di Paolo Leon
Una approfondita riflessione sul perché Sinistra democratica ritiene che l’accordo sulle pensioni vada bene e quello sul Welfare no. Roma, 30 luglio 2007
In merito al “protocollo su welfare e lavoro”, è evidente che Prodi non ha capito le ragioni del nostro dissenso. Il Presidente ritiene di aver concluso una mediazione, nella quale vi è stato, a suo parere, uno scambio tra equivalenti che avrebbe dovuto soddisfare le parti in causa; si stupisce, perciò, sia della reazione della CGIL sia di quella della sinistra.
Guardiamo all’ormai famoso protocollo. Non c’è dubbio che non rispetti in alcun modo il programma di governo: ma dobbiamo essere realisti, e considerare che i programmi sono pezzi di carta, se non sono sostenuti dalla lotta politica. Interessa, qui, piuttosto far emergere la natura profonda di quel protocollo.
Ridurre gli oneri fiscali o contributivi sul lavoro straordinario è un forte arretramento della civiltà nei rapporti di lavoro. In pratica, si rende lo straordinario, che è già meno caro del salario ordinario, uno strumento potente nelle mani dell’impresa per allungare la giornata/settimana lavorativa, consentendo uno sfruttamento più intenso della forza lavoro. Mentre lo straordinario, a capitale costante, produce sempre un extraprofitto, l’allungamento incentivato ne crea uno maggiore. In generale, l’allungamento della settimana lavorativa peggiora la distribuzione del reddito, produce inevitabilmente risultati negativi sulla salute, favorisce gli infortuni, ha effetti negativi sull’occupazione (giovanile e non). Si può opporre che l’allungamento agevolato riduce i costi del lavoro, aumenta la produttività, e perciò favorisce la crescita della domanda interna ed esterna, ma non c’è alcuna relazione automatica, e nemmeno stretta, tra il maggiore sfruttamento e l’aumento della domanda dei prodotti dei lavoratori più sfruttati. Al contrario, ambedue i partecipanti al tavolo della concertazione, hanno ripetutamente affermato che la competitività dipende dalla ricerca e dall’innovazione, non dalla riduzione del costo del lavoro: tante volte si è detto, infatti, che il costo del lavoro nei paesi sviluppati non potrà mai far concorrenza a quello della Cina o dell’India. Da ciò deriva una conclusione: con la politica sull’orario straordinario cresce la probabilità che aumentino gli esuberi, specie nella grande impresa, e ciò conduce a ritenere che una motivazione di questa politica consista nel sussidiare l’alleggerimento della manodopera da parte delle imprese. Prodi e Damiano debbono aver pensato che la riduzione dello scalone e l’aumento del sussidio di disoccupazione andavano bilanciati con questa misura a favore delle imprese
Si può legare a questo scambio, infatti, l’altra politica avanzata in questo periodo. Si riafferma il principio della flexecurity, naturalmente all’italiana. Ciò che distinguerebbe la flessibilità dal precariato, sarebbe il fatto che con la flessibilità il licenziamento si accompagna ad ammortizzatori sociali “decenti”, mentre il precariato si accompagna a ammortizzatori sociali deboli e insufficienti. L’idea che il posto di lavoro sia equivalente al sussidio di disoccupazione, fa del welfare una macchina di beneficenza pubblica: il lavoratore non è in possesso di diritti, ma del bugliolo della carità pubblica, Anche se si pensa di elevare il sussidio al 70-80% del salario (ma non ci sono i fondi pubblici per questo), la famiglia perde comunque dal 30 al 20% dello standard di vita, e sarà costretta al lavoro nero, per mantenere quello standard.
Ora, il sussidio di disoccupazione è uno strumento perfettamente legittimo dello Stato sociale: ciò che lo distingue dalla beneficienza pubblica (il welfare residuale), è la sua applicazione a lavoratori con contratti a tempo indeterminato (e full time). Il sussidio ha una valenza macroeconomica, in quelle circostanze: tende a mantenere il livello della domanda da salario, e ostacola crisi, depressione e ciclo negativo. Così, non è un semplice aiuto alle famiglie in difficoltà, ma una vera politica economica. Invece, con migliori ammortizzatori, ma con contratti di lavoro flessibili, le imprese saranno fortemente incentivate a licenziare, e il sussidio diventa una forma di protezionismo non tariffario.
Se ora mettiamo insieme lo sgravio sullo straordinario e il miglioramento degli ammortizzatori, si noterà subito come si voglia iniziare un periodo di grande mobilità del lavoro: si pensa, evidentemente, che quanto più il lavoratore è indifeso, tanto maggiore sarà la sua produttività.
In questo modo, si rafforza profondamente l’asimmetria nel potere contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro; corrispondentemente, si riduce il potere sindacale, e il sindacato perde la sua caratteristica di attore macroeconomico.
Dobbiamo chiarire anche il nostro punto di vista sulla riforma delle pensioni. Questa è certamente criticabile, ma non cambia strutturalmente il sistema italiano. Anche se si è allungata la vita lavorativa, tuttavia il sistema pubblico resta ancora parte dello Stato Sociale italiano. Qui, semmai, il punto è culturale. Non è lecito sostenere che il sistema pensionistico pubblico deve necessariamente autofinanziarsi: poiché fa parte dello Stato Sociale Universale, è certamente finanziabile dal bilancio pubblico, quando le cause di possibile difficoltà finanziaria del sistema non sono attribuibili ai lavoratori. Il fatto che il sistema pubblico sia diventato contributivo da retributivo che era, non toglie nulla alla sua caratteristica di componente dello Stato sociale; in causa, con la riforma Dini era il suo finanziamento, non la sua natura. E se il sistema Dini non funziona, non è ai lavoratori che occorre rivolgersi in prima istanza. Certo, l’invecchiamento rende fattibile l’allungamento della vita lavorativa: ma la decisione è scientifica, non politica, perché varia il modo come si invecchia a seconda di come si lavora. Così, benché l’accordo recente aumenti il numero di lavoratori “usurandi”, sarebbe stato più logico chiedere ai medici del lavoro e ai ricercatori quali categorie e quali tipi di mansioni andavano protette. Più importante, e lo diciamo da tempo, una visione non meramente finanziaria della previdenza, di fronte all’invecchiamento, non ne dà la responsabilità ai vecchi, ma alla disoccupazione dei giovani, all’inoccupazione delle donne, alla disoccupazione di lunga durata, al Mezzogiorno: tutte coorti di potenziali lavoratori contributori del sistema previdenziale pubblico, ma estraniate dal lavoro da un mercato che non li include. Se proprio si deve trovare un responsabile, questo è nel sistema delle imprese, che non si sviluppa abbastanza, non assume e, perciò stesso, non contribuisce alla previdenza. Non voglio dire che dobbiamo tassare le imprese per l’eventuale gobba della spesa previdenziale, ma è chiaro che non si possono agevolare le imprese, come nei due punti precedenti, se la conseguenza è quella di rendere la gobba ancora più alta.
Ho trattato solo i temi all’ordine del giorno. Ma l’occasione serve per chiarire tra noi quali siano i punti non negoziabili in un governo di centrosinistra. Qualsiasi cosa sia la Sinistra democratica, è certamente un movimento del lavoro, non del capitale, del padronato, della cattiva distribuzione dei redditi, del classismo, e via peggiorando. Siamo per la concertazione, ma non per la carità pelosa.