L’algoritmo e la partecipazione. Economia della conoscenza e sindacato – di Leonello Tronti (Università degli Studi Roma Tre), in “Industri@moci”, n. 33 (luglio-agosto 2018).
L’economia della conoscenza sottopone il lavoro a notevoli tensioni, che impongono profonde e crescenti diseguaglianze e nuove segmentazioni. Per quanto l’economia della conoscenza sia un fenomeno che data solo pochi decenni, già si possono intravedere diversi paradigmi di trasformazione del lavoro.
Le differenze si producono, anzitutto, a seconda che il lavoro si collochi dentro o fuori della filiera di produzione della conoscenza, ben sintetizzata dall’educatore Nicholas Henry nella piramide DICS (Dato, Informazione, Conoscenza, Sapienza).
In secondo luogo, in una situazione in cui la gran parte delle attività tende a collocarsi almeno in certa misura all’interno della piramide, il lavoro si caratterizza a seconda del livello della piramide in cui si colloca, che schematizza anche, in termini di rarità e complessità crescenti, la catena del valore che la conoscenza produce.
Per esemplificare, si può definire il lavoro a partire da domande come queste:
1. Si producono dati? Per lavoro, nel corso del lavoro o in altre attività (ad esempio consumi, utilizzo dei social, altro)? Per chi? (Per il datore di lavoro, per chi offre servizi o beni di consumo, per garantirsi l’appartenenza a una comunità?)… 2. Si raccolgono dati (prodotti da altri) e con essi si produce informazione? Per chi (vedi sopra)? A che fine? (Ad esempio, per influenzare l’opinione pubblica o l’opinione di gruppi sociali?)… 3. Si raccolgono informazioni e attraverso di esse si producono conoscenza e innovazione (ovvero capacità di intervenire nella realtà modificandola a proprio piacimento)? La conoscenza prodotta è codificata e distribuita (venduta o ceduta), oppure viene inglobata da una o più piattaforme? È infatti questo il livello in cui si collocano le piattaforme (gli ERP, i sistemi gestionali, le app ecc.), che per funzionare hanno bisogno di essere alimentate da dati organizzati in informazioni, a loro volta processate da algoritmi, ovvero procedure informatizzate che reagiscono al recepimento di determinate informazioni emettendo segnali (ad es. di allarme, indirizzo, apprendimento, attivazione/disattivazione, valutazione ecc.). I segnali, infine, modificano il processo produttivo e i rapporti sociali e di valore secondo obiettivi che possono essere noti e pubblici o ignoti e segreti. 4. Al culmine della piramide si colloca pertanto (o meglio dovrebbe collocarsi) la sapienza, ovvero la capacità usare al meglio la conoscenza e le innovazioni prodotte, valutandone in anticipo gli effetti e guidandone la gestione a beneficio di molti, se non di tutti. L’utilizzo di numerose nuove conoscenze, poiché modifica la realtà e può farlo profondamente, dovrebbe essere guidato dalla sapienza ai fini dello sviluppo umano. Ma chi lavora a questo livello della piramide produce davvero progresso per tutti, apprendimento e coesione sociale, o produce solo potenza non condivisa, creata per utilizzarla a fini egoistici, spesso nascosti? La disponibilità di un patrimonio crescente di conoscenze (piattaforme, algoritmi, strutture digitalizzate), con la sua parallela disponibilità di valore, è davvero sviluppo umano o è soltanto accumulazione a favore di pochi e disuguaglianza crescente (sul lavoro, nel mercato, nell’accesso ai mezzi di comunicazione e alla politica)?
L’economista premio Nobel Elinor Ostrom ha segnalato come la conoscenza possa dispiegare il suo potere generativo solo se è trattata come un bene comune, se è condivisa attraverso processi sociali di apprendimento continuo e collettivo. Ma nel cammino dello sviluppo nulla è lineare né scontato: nel nuovo mondo dell’economia della conoscenza il percorso della creazione e diffusione del potere di intervento sulla realtà, così come quello della sua applicazione al progresso sociale ed economico, si è ben presto dimostrato irto di difficoltà. Prima tra tutte l’entropia informativa, il pervasivo caos mediatico della pseudoconoscenza e delle fake news, che ha generato una nuova, più diffusa e più pericolosa forma di ignoranza, sostituendosi alla precedente scarsità di informazione e gettando discredito su ogni forma di conoscenza socialmente codificata e certificata.
Alla base del lavoro (e dunque anche del valore) nell’economia della conoscenza si pone lo sviluppo, da parte del lavoratore, di una nuova competenza complessa, la partecipazione cognitiva, che può essere definita come la volontà e la capacità di condividere, acquisire e utilizzare (da solo o in gruppo) la conoscenza (propria e dell’organizzazione) per migliorare gli ambienti e le modalità di lavoro, i prodotti e i processi, sia produttivi che organizzativi. Ora, tutti e tre i primi livelli della piramide di Henry per funzionare hanno bisogno dell’applicazione di questa competenza. La novità sta, peraltro, anche nel fatto che questa competenza non viene messa in atto soltanto nel corso di attività propriamente lavorative, ma anche di attività di consumo o di svago. Oppure, pensando a molti lavori regolati principalmente da piattaforme, nel corso di attività di interrogazione delle stesse per ottenere indicazioni sul lavoro da svolgere. E poiché il funzionamento dei tre livelli della piramide è alla base della produzione di valore, le attività che consentono non solo lo sviluppo della conoscenza e quindi la progettazione e costruzione delle piattaforme e dei loro algoritmi, ma anche soltanto la loro alimentazione, devono essere retribuite.
Si tratta certo di un principio giuridico nuovo, che ha sinora corrispettivi soltanto in termini di diritto alla privacy, web tax o diritto di copyright. Tuttavia, indipendentemente dal modo in cui siano prodotti, il punto è che i dati vengono trasformati in informazioni, le informazioni in conoscenza e la conoscenza in strumenti che modificano la realtà a piacimento di chi li governa, anzitutto al fine di ricavarne un valore. Abbiamo dunque l’apertura di due snodi di possibile conflitto economico: il primo che riguarda la produzione di dati, informazioni e conoscenza; il secondo che riguarda l’utilizzo della conoscenza a fini di parte anziché di sviluppo e apprendimento sociale.
In questo nuovo scenario il ruolo del sindacato è quello di anticipare il futuro, gestire il cambiamento, assicurando la diffusione di processi di contrattazione e di apprendimento che consentano un’equa ripartizione del valore e del potere. Per fare questo è necessario ammodernare la stessa conoscenza del sindacato, ripartire dai luoghi di lavoro e dalla loro organizzazione, materiale e immateriale; ma ripartire anche dalle reti, dai luoghi virtuali dove si crea valore e lo si cede (spesso gratuitamente, magari senza accorgersene) a chi è in grado di sfruttarlo. È necessario ripartire dai nuovi e vecchi bisogni, dalle nuove e vecchie ingiustizie che i lavoratori vivono giorno per giorno, dovunque la produzione di valore si svolga.
In questa direzione, data la dimensione dell’obiettivo, è indispensabile ricostruire dal basso almeno l’unità d’azione del sindacato, presupposto indispensabile non solo della possibilità di gestire il cambiamento e il conflitto, ma di gestire anche la partnership sociale tenendo fermo l’obiettivo di instaurare e mantenere ovunque un rapporto capitale-lavoro paritario. Contrattare l’algoritmo non è altro che questo. Declinare la partecipazione alla gestione del lavoro e alla produzione del valore come portato inseparabile della partecipazione cognitiva.