di Mauro Beschi
Roma 1 febbr. 2010
In Italia, il reddito da lavoro sul Valore Aggiunto è passato dal 68% del 1976, al 61% del 1992, al 53% del 2007; 20,5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 € al mese e, di questi, 7 milioni ne guadagnano meno di 1.000 (60% donne); le ritenute sul lavoro dipendente sul gettito Irpef totale è passato dal 66,9% del 1980 al 74% del 2008; il PIL pro capite, fatto 100 il dato EU 17, è stato, da noi, del 117,8 nel 2001, del 99, 5 nel 2008, con una previsione per il 2009 che si riduca ancora al 98,8; il Tasso di occupazione generale è al 57,1%, meno 1,1 sull’anno precedente ma 11,3% sotto il vincolo della Strategia di Lisbona e 8,6 % meno della media UE e il tasso di occupazione femminile è al 46,7%, 13 punti sotto Lisbona; il tasso di disoccupazione ha superato l’8,5 % (+1,3 % rispetto al 2008) e quella giovanile è al 26,9% (+ 4,9% sul 2008), ma la disoccupazione reale, quella che tiene conto anche di coloro che non entrano, per varie ragioni, nella rilevazione ufficiale è intorno al 12%; 3,5 milioni di precari (1 occupato su 8 sta ai margini), 4 milioni interessati a diverse forme di lavoro nero, 2 milioni con contratti a tempo determinato.
Questi sono i dati parziali e schematici che evidenziano l’emergenza della questione lavoro, un emergenza drammatica anche per il fatto, molto allarmante, che la tendenza mostra un ulteriore peggioramento, nonostante si parli di fine della crisi.
Una crisi che ha disvelato la fragilità della “narrazione dominante” che ci parlava del fallimento dello Stato, delle performances delle politiche deregolative, della meravigliosa perfezione del mercato che tutto riguarda e tutto risolve. Una visione che portava con sé il dominio dell’economia sulla politica, lo spostamento dei rischi sociali dallo stato ai Cittadini e dall’impresa al lavoro, con l’esplosione della precarietà e la rottura della coesione e della solidarietà sociale. In questo quadro si è prodotta una trasformazione culturale che ha favorito risposte leaderistiche e pulsioni individualistiche, le quali hanno rinfocolato politiche populistiche, un indebolimento della tensione civile, la irrilevanza crescente del ruolo dei corpi intermedi e della rappresentanza sociale, con un crescente impoverimento delle forme concrete della democrazia.
La crisi ha evidenziato anche la direzione dei cambiamenti necessari che dovranno essere incardinati su un rilancio della responsabilità pubblica ( la buona politica ) e sul perseguimento dell’eguaglianza, non solo in ragione di pur fondamentali domande di giustizia ed equità sociali, ma per un obiettivo di efficienza economica indirizzata verso una trasformazione dei modelli economico, produttivo e dei consumi di cui parlava, molti anni, fa Riccardo Lombardi quando evocava la necessità di ricostruire “una società diversamente ricca”.
In questa comunicazione cercherò di delineare gli aspetti generali sui quali costruire una nuova politica per il lavoro evidenziando da subito la necessità di riprendere, con successivi specifici approfondimenti,la riflessione sulle diverse e complesse questioni che stanno di fronte a noi, con il compito di identificare le soluzioni più opportune ed efficaci.
Per questo proporrò 6 terreni di riflessione tra loro collegati e reciprocamente influenti:
1 – Il primo bisogno riguarda la necessità di dare valore e sviluppare nuove politiche pubbliche per ridisegnare strategie economiche, industriali, redistributive e sociali fondate sul vincolo della piena e buona occupazione. Occorre infatti avere ben presente come la drammatica condizione che segna oggi il lavoro sia il portato di un idea liberista che ha segnato una lunga pratica di rapporti economici, produttivi e sociali e che una riscossa del lavoro per riconquistare ruolo, peso e visibilità non può essere perseguibile se non accompagnata da un concreto salto di fase;
2 – In questo quadro diventa necessario porre l’attenzione sulla necessità di riconquistare un tessuto di relazioni istituzionali e industriali in grado riconoscere e valorizzare il ruolo dei corpi intermedi, la loro rappresentanza e i loro poteri, a partire dalle rappresentanze del mondo del lavoro.
Democrazia economica intesa come riconquista di pratiche di partecipazione alle scelte di sviluppo del Paese, delle sue condizioni di riorganizzazione produttiva, delle sue esigenze di eguaglianza e tutela sociale.
Democrazia industriale come terreno di sviluppo di un ruolo dei lavoratori dentro l’impresa, ruolo che non può essere ricondotto, come avviene nella discussione attuale, a modelli che hanno l’unico scopo di riversare sul lavoro i rischi di impresa, ma come occasione per utilizzare poteri e saperi del lavoro per costruire in modo partecipato condizioni di efficienza, qualità e responsabilità nella concreta vita d’impresa, dando attuazione all’ Art. 46 della Costituzione laddove sostiene che “ la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle Leggi, alla gestione delle aziende”;
3 – Occorre dare risposte, non raffazzonate o puramente evocative, all’enorme problema della frammentazione del lavoro, alla caduta di riconoscimento dei suoi diritti ed alla riduzione delle sue tutele, avendo la consapevolezza che occorrerà fare una lettura non superficiale sia del processo che ha portato a questa situazione, sia degli strumenti, o meglio, dell’equilibrio tra gli strumenti (legge e contrattazione) da utilizzare per ricercare soluzioni concrete ed adeguate.
Non vi è dubbio che uno dei temi, poco discusso ma, a mio avviso, di enorme portata sul quale occorre soffermarsi riguarda la crisi del modello di diritto del lavoro affermatosi in Europa ed in Italia negli ultimi 40 anni.
Quel modello fondava la sua azione sul principio che nel rapporto contrattuale tra lavoratore ed impresa era presente una “asimmetria di poteri” e che il Diritto del lavoro si poneva il compito di riequilibrare lo svantaggio della parte più debole. Ora, da più di un decennio, ha preso corpo una teoria, con conseguenti e crescenti conseguenze pratiche, secondo cui una regolazione forte sarebbe poco efficiente per le necessità dello sviluppo e della competizione arrivando a sostenere che soluzioni meno vincolanti di leggi e contratti renderebbero più efficace e libera la pattuizione tra lavoratori ed impresa. Questa concezione ha portato a sostenere che questa specifica tipologia di contratto che è il rapporto di lavoro, dovrebbe essere regolata attraverso quella parte del Codice Civile che riguarda i rapporti commerciali. La esplicitazione che il lavoro non è altro, puramente e semplicemente, che una merce.
Senza la sconfitta di questa idea che relega il lavoratore in un perimetro individualistico, senza riconoscerne la funzione sociale e senza avere coscienza che il lavoro e la sua tutela pretendono una dimensione collettiva, sarà molto difficile rimontare la situazione.
Vi è poi la necessità di ridare centralità e sostegno, cosi come stabilito dagli indirizzi UE, al rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato quale prima condizione per una decisa riduzione delle numerose tipologie di rapporto di lavoro al fine di superare quel supermercato di strumenti che, se non riportati ad obbiettive e riconosciute esigenze produttive od organizzative, portano all’esplosione della precarietà.
Quindi poche tipologie di rapporto, sottoposte a vincoli di causalità molto stretti, e maggiormente retribuite in ragione della loro flessibilità rispetto al lavoro standard.
Sarebbe assai importante puntare su politiche di formazione continua e, soprattutto per i giovani, prevedere forme di interazione tra attività formativa e modalità di inserimento nella attività lavorativa, prevedendo veri e propri contratti a finalità formativa.
Ma la riorganizzazione delle diverse forme del rapporto di lavoro non sarebbe sufficiente senza un radicale intervento sul tema del lavoro nero e dell’economia marginale che coinvolgono dai 5 ai 6 milioni di lavoratori, intervento che deve partire, oltre che da un maggior rigore della Legge e dei controlli, dalla modifica di quegli strumenti che offrono la possibilità di destrutturare la dimensione produttiva o dei servizi al solo fine aumentare profitti devastando salari e tutele; mi riferisco alle varie forme di esternalizzazione, alla “cessione di ramo d’impresa” e, per i servizi pubblici, agli appalti al massimo ribasso che oggi rappresentano la “pistola fumante” per politiche di riorganizzazione che, essendo fondate solo su un maggiore tasso di sfruttamento, rendono più ingiusta e più debole la prospettiva di un Paese che può essere competitivo solo in ragione di qualità e innovazione.
Un secondo aspetto delle politiche per la tutela del lavoro è rappresentato dalla esigenza di una riforma generale degli ammortizzatori sociali. Occorre garantire un nuovo sistema universale di ammortizzatori sociali e di tutele, fondato sul principio che il lavoro va difeso e non reso più facilmente eliminabile in caso di difficoltà. In tale ambito il ricorso agli ammortizzatori sociali va connesso all’insieme delle politiche attive del lavoro (composte da interventi di formazione, riqualificazione, valorizzazione delle competenze comunque acquisite) e deve coinvolgere, proprio per garantirne quella universalità che oggi manca, tutte le tipologie di lavoro e tutti i settori economici affinché l’appartenenza settoriale, la dimensione d’impresa e la tipologia dei contratti di lavoro non diventino elementi di esclusione.
Nella discussione sulle forme di sostegno al reddito assume un suo rilievo la proposta del salario minimo. E’ sicuramente un tema che assume un certo fascino, tuttavia sarebbe utile inquadrarne praticabilità e prospettive avendo presente le sue relazioni con il quadro generale economico-sociale e con le condizioni della rappresentanza e della azione contrattuale dei Sindacati confederali;
4 – Un ulteriore questione oggi diventata centrale è quella della politica contrattuale e redistributiva.
Occorre subito dire che le condizioni derivanti dalla tipologia produttiva italiana rendono assai complicata una redistribuzione dei redditi esclusivamente caricata sulla contrattazione.
Occorre integrare la politica contrattuale con azioni redistributive sul versante fiscale e dei servizi pubblici.
Una analisi sulla funzione avuta dall’ Accordo di politica dei redditi sottoscritto nel 1993 ci dice che esso ha avuto successo nell’impedire una implosione del Paese ed ha creato le condizioni perché la successiva entrata nell’ Euro fosse perseguibile, ma, altrettanto onestamente, occorre dire che non ha consentito di contrastare e correggere la negativa redistribuzione del reddito a danno del lavoro.
Infatti senza un serio impegno politico per indirizzare e controllare (la programmazione) le variabili economiche determinanti, qualsiasi politica dei redditi diviene incapace di tutelare la parte debole del patto.
Sul versante della contrattazione il problema decisivo è quello di come affrontare due grandi questioni: il suo rafforzamento e la sua estensione di fronte ad un processo di frantumazione, accentuato dalla crisi, che rende più povera e debole la capacità di intervento e di tutela, e la necessità di riorganizzare e rendere più efficaci gli strumenti della contrattazione collettiva. E, in questa direzione che occorre assumere, come priorità, gli obiettivi di difendere e migliorare i salari e di intervenire sulla Organizzazione del lavoro che rappresenta una delle condizioni per dare qualità e tenere insieme sviluppo competitivo dell’impresa, valorizzazione del lavoro ed efficacia redistributiva.
Si è molto discusso sul ruolo del CCNL e della contrattazione integrativa, talvolta mettendoli in contrapposizione tra loro; in realtà per una concreta e generale azione di redistribuzione non può essere indebolito il CCNL a fianco del quale, tuttavia, va sicuramente valorizzata una contrattazione di secondo livello rafforzata ed estesa al fine di governare meglio le trasformazioni d’impresa ed il rapporto tra produttività e salario. Quello che non si può fare, perché in contraddizione con la stessa necessità di rafforzare il peso del lavoro e la azione redistributiva, è di aderire ad una visione, che rischia di diventare subalterna, fondata su un modello che assume solamente le esigenze dell’impresa e ribalta sul lavoro la soluzione delle diverse contraddizioni determinate dalle condizioni di mercato.
A questo proposito sarebbe utile riprendere le osservazioni svolte da Sylos Labini laddove metteva in evidenza l’importanza dell’azione sindacale e contrattuale per favorire la innovazione tecnologica, la qualità e la produttività d’impresa.
Un ultima osservazione su questo tema riguarda la contrattazione territoriale sia come occasione per allargare ai lavoratori delle piccole imprese la pratica negoziale, sia come opportunità di implementare la possibilità di mettere in relazione la azione di tutela dentro l’impresa con le politiche di sviluppo e di intervento sociale nel territorio;
5 – Questo bisogno di riannodare il filo per conquistare efficaci politiche del lavoro e di contrastare i ricorrenti tentativi di svuotamento della rappresentanza sociale ci portano a dover affrontare il tema del rapporto coi lavoratori, della democrazia e della rappresentanza sindacale.
Tematiche che richiedono risposte non accomodanti e rapide per evitare che la crisi, con le sue lacerazioni e le sue incertezze, produca incomprensioni, arretramenti e fin anche una frattura tra lavoratori e loro rappresentanze.
Occorre in primo luogo favorire un rinnovato protagonismo dei lavoratori, della loro volontà di partecipazione, del loro diritto di decidere sulle scelte del Sindacato, a partire dalla discussione e dalla approvazione degli accordi.
Un protagonismo che deve trovare forma in primo luogo nelle rappresentanze di base e nel recupero della loro capacità negoziale.
In questa dimensione diviene necessario trovare una soluzione all’esigenza di regolare la rappresentanza, almeno per tre ragioni:
- per consolidare il ruolo sociale delle OO.SS. e rivendicarne, con più forza, il riconoscimento ed il coinvolgimento nelle scelte economiche e sociali, nel Paese e dentro l’impresa;
- per rafforzare la pratica della contrattazione e per conseguire l’estensione “erga omnes” dei Contratti;
- per aiutare, sulla base di verifiche trasparenti e condivise delle reciproche rappresentatività, a offrire legittimazione democratica agli accordi, soprattutto di fronte a contrasti o divisioni tra Sindacati;
6 – Per ultimo, ma non certo perché meno importante, occorre interrogarsi sull’abdicazione della politica a rappresentare il lavoro.
Sembra quasi che, con la caduta del muro di Berlino, per una parte grande della sinistra sia finita la storia e che questo abbia portato, insieme alla mitizzazione della globalizzazione, a considerare ormai impraticabili le vecchie idee di eguaglianza, emancipazione, riforme, socialismo.
Tutto veniva visto come improvvisamente invecchiato e inutile e, di fronte al turbo capitalismo, non rimaneva altro che la riduzione del danno.
Per essere onesti questa crisi di identità ha attraversato pesantemente l’intero schieramento della sinistra italiana ed europea e il nuovo paradigma della modernità doveva sacrificare un lavoro già insidiato dalle impegnative sfide del cosiddetto post-fordismo e dalla egemonia degli interessi economici e finanziari e che, per questo, diventava politicamente marginale ed irrilevante.
Ma se questa involuzione poteva essere spiegata per il passato, oggi, la lettura di questa crisi, l’evidenziazione della gracilità e dei limiti delle vecchie risposte, dovrebbe far riemergere un diversa lettura.
Dopo la crisi è necessario riconciliare la sinistra con il lavoro; non con giaculatorie e proclami tanto altisonanti quanto inutili, non rincorrendo i temi che di volta in volta circostanze casuali propongono alla ribalta, ma attraverso la comprensione dei processi profondi che segnano la condizione dei lavoratori e la elaborazione di progetti coerenti e credibili che inizino a modificare le condizioni mortificanti dell’oggi per costruire nuove speranze e nuova partecipazione.
Oggi, la scelta di partire dal lavoro come impegno per interpretare gli orizzonti di un nuovo soggetto della sinistra riformatrice rende onore alla nostra storia ed alla nostra coerenza di socialisti.