di Renzo Penna
27 dicembre 2009
Quelli della Innse
Hanno iniziato in estate quelli della Innse di Milano a salire sul carro ponte, sotto le lamiere roventi del capannone, per difendere fabbrica e lavoro. Hanno proseguito in molti in tutto il Paese con proteste nuove in difesa dell’occupazione. Cercando, con il gesto clamoroso, di richiamare l’attenzione della politica e dell’informazione sulla loro drammatica condizione. Dai precari della scuola, dagli impiegati dell’Agile ex Eutelia, quella che un tempo era stata l’Olivetti, agli operai della Merloni di Fabriano, in centinaia di realtà lungo lo stivale a segnare un anno orribile per i lavoratori. Secondo la Cgil 570 mila i posti di lavoro bruciati nei ventiquattro mesi; di questi 300 mila erano precari: una media di 50 mila posti in meno al mese. E centinaia di migliaia i lavoratori in cassa integrazione, con un salario di 700-800 euro al mese, quelli che nel governo qualcuno considera dei “privilegiati”. L’anno sta finendo al freddo, nella delusione degli operai Fiat di Termine Imerese, dopo la manifestazione in piazza Montecitorio a Roma, per il destino senza futuro che Marchionne ha ufficializzato per la loro fabbrica. E ancora sui tetti per i ricercatori dell’Ispra della capitale, nella ostentata indifferenza del Ministro all’Ambiente, o, in compagnia della neve, per i quattro operai della Yamaca di Lesmo che, alla vigilia di Natale, sono potuti scendere dopo aver conquistato, senza l’aiuto di Valentino Rossi, il diritto alla cassa integrazione per tutti i dipendenti a rischio di licenziamento. Queste, insieme a mille altre, le risposte dei lavoratori alla crisi, i quali, se non bastasse, devono fare i conti anche con un sindacato diviso. A novembre in piazza del Popolo a Roma l’ultima manifestazione dell’organizzazione di Guglielmo Epifani per chiedere all’esecutivo misure più efficaci contro lo stato dell’economia, per l’occupazione e la riduzione del peso fiscale sul lavoro dipendente e le pensioni. Ma il Governo, che per lungo tempo ha cercato addirittura di negare l’esistenza della recessione e con le risorse delle Regioni si è occupato solo di finanziare i tradizionali ammortizzatori sociali, oggi invoca il ritorno ai consumi e alla crescita, come se nulla fosse successo. Mentre l’economia reale stenta a riprendersi, la disoccupazione si prevede aumenterà ancora nel corso del 2010 e saranno necessari molti anni per tornare ai livelli che hanno preceduto la crisi. Come è già accaduto in passato.
La centralità del lavoro
Ma cosa dice questa situazione, che ha riproposto come centrale il tema del lavoro e della disoccupazione, alle forze della sinistra. Quali riflessioni reclama l’incertezza presente del e nel lavoro che è diventata la costante condizione di vita per milioni di giovani, di donne e di “normali” lavoratori. Mentre la precarizzazione è esplosa ci si può ancora accontentare solo di ripetere, per dirla come Piero Fassino: che un conto è la flessibilità del lavoro che va garantita mentre la precarietà deve essere combattuta? O non è il caso di alzare lo sguardo e prendere atto che da anni è in atto un attacco preordinato nei confronti dei diritti e delle tutele del lavoro, frutto delle conquiste sindacali e legislative degli anni ’60 e ’70. E riconoscere che questa offensiva, sostenuta dalle nuove politiche conservatrici e rivolta contro il lavoro e i sistemi di welfare, si è insinuata, ha trovato spazio e giustificazione, se non esplicito sostegno, anche nella cultura politica della sinistra.
Come sostiene Antonio Lettieri[1] – un sindacalista esperto ed uno studioso dei temi legati al lavoro – la sinistra ha subito l’idea, sbagliata, per cui la globalizzazione e la rivoluzione informatica imponevano la deregolazione dei mercati, lo schiacciamento dei salari, la compressione dello Stato sociale. E se i cambiamenti dei modelli di produzione richiedevano certo forme di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, per impedire che la flessibilità si trasformasse in precarietà, erano necessarie nuove forme di regolamentazione, controlli rigorosi e un giusto equilibrio tra le nuove esigenze della produzione e i bisogni individuali e collettivi delle persone. Ma così non è stato, la flessibilità invocata ha preteso di saltare il confronto, il controllo e la contrattazione del sindacato, ha imposto lo stravolgimento del mercato del lavoro attraverso una quantità inusitata di forme contrattuali precarie, con l’unico scopo di rendere incerta e ricattabile la condizione lavorativa. Rendendo, nei fatti, merce il lavoro. Lo stato di solitudine di troppi lavoratori, la divisione del sindacato e la debolezza dell’opposizione possono però prestare il fianco a nuovi propositi contro riformatori. L’attacco portato dal secondo governo Berlusconi all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per avere garantita la possibilità di licenziare anche “senza giusta causa e giustificato motivo”, respinto nel 2002 dalla grande mobilitazione della Cgil, si ripresenta oggi con il sostegno della Banca Centrale europea. Dello stesso segno è la proposta della “flexsecurity” avanzata dalla Commissione europea che anche nel centro sinistra italiano trova dei sostenitori e che, nella sostanza, punta a compensare con un risarcimento monetario la perdita del lavoro. Insomma, per superare la condizione di disuguaglianza causata dalla precarietà del lavoro si rendono precari anche gli attuali contratti a tempo indeterminato considerati troppo “garantiti”.
Ma una crisi devastante, provocata dai colpevoli eccessi di una finanza senza regole e resa possibile da politiche distanti dall’economia reale, non può essere archiviata solo con la ricerca di un nuovo sistema di regole. Il tema del lavoro, da valorizzare e tutelare, dell’adeguamento dei salari con il superamento delle attuali insopportabili diseguaglianze, debbono tornare ad essere centrali nella riflessione di una nuova sinistra capace di liberarsi dalle suggestioni liberiste e fare i conti con i propri errori. Cause primarie degli insuccessi elettorali italiani ed europei delle forze di tradizione socialista. E, visto l’azzeramento di tutte le teorie che la crisi ha prodotto a sinistra, ne possono favorire la ripresa.
Il ritorno al mutuo soccorso
I lavoratori, che per superare le difficoltà hanno messo in atto modalità di lotte inconsuete e, in alcuni casi, estreme, stanno anche facendo ricorso a forme di solidarietà antiche tipiche delle origini del movimento operaio e delle prime Società di Mutuo Soccorso. A Brescia, dove sono 60 mila i lavoratori in cassa integrazione e 30 mila i licenziati, la Camera del Lavoro ha rilanciato il mutuo soccorso. I soldi raccolti con la sottoscrizione di biglietti da due, cinque e dieci euro vengono girati alla Caritas che confeziona pacchi per le famiglie in difficoltà, o vengono usati per diffondere il microcredito. In Emilia molte fabbriche stanno invece riproponendo le casse di resistenza.
A Reggio in una azienda di macchinari dove sono stati licenziati 60 lavoratori su 210 dipendenti, chi lavora verso un quinto del proprio stipendio ai lavoratori che a turno presidiano la fabbrica e il sabato sera si organizzano sagre per auto finanziarsi. In riferimento a questi fenomeni il professor Luciano Gallino[2] sottolinea come rappresentino un ritorno alle origini solidaristiche. Mentre l’attuale sistema degli ammortizzatori sociali mostri forti limiti e le persone dopo pochi mesi dalla perdita del lavoro rimangono, di fatto, senza reddito. Si riscoprono in questo modo forme di solidarietà come la condivisione degli orari o il mutuo soccorso. Il sociologo di Torino vede in questi fenomeni un aspetto positivo. Dopo gli anni della solitudine e dell’individualismo si riscopre il bisogno di un sentimento collettivo con cui si cerca di mitigare, insieme ai propri, anche le difficoltà degli altri.
Alessandria, 27 dicembre 2009
[1] Antonio Lettieri: “Bersani dice una cosa di sinistra”. Da Eguaglianza & Libertà on line
[2] Rassegna.it: “Lavoro, il ritorno al mutuo soccorso” di Antonio Fico