A meno che non si possa far ricorso a guerre, rivoluzioni e altri eventi grandiosi o catastrofici, è difficilissimo portare sullo schermo (o sulle pagine di un romanzo) la vita di un uomo politico, che consiste per la maggior parte di riunioni, telefonate, spostamenti, e ancora riunioni in cui gli stessi discorsi vengono tessuti e ritessuti all’infinito. Nemmeno l’oratoria può arrivare in soccorso come una volta: non siamo più ai tempi di Tucidide, e nelle democrazie moderne il divario tra le parole e le loro conseguenze concrete è sempre più sfuggente ed opinabile. È necessario trovare degli schemi narrativi efficaci, vale a dire delle situazioni, limitate nel tempo e nello spazio, in cui, per così dire, tutti i nodi vengono al pettine. Bisogna insomma rintracciare e rappresentare quei particolari momenti di intensità che sono capaci di rivelare il senso profondo di un’intera vita pubblica. Sono riusciti egregiamente in questa impresa Giancarlo Governi e Marco Perisse, autori di un trattamento cinematografico intitolato «Non ho tempo», e dedicato a Giacomo Brodolini, dirigente sindacale, parlamentare socialista e ministro del lavoro, nato a Recanati nel 1920 e morto in una clinica di Zurigo a soli 49 anni, l’11 luglio del 1969. Spero proprio che il film (prodotto da Gianpaolo Sodano) vada in porto nel migliore dei modi: come cercherò di spiegare racconta una storia davvero interessante, e non solo per i suoi ovvi risvolti politici e sociali.
Con gli operai
Nei libri di storia e nelle enciclopedie Brodolini è il ministro che concepì (con la collaborazione fondamentale del giurista Gino Giugni) e impose alla sua stessa maggioranza di governo lo Statuto dei Lavoratori, finalmente convertito in legge, la famosa legge 300, nel maggio del 1970. Viene spesso ricordato anche il capodanno del 1968 passato assieme agli operai della Apollon in sciopero, in un tendone eretto a via Veneto: un fatto che all’epoca destò scandalo, così come la sua solidarietà ai braccianti siciliani di Avola, che lottavano contro il caporalato e le famigerate gabbie salariali. E non può essere dimenticata la sua lucidissima, intransigente protesta, quando era ai vertici della Cgil, contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, in netto contrasto con la filosofia che vedeva nei sindacati una semplice «cinghia di trasmissione» degli orientamenti e delle decisioni dei partiti. Di lui si può dire che il suo slogan più celebre («Da una parte sola. Dalla parte dei lavoratori») fu tutt’altro che uno slogan, ma un destino, una questione di vita e di morte.
Il ruolo voluto
Tra le tante fotografie che si trovano facilmente in internet, mi piace soprattutto una che lo ritrae a Recanati, nell’immediato dopoguerra, in compagnia di Joyce Lussu, in occasione di un comizio elettorale, con l’eterna (e fatale) sigaretta in bocca: una specie di Jean Gabin sindacale, non bello ma sicuramente affascinante. Ne ho anche un ricordo privato, che fatalmente si mischia alle notizie pubbliche: Giacomo Brodolini era mio zio, e in famiglia su quell’uomo testardo e proteso all’avvenire circolavano molte leggende. Ma leggendo il lavoro di Governi e Perisse, la storia di zio Giacomo mi è apparsa in una luce totalmente diversa, e talmente commovente che voglio provare anche io a raccontarla per quello che è stata: una sfida alla morte, un appuntamento con il Fato che, al di là dei suoi significati storici e politici, ha un sapore antico, che non esito a definire eroico. Se dovessi indicare un epicentro, o meglio un fulcro di tutta la vicenda, sceglierei lo studio di un medico, a Roma, nell’autunno del 1968. Uno di fronte all’altro, stanno il paziente, che è Giacomo Brodolini, da pochi mesi eletto senatore nelle file del PSU, e il medico, di cui non conosco il nome, e che ha pessime notizie: le peggiori che si possano dare a un paziente. Brodolini ha un tumore ai polmoni, con metastasi arrivate alla gola. La sentenza è inappellabile: gli rimangono pochi mesi di vita. È una scena terribile, che si ripete ogni giorno, ogni ora in ogni angolo del mondo: ma questo non toglie nulla alla sua unicità, perché ogni essere umano reagisce a modo suo di fronte agli eventi supremi.
Immagino il giovane senatore (a luglio aveva compiuto quarantotto anni) che, uscito dallo studio del medico, vaga stordito per le strade di Roma, forse già addobbata per le feste di quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Sicuramente pensò a quanto poco fosse il tempo che gli restava: mesi, settimane ? Ma assieme a quel pensiero, deve pure essercene stato un altro, che non smentiva il primo, ma gli dava un altro senso: era ancora vivo, come tutta la gente intorno a lui, e nessuno dei suoi simili avrebbe potuto prevedere con certezza quanto tempo gli restasse. Bisogna anche sapere che erano giorni molto intensi e agitati, nel mondo politico: si lavorava alla formazione di un governo di centrosinistra, il cui presidente sarebbe stato Mariano Rumor. Ai socialisti spettavano alcuni ministeri importanti, e uno di questi sarebbe facilmente andato a Brodolini. Ma lui, in quelle ore terribili, aveva fatto la sua scelta, e la impose ai compagni di partito, a partire dal segretario socialista, Francesco De Martino. Volle un ruolo che, almeno sulla carta, era meno importante di altri che gli venivano offerti: e il 12 dicembre del 1968 divenne ministro del lavoro e della previdenza sociale. Era la posizione che gli avrebbe consentito, nel poco tempo che gli rimaneva, di portare a termine il compito
che si era assunto fin da giovanissimo, quando arrivò a Roma a dirigere il sindacato dei lavoratori edili. Ed era l’occasione, più unica che rara, di conferire un senso a un’intera vita. Ogni giorno che passava, a quel punto, era prezioso.
Sono queste le condizioni drammatiche in cui fu concepito, scritto e infine convertito in legge lo Statuto dei Lavoratori.
L’ultimo gesto
Oggi possiamo affermare che lo Statuto dei Lavoratori mise l’Italia all’avanguardia della vita civile e sociale in Europa e nel mondo. Ma in quei sei mesi che per Brodolini furono un terribile conto alla rovescia, nemmeno gli alleati di governo, nemmeno i comunisti si erano resi pienamente conto dell’importanza della posta in gioco, che era quella di tradurre in una legge, con tutti i suoi articoli limpidamente espressi, lo splendido articolo 1 della nostra Costituzione: l’Italia è una repubblica democratica «fondata sul lavoro».
Ma cosa significa, in pratica? I princìpi sono sacrosanti, ma vanno riempiti di contenuti effettivi: nel caso specifico, di diritti, imperniati sulla dignità dei lavoratori. In quest’ultima battaglia trascorsero gli ultimi sei mesi della vita di Giacomo Brodolini. Morì l’11 luglio del 1969, in una clinica di Zurigo dove si era ricoverato per tentare un ultimo intervento chirurgico. Una fotografia lo ritrae all’ingresso della clinica, con qualche leggero bagaglio sulla spalla e ancora una sigaretta che pende dalla bocca.
L’ultimo gesto che fece fu firmare lo Statuto. Quando penso alla storia di mio zio mi viene sempre in mente il tempo: l’uso che ne facciamo, la quantità che pensiamo di avere a disposizione. Ho ormai superato di molto l’età raggiunta da Brodolini, ma ancora continuo a perderlo, a rimandare i compiti importanti che pure mi sono assegnato. Non me ne faccio nemmeno una colpa: ognuno vive come sa vivere, e non può diventare un altro. Ma l’idea di quei sei mesi finali e della marcia a tappe forzate che condusse allo Statuto dei Lavoratori mi sembra un simbolo così luminoso dell’esistenza umana che vorrei che tutti lo conoscessero, nella sua grandiosa semplicità. Si dice sempre che la politica e i fatti privati dovrebbero essere due sfere il più possibile distinte, e forse in
generale è vero, ma questo mi sembra un caso assolutamente virtuoso di coincidenza tra le condizioni personali e la vita pubblica. Tante cose su Giacomo Brodolini le ho apprese da sua moglie, Vera, che gli è sopravvissuta a lungo curando la sua memoria.
Era un uomo colto, fiero di essere un concittadino e un omonimo di Giacomo Leopardi. Amava la pittura italiana moderna, e i libri rari. Mia zia mi ha regato un cimelio che conservo sulla mia scrivania, usandolo come fermacarte. È una pesante medaglia di bronzo, in bello stile modernista, che gli fu donata da un sindacato di metalmeccanici americani, da quello che capisco una specie di FIOM d’oltreoceano. Sul retro c’è scritto: con le mani costruiamo automobili, aerei e strumenti agricoli, e con il cuore costruiamo un futuro migliore. I tempi sono talmente cambiati che non so immaginare cosa avrebbe pensato oggi Giacomo Brodolini di tante cose che accadono, e attribuire opinioni ai morti mi è sempre sembrato un gioco macabro e insensato. Ma di una cosa sono sicuro: l’unione dell’abilità delle mani e della lungimiranza del cuore è un’immagine del bene che va a tutti i costi preservata e tramandata.
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