“Vittime dimenticate” (Testimonianze dei bombardamenti anglo-americani 1940/1945 – Edizioni dell’Orso, 2016) apre uno squarcio su un aspetto troppo spesso trascurato dalla storiografia sulla Seconda guerra mondiale, e per certi versi anche dalla nostra memoria collettiva: la questione delle “vittime civili”. Questione invece rilevante per una compiuta riflessione sul tema della guerra contemporanea – della sua particolare ferocia, e comunque dei suoi caratteri inediti – se è vero, come è vero, che alla metà del secolo scorso, per la prima volta nella storia, il numero delle vittime tra la popolazione civile è aumentato in misura esponenziale facendo appunto della “Guerra” un fenomeno “Totale”, destinato a coinvolgere non più solo (o prevalentemente) gli “eserciti” ma l’intera popolazione senza più distinzione tra “combattenti” e “non combattenti”, tra “militari” e “civili”.Per l’Italia il rapporto è stato di uno a due (150.000 morti civili contro 300.000 militari), un po’ meno in Germania (2 milioni su un totale di circa 5 milioni di morti), di più in Urss (dove le vittime civili superarono i 12 milioni per un totale di 23 milioni di morti), ma il fenomeno tende a essere omogeneo (con l’eccezione del Regno unito, dove i civili coprono “solo” un terzo delle “perdite”, 97.000 contro 270.000, e naturalmente degli Usa dove il territorio nazionale non fu raggiunto dalla guerra per ragioni geografiche). Né le guerre successive cambieranno il quadro, anzi: nella guerra del Viet-nam si calcola che i caduti tra i civili siano stati più del doppio che tra i militari (2.700.000 contro 1.100.000) e per la Seconda Guerra del Golfo un recente studio parla di un agghiacciante rapporto di 24 a 1 tra le morti di civili e militari! Una conferma quantitativa di come la guerra moderna abbia assunto in misura crescente carattere “terroristico” spostando via via in misura crescente il baricentro del fuoco sulla popolazione nel suo complesso.
Il bel libro di Renzo Penna dà conto di ciò con un significativo “caso di studio”, entrando in senso letterale “dentro il fenomeno”, tra le pieghe della quotidianità vissuta, offrendoci il racconto “dal basso” di ciò che accade in una comunità quando la morte arriva, inattesa, dall’alto. E quando si scopre che la propria stessa casa è diventata parte del fronte, obiettivo militare, zona di guerra. Quando, potremmo dire, si vive “la guerra in casa”. Alessandria appare, in quest’ottica, un punto di osservazione particolarmente significativo. I suoi 559 morti sotto i bombardamenti – dal primo, del 14 agosto 1940, all’ultimo, proprio alla vigilia della Liberazione, il 24 aprile del ’45 – la collocano al secondo posto tra i capoluoghi piemontesi, subito dopo Torino (con 2069 morti), e molto al di sopra di Cuneo e Asti (rispettivamente 56 e 54 vittime) oltre che di Vercelli (31 morti) e Novara (una sola vittima).
Se si calcola il rapporto tra la dimensione complessiva della popolazione e il numero dei decessi causati dai bombardamenti si può notare come ad Alessandria si registri la maggiore incidenza percentuale delle perdite umane. E come qui l’estensione delle distruzioni del patrimonio abitativo non abbia quasi paragoni nell’insieme della Regione, e la stessa presenza di insediamenti militari e di truppe in città non sia risultata particolarmente significativa. Dovette pesare invece, nel collocare Alessandria tra gli obiettivi sensibili del Bomber Command inglese, il suo carattere di nodo ferroviario di grande rilievo lungo gli assi di comunicazione strategica, e la relativa facilità di colpire aree densamente popolate e poco protette.
Fu così che per gli abitanti della città, e in particolar modo dei quartieri più a ridosso della stazione ferroviaria, dei ponti e delle vie di comunicazione, a cominciare dalle aree del Cristo e della Pista, la vita quotidiana fu scandita da ondate di morte dal cielo ricorrenti, con cadenza quasi mensile, a cominciare dal devastante bombardamento del 30 aprile del ’44 con ben 239 vittime Di tutto questo Renzo Penna dà conto con un sapiente uso congiunto degli strumenti della storia orale e della ricostruzione documentaria, opportunamente intrecciati con un approccio metodologico di indubbio rigore, restituendoci lo spessore del vissuto al di là e al di sotto delle nude cifre.
Nelle pagine del libro le Vittime dimenticate escono dall’ombra, riacquistano un volto, rivelano l’intreccio di sentimenti, relazioni, affetti e mestieri. Per molti di loro vengono ricostruiti gli ultimi momenti prima che la morte facesse irruzione nella loro vita in modo improvviso e imprevisto, per altri si dipanano le biografie, le reti parentali, le esperienze lavorative, a testimonianza di una vita di comunità densa, tenace, che la guerra lacerò con l’insensatezza che la caratterizza. E insieme alle storie di vita acquista spessore e visibilità il territorio: i “luoghi” letti in filigrana con la topografia attuale, così da permettere al lettore di oggi di ri-orientarsi su quelle antiche mappe, di ritrovare i punti di una geografia sconvolta non solo dalle distruzioni belliche ma anche dalla grande trasformazione del lungo dopoguerra, tempo di pace in cui però l’habitat umano non ha cessato di mutare, e la comunità che lo abitava di frammentarsi e disperdersi.
Per questo è tanto più importante questa “operazione sulla memoria”. Questo tornare a ridar parola, anche postuma. E disseppellire le vittime di allora, sottraendole alla fossa comune di un oblio diffuso. A questo serve il Memoriale, posto nel salone d’ingresso del Palazzo comunale con i nomi dei 559 morti innocenti restituiti così al ricordo della loro città, di cui questo libro è il naturale completamento. A non dimenticare mai l’orrore e l’insensatezza della guerra.