di Renzo Penna
10/11 novembre 2001 – Torino
Intervengo su due questioni.
a) – La prima riguarda il partito, i Democratici di Sinistra, e la necessità di una ri-costruzione del partito del Socialismo europeo, in particolare, dopo il risultato elettorale deludente registrato nelle politiche dello scorso maggio.
Quel 16,6% che è bene non nascondere, come anche in questo congresso si è cercato di fare, dietro i risultati più lusinghieri dell’Ulivo. A questo proposito il Presidente del partito ha recentemente pronunciato parole di autocritica. Non essendo questa attitudine abituale in Massimo D’Alema è giusto prestare attenzione a quanto ha dichiarato.“Volevo contribuire a modernizzare il sistema italiano – ha detto il 3 ottobre u.s. in occasione della presentazione del libro di Giuseppe Vacca – ma ho preteso di farlo senza costruire un grande Partito del Socialismo Europeo, e quindi dall’alto. Cozzando contro un doppio ostacolo. Una svolta Pds librata nel vuoto e teorizzata in chiave radical-nuovista, e la legittima aspirazione di un pezzo del centrosinistra – ulivista e centrista – a voler risucchiare e rendere subalterna la sinistra riformista di radice socialista”. L’autocritica è riferita agli anni ‘97/’98 quando, da segretario, D’Alema dichiarava di aver esaurito il proprio compito e di “annoiarsi” in quel ruolo. Fu un’affermazione che ricordo bene e mi colpì negativamente poiché ritenevo, cosa della quale sono tuttora convinto, che l’impresa di costruire un nuovo partito, dopo la fine del PCI e l’implosione del PSI, dal basso e non in maniera verticistica, richiedeva, come richiede, un impegno straordinario e la necessità di un tempo certamente non breve.
Da allora sono passati alcuni anni e oggi è più difficile ricuperare le stesse condizioni. C’era una parte significativa dell’elettorato socialista in “libera uscita” e da conquistare. Ricordo che tra la prima e la seconda uscita elettorale (1992 e ’94) il Pds incrementò i suoi consensi del 4,3%, passando dal 16,1 al 20,4%. Non è difficile ritenere che tale aumento sia da attribuire a quella parte di elettorato socialista che, nonostante l’ultima fase del craxismo, aveva mantenuto un orientamento a sinistra. E’ questa la mia storia, come di molti altri, che in quegli anni si sono impegnati in campo aperto, lasciando gli approdi originali, in un lavoro di ricerca con l’obiettivo di unire la sinistra riformista, costruire un nuovo partito e non, come oggi si dice, per essere cooptati nei DS, ma per formare, insieme, un nuovo e plurale gruppo dirigente.
Non è andata così. I risultati sono, da questo punto di vista, deludenti. Ma l’idea di un gruppo dirigente chiuso e autoreferenziale che, nonostante le evidenti divisioni politiche, si difendeva e passava indenne e uguale dal PCI, al PDS, ai DS, si è dimostrata vulnerabile, non ha retto nei confronti delle campagne di Berlusconi “contro il comunismo e i comunisti” e costituisce una delle ragioni della sconfitta.
Dopo l’assemblea di Firenze la “cosa due”, nella sostanza, finì e il cantiere che doveva iniziare i lavori fu, invece, smantellato. E vennero le critiche che, va detto, in maggioranza sono state fatte da chi, nei DS, non aveva più fiducia nell’esistenza autonoma della stessa sinistra, ma pensava alla scorciatoia del partito democratico e in quel senso ha operato. Ricordo a proposito del destino poco brillante della “cosa due” l’amarezza, negli ultimi anni alla Camera, di una persona che ci ha da poco lasciati, parlo del prof. Antonio Ruberti. Il Rettore, in anni davvero difficili, dell’Università “La Sapienza” diede un contributo impegnato ai lavori del “forum della sinistra”, ma i suoi scritti sui temi della ricerca scientifica, dell’innovazione tecnologica, di assoluto livello, non sono però stati utilizzati e rimasti, con tutti gli altri, alla conoscenza di poche centinaia di persone.
Così, nella costruzione del Partito del Socialismo Europeo, in questo congresso, siamo, come si dice, nuovamente “punto e a capo” e le idee che circolano a me sembrano molto “povere”.
• Alcune si presentano più come espedienti tattici, giocati contro qualcuno, che concretamente in campo. Penso all’ipotesi “Amato” presidente dei DS. Giuliano Amato, per caratteristiche personali e storia politica difficilmente può essere pensato come “levatore dal basso” del nuovo partito.
• In altre siamo al corteggiamento di singoli personaggi, più significativi per i cognomi che portano che per le cose che dicono;
• O, ancora, alla unificazione con soggetti politici ormai privi di voti, ma con una nomenclatura che vuole essere garantita.
Manca, a mio parere, in questo congresso e tutte le mozioni su questo sono carenti, un progetto per la costruzione dal basso di un grande partito del socialismo europeo.
b) – la seconda questione sulla quale intervengo è anche la ragione di fondo che ha portato me, insieme ad altri compagni, a sottoscrivere la mozione di Giovanni Berlinguer. Rappresenta, come diretta conseguenza dello scarso radicamento del partito nella società, sul territorio e tra le persone, il limite maggiore registrato dai DS e un secondo rilevante motivo dell’insuccesso elettorale.
Riguarda la carenza dei valori, le insufficienze della identità, delle radici e, soprattutto, la disattenzione nei confronti del valore sociale del lavoro e dei lavori. Un tema, quest’ultimo, trattato spesso con superficialità, scarsa analisi e banalizzazioni del tipo: “Non ci chiudiamo nel lavoro dipendente”. Mentre, al contrario, occorre prestare attenzione non solo alla quantità, ma alla qualità del lavoro per sostenere una concezione della competitività nell’economia e nel sistema paese giocata sulla valorizzazione del lavoro e la qualità dei prodotti e delle produzioni. Per battere un’idea, oggi robustamente sostenuta, di una “competizione bassa” basata sulla compressione dei costi e la riduzione dei diritti dei lavoratori e delle persone. L’Italia è non casualmente, agli ultimissimi posti in Europa per gli investimenti, il particolare dei privati, destinati a ricerca scientifica e innovazione tecnologica.
Per non subire i valori della destra, la filosofia del “libro bianco” o del “manifesto” della Confindustria presentato a Parma – identici nell’impostazione anche perché scritti dalle stesse persone – e nei quali, ad esempio, la tutela dell’ambiente e il rispetto dei diritti sono considerati un ostacolo, e la “flessibilità” diventa una nuova ideologia.
A proposito di flessibilità segnalo uno scritto recente che confuta il presupposto, ripetutamente sostenuto, che l’Italia abbia urgente bisogno di maggiore flessibilità del lavoro per restare all’altezza degli altri paesi europei. “Di fatto, – recita il testo – da oltre dieci anni il mercato del lavoro italiano, con le sue componenti palesi e non, viene indicato dai ricercatori di altri paesi non come un modello in ritardo, bensì come un modello di flessibilità anticipatorio e meritevole di studio”. Così come le motivazioni che vengono generalmente sottaciute, ma sono strettamente connaturate alle richieste di maggiore flessibilità del lavoro:
1) “Le richieste di accrescere la flessibilità del lavoro sono in parte l’espressione, in parte la premessa di un attacco generalizzato al diritto del lavoro.”
2) “I lavori flessibili sono visti con favore anche perché contribuiscono alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative.”
Si tratta di Luciano Gallino né “Il costo umano della flessibilità”, del settembre 2001 per gli Editori Laterza.
La sfida a una “competizione alta” passa per la valorizzazione del lavoro, per la qualità delle occasioni di lavoro da offrire, in particolare, alle giovani generazioni. La riconferma di una radice, un rapporto più certo con il lavoro aiuta i Democratici di Sinistra a non subire, come è accaduto, i valori degli altri; a non contendere con la destra su temi astratti, ma rimanendo ancorata ai contenuti.
Cosa c’è di moderno nella cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Eppure, a sinistra, quante perplessità, convincimenti deboli e proposte sbagliate. Anche per questo nella scorsa legislatura le leggi sulla rappresentanza sindacale e le tutele dei lavori atipici non sono state portate a compimento, e oggi la loro mancanza rappresenta un limite.
Cosa c’è di moderno nel considerare conservatore Sergio Cofferati e il Sindacato confederale, quello riformista della politica dei redditi, nel sottovalutare il tentativo esplicito di isolare la CGIL e – nessuno si illuda – indebolire tutto il sindacato, con l’evidente obiettivo di smantellare il sistema pubblico e universalistico delle protezioni sociali. Per affermare un’idea di modernità scissa dai diritti e priva di rappresentanza collettiva, dove le persone non saranno certo più libere, ma più emarginate.
Sono, a mio parere, oggi in campo due idee opposte di società sulle questioni sociali ed economiche. E’ bene che la sinistra e, nella sinistra, i Democratici di Sinistra non abbiano esitazioni su quale scegliere e su quale combattere.