Intervista a Massimo L. Salvadori – pubblicata da “Liberazione” il 28 novembre 2007 –
Per capire che ne è dell’idea di sinistra, in questo tempo e a questa latitudine, è d’obbligo confrontarsi anche con chi della sinistra continua a propugnare un’idea ben diversa da quella propria del campo “radicale”, o alternativo. Una figura eminente, per esempio, è lo storico Massimo Salvadori: che con noi si definisce «un socialdemocratico stagionato».
Professore, nell’attuale precipitazione della crisi della politica, cosa si può dire del futuro della sinistra? E rispetto alle discriminanti storiche fra le sinistra, cosa è ancora valido e cosa eventualmente è stato sconvolto?
Sull’idea che possiamo avere oggi di sinistra, i suoi valori e punti di riferimento generali, credo rimanga sempre valido l’obiettivo fondamentale di lottare contro le diseguaglianze: il che vuol dire, oggi, lottare contro un assetto della società che favorisce anche nei paesi più avanzati l’approfondirsi appunto delle diseguaglianze, arricchendo le “fasce alte” sempre più proiettate all’accaparramento delle risorse e impoverendo oltre che quelle inferiori anche le fasce medie travolte, in Italia in maniera persino più accentuata, da una caduta della capacità di reddito e di consumo.
Dunque a sinistra si rivolge una domanda primaria di redistribuzione e di giustizia sociale. Ma come si declinano le risposte? Che ne è di quelle storiche – e differenti?
Mi permetto di insistere su un concetto che a mio giudizio è importante: la politica comincia propriamente quando si passa all’individuazione degli strumenti adatti a determinare l’affermazione dei valori che si propugna. Il vizio di mettere la sinistra politica al riparo dei “valori eterni” è molto pericoloso, perché induce a ritenere che quando se ne hanno di buoni si ha un capitale intoccabile. La politica, invece, è la capacità di spenderli in concreto. Qui arrivano tutti i problemi e i dolori: la sinistra europea nelle sue varie correnti, che sinteticamente sono da un lato i partiti che aderiscono all’Internazionale socialista e dall’altro i partiti e i movimenti della nuova sinistra, critici nei confronti degli altri, questa sinistra di soggetti distinti è generalmente in grave difficoltà. A mio giudizio ciò deriva dal fatto che la sinistra interna al socialismo europeo porta avanti un programma di riformismo governativo, ma in un mondo che vede nelle mani di gruppi economici ristretti il potere di compiere le decisioni fondamentali sulle risorse globali; dal canto suo, la variegata nuova sinistra continua ad esprimere un radicalismo ideologico che si manifesta nella riproposizione di progetti di società alternativa, ma secondo me senza alcuna capacità di indicare in concreto cosa significhi, in termini di istituzioni politiche e di tipo d’economia.
Dunque, secondo lei, due sinistre coinvolte per vie diverse in una crisi d’efficacia: o d’esistenza? In Italia questo rischio sembra concreto, in presenza della novità del Piddì…
Con la formazione del Partito Democratico per la prima volta la storia politica italiana è segnata dall’assenza di un grande soggetto politico della sinistra e anzi dalla sua riduzione ad una forza fortemente minoritaria che, sia pure nelle sue varie componenti, rischia di trovarsi in una situazione d’isolamento. Quella crisi di prospettiva generale della sinistra si evidenzia da noi in maniera molto acuta, con l’influenza relativa del piccolo partito socialista, e con una sinistra “a sinistra” del Pd che è in formazione ma, a me pare, salvo la componente della Sinistra democratica – che almeno a livello di cultura politica presenta la volontà di restare legata al socialismo europeo – , è dominata da partiti che non hanno sciolto i nodi del legame con la tradizione comunista e senza farlo non possono portare un grande consenso politico né elettorale. Quando la gente sente Diliberto parlare della salma di Lenin, si chiede cosa vuol dire in termini concreti di identità, di programma. Comunque, ripercorrendo l’iter già seguito dal Pd, questa sinistra rischia di non declinare una propria originale identità. E rischia un isolamento di nicchia rispetto alle iniziative sul sistema politico che prenderà il Pd stesso, ma che può prendere anche l’ex Forza Italia.
Sono proprio questi due nuovi grandi attori partitici a ventilare l’idea d’uno scioglimento dagli schemi d’alleanza: un futuro, a sinistra, non si apre interpretando attivamente un’autonomia, un carattere alternativo?
Anch’io vorrei una società alternativa, ma so che non posso immaginarla solo con dei “no”: bensì con l’indicazione di cosa si vuole e delle forze con le quali si renda possibile farlo. Non vedo altra via d’un riformismo vero, incisivo, serio, per diminuire i livelli di diseguaglianza subiti dalle lavoratrici e dai lavoratori ma non solo. E sono persuaso che nella situazione storica dei grandi Paesi sviluppati una sinistra che non riesca ad incidere, che dunque non si presenti come credibile forza di governo, è condannata alla marginalità.
Cosa vuole dire, però, incidere? E come ci si dovrebbe mettere in grado di farlo?
Se si vuole competere in maniera realistica con le forze della conservazione oggi, in Europa, la misura della credibilità d’un soggetto politico è di concepirsi come forza di governo. E la sinistra non può avere questa forza se non sulla base di un’intesa fra le forze dell’Internazionale socialista e la nuova sinistra. Ma se quest’ultima ha bisogno di darsi un’identità conflittuale rispetto all’altra, quella chiave di consenso è indebolita definitivamente. In Italia stiamo assistendo al martellamento, da parte d’un fronte che va da An a forze interne al Pd, d’un concetto preciso:con la sinistra radicale non si può e non si deve governare. Allora bisogna capire cosa può facilitare questo discorso e cosa invece può ostacolare l’intento di marginalizzazione che manifesta.