di realizzabilità del piano […].
Un’obiezione seria potrebbe esserci posta: se la disoccupazione non sia il sintomo di una crisi ciclica anziché di una crisi di struttura; poiché nel primo caso essa potrebbe essere riassorbita mercé una efficiente politica anticiclica, che – pur implicando una dilatazione degli investimenti – non si affida soltanto a questi ultimi, ma si rivolge prevalentemente a stimolare la domanda dei beni nei limiti di producibilità dell’esistente apparato produttivo, senza postularne un incremento quantitativo e qualitativo così massiccio da tradursi in radicale variazione di struttura.
Orbene, non neghiamo che la crisi abbia anche caratteri ciclici specie nell’economia dell’Alta Italia […] ma essi sono sovrapposti a una fondamentale crisi di struttura rivelata soprattutto dalla povertà del mercato interno […]; dalla immobilità (o meglio non regredibilità) del livello di disoccupazione; infine dalla precarietà artificiosa del nostro commercio con l’estero […] fondato sugli “aiuti” gratuiti e stornati dai mercati produttori di beni complementari.
Qualsiasi politica economica che non tenda a dilatare il nostro mercato interno e a spostare il nostro commercio con l’estero verso aree produttrici di beni complementari a quelli da noi prodotti è condannata alla sterilità: ma, per l’appunto, siffatti obiettivi non sono probabili senza una “politica di struttura” di cui sono direttrici indicative il risorgimento economico del mezzogiorno e il rafforzamento e l’espansione dell’industria meccanica. Se difatti la crisi possedesse preminenti caratteri ciclici e di congiuntura, non soltanto la sua soluzione postulerebbe un ritmo di investimenti meno accentuato di quello proposto dal piano confederale, ma non richiederebbe per essi altra selezione che non sia quella dettata dal regolatore automatico della redditività in termini di profitto privato.
[…] Non incentivi rivolti indiscriminatamente a tutte le attività produttive, senza alcuna selezione qualitativa, il che rappresenterebbe il rovescio – ma con gli stessi errori – della politica [monetarista] Einaudi del 1947 rivolta a deprimere gli incentivi all’investimento, ma sempre con manovra quantitativa e non selettiva; bensì investimenti selezionati su direttrici precise corrispondenti al massimo di utilità collettiva, individuata nella massima capacità di occupazione permanente, nella massima produttività di beni destinati al consumo delle classi povere, nel massimo incremento dato alla utilizzazione delle risorse produttive esistenti e sottoutilizzate, infine nella massima produzione di beni esportabili verso mercati permanenti e complementari.
In tale presa di posizione sono contenute ed implicite le seguenti conseguenze: 1) la preminenza data all’investimento pubblico rispetto a quello privato, come il solo suscettibile di determinarsi secondo il regolatore dell’utile collettivo e del profitto differito; 2) la persuasione che il risanamento della nostra arretrata struttura economica non può più essere la risultante della convergenza felice delle forze spontanee opportunamente stimolate, bensì il punto di arrivo di una direzione cosciente e responsabile. Profilato sotto quest’ultimo punto di vista non abbiamo difficoltà a consentire che il piano confederale è il primo passo di una vera e propria rivoluzione il cui sviluppo pacifico non dipende soltanto dalla Cgil. […]
Abbiamo detto sopra che il vero problema non è dove “trovare i soldi”, bensì come prevenire e fronteggiare la carica inflazionistica che qualsiasi programma massiccio e accelerato di investimenti comporta. Non esiste dubbio che la prima seria contropartita è rappresentata dal carattere stesso del piano confederale, dalla scelta cioè dei settori di investimento produttivo. Gli investimenti per esempio nella produzione idroelettrica e negli elettrodotti nazionali di collegamento e di compensazione comportano un energico e abbastanza rapido incremento del rendimento del lavoro e perciò una riduzione dei costi di produzione e dei prezzi sia per il mercato interno che per l’esportazione. Così gli investimenti nel settore dell’edilizia popolare comportano […] anche una efficace pressione nel diminuire il costo degli affitti, costo che incide sensibilmente […] sul bilancio della famiglia lavoratrice; gli investimenti in opere di bonifica, irrigazione, approvvigionamento idraulico implicano tutte le conseguenze di autofinanziamento […]. Infine tutti e tre i settori di investimento convergono felicemente a provvedere di maggior lavoro e – quel che più conta – di previsioni certe di lavoro per parecchi anni, il settore dell’industria meccanica e quelli collaterali, consentendo una riduzione drastica del costo di produzione unitario, contribuendo efficacemente alla diminuzione dei prezzi dei prodotti all’interno e all’aumento delle esportazioni in contropartita delle materie prime, semilavorati e viveri indispensabili per l’esecuzione del piano e per il sostentamento dei lavoratoti che vi sono occupati.
Affermare che “il piano finanzia il piano” altro non vuol dire se non che il valore della produzione da esso determinata sarà maggiore del suo costo […]. Per il finanziamento iniziale […] si può e si deve ricorrere al triplo strumento dell’imposta, del prestito pubblico, del credito; mentre le prime due leve hanno un significato (e nello stesso tempo un limite) nella misura in cui determinano una contrazione dei consumi voluttuari (o più esattamente dei consumi delle classi ricche: non importa che tale contrazione determini una disoccupazione nelle industrie produttrici di tali beni, larghissimamente compensata dalla maggior occupazione negli altri settori), la terza leva (il credito) per non essere dilapidata e stornata dai fini produttivi (perché si producano “centrali elettriche e non cinema di lusso”) ha bisogno di una energica, rapida, elastica e responsabile direzione; lo Stato ha i mezzi per realizzarla, proprietario com’è del più importante settore bancario: si serva – finalmente – degli strumenti di cui dispone, altrimenti sarò inevitabile la dispersione e l’inflazione. […]
Il successo del Piano è affidato come abbiamo notato espressamente alla stabilità dei prezzi nel corso della sua realizzazione […]. La realizzazione del Piano trova un ostacolo nelle strozzature monopolistiche […]. Nello stesso modo in cui del piano costituisce una parte essenziale un sistema di controllo e di manovra del credito, così fa parte altrettanto necessaria un sistema di controllo e di manovra dei prezzi indirizzato a garantire la stabilità […]. Può un tale piano essere raccolto e realizzato dall’attuale classe dirigente? La sola cosa che possiamo rispondere è che non è possibile realizzare il piano senza rompere alcuni legami di classe, la cui natura è apparsa nel corso di questa nota, e senza incidere nel sistema dei monopoli. Sotto questo profilo il piano confederale […] non si rivolge, ora, contro i monopoli in quanto detentori dell’apparato produttivo bensì in quanto limitatori obiettivi della produzione e determinanti di strozzature inibitrici degli investimenti produttivi. La sola cosa che possiamo sicuramente affermare è che esso costituisce la grande prova della raggiunta coscienza della classe operaia di essere capace di dirigere l’economia produttiva nel senso dell’interesse collettivo. Obiettivamente poi è la prova che la classe operaia è la sola vitalmente interessata alla risoluzione dei problemi della produzione e che a tale soluzione affidi non un maggiore o minor livello di benessere, ma il proprio avvenire e la sua stessa esistenza.”