Antonio Lettieri da “Eguaglianza & Libertà”
Uno dei meriti più evidenti di un regime democratico è che il periodico svolgimento delle elezioni consente di definire la continuità o l’alternanza dei governi. Ciò è particolarmente evidente nel sistemi bipartisan come negli Stati Uniti e, con alcune variazioni, in Giappone e, fino in tempi recenti, in Germania nel Regno Unito, dove uno dei due partiti principali può, da solo o in coalizione con un secondo partito, formare un nuovo governo.
Nel caso dell’Unione europea, la maggioranza del Parlamento europeo è stata stabilmente formata, nel corso di 40 anni, da due partiti dominanti: il conservatore e il socialdemocratico. La novità è che con le elezioni di maggio questi due partiti per la prima volta non hanno più la maggioranza assoluta. Una svolta storica importante. Ma che non impedisce la creazione di una nuova maggioranza, ricorrendo a uno o due partiti collaterali su una piattaforma comune sostanzialmente orientata alla continuità della vecchia politica europea. Tomasi di Lampedusa, autore del “Gattopardo”, avrebbe potuto ribadire, riferendosi alle elezioni europee di maggio, che “se vogliamo che le cose rimangano come sono, le cose dovranno cambiare”. Ma i risultati elettorali ci forniscono effettivamente un quadro in grado di avvalorare una prospettiva di pura continuità? Se diamo uno sguardo ai principali quattro paesi dell’Unione europea, che da soli comprendono la maggioranza della sua popolazione, i colori diventano molto più sfumati e il futuro molto meno certo.
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