“PUBBLICO E PRIVATO UNITI NELLA LOTTA” di Mariana Mazzucato – da “la Repubblica” del 2 gennaio 2016 – “Le fasi in cui si sostiene il ruolo dello Stato nello sviluppo economico sono sempre seguite da un attacco contro il suo intervento nel buon funzionamento dei mercati. È stato così per tutto il XX secolo. Ed è stato così anche dopo la recentissima crisi finanziaria e recessione economica a livello globale: dopo un breve periodo, subito dopo lo scoppio della crisi, in cui tutti concordavano che lo Stato aveva un ruolo chiave da giocare per il salvataggio delle banche e lo stimolo della crescita attraverso lo stimolo economico, hanno rapidamente preso il sopravvento quelli che vedevano con allarme l’aumento del debito pubblico (considerato erroneamente come causa della crisi quando invece ne è l’effetto, per via dei minori introiti fiscali, dei salvataggi sempre più onerosi, eccetera). L’austerità è tornata quindi a essere il piatto del giorno, mentre qualunque misura seria di politica economica e industriale è diventata tabù.
Quello di cui la politica non si rende conto è che per tutta la storia del capitalismo moderno lo Stato ha fatto e continua a fare quello che i mercati semplicemente non fanno. E senza questo ruolo la crescita rimane al palo. Non sto parlando dello Stato che si limita a mettere rimedio ai «fallimenti del mercato», ma dello Stato che crea e dà forma direttamente ai mercati.
Prendiamo per esempio il sistema finanziario. Un sistema finanziario efficiente e funzionante deve, in teoria, provvedere i capitali necessari per lo sviluppo dell’economia, favorendo la crescita economica e l’innalzamento del tenore di vita. Una delle banche più importanti degli Stati Uniti si chiama Chemical Bank perché originariamente finanziava il settore chimico (oggi è impensabile che una banca possa essere focalizzata a tal punto sull’economia reale). Negli ultimi anni, però, la finanza non ha sostenuto gli investimenti o l’innovazione nell’economia reale, ma ha finanziato… se stessa. A partire dagli anni Settanta, le innovazioni nel settore, abbinate alla deregolamentazione, hanno reso più facile ricavare profitti con investimenti speculativi in attività finanziarie.
Ma per garantire i fondi necessari allo sviluppo dell’economia serve una finanza paziente, impegnata sul lungo termine. Negli Stati Uniti, la rivoluzione informatica inizialmente fu sostenuta dalla finanza paziente messa a disposizione da una rete di agenzie pubbliche con approccio strategico e mission- oriented, come la Darpa all’interno del dipartimento della Difesa, i National Institutes of Health all’interno del dipartimento della Sanità, la National Science Foundation, la Nasa e il programma Small Business Innovation Research (che ha erogato più finanziamenti ad alto rischio nelle fasi iniziali delle imprese di tutto il settore del venture capital).
E in tempi più recenti anche la rivoluzione verde è stata ed è finanziata da agenzie analoghe, come l’Arpa-E all’interno del dipartimento dell’Energia, o da prestiti garantiti come quelli erogati alla Tesla (per una cifra prossima ai 500 milioni di dollari di fondi pubblici). In alcuni Paesi, come la Germania e la Cina, questa finanza paziente è garantita dal settore bancario pubblico: la KfW in Germania e la Banca cinese per lo sviluppo in Cina svolgono un ruolo guida nella trasformazione in senso ecologico dell’economia del loro Paese (lo stesso Bill Gates ha dimostrato di esserne consapevole quando ha chiesto ai Governi di mettersi alla guida della rivoluzione verde, come fecero con la rivoluzione informatica).
Perfino in un Paese che nell’immaginario dell’opinione pubblica rappresenta il liberismo per eccellenza — la Gran Bretagna — fu grazie all’intervento pubblico che la Rolls-Royce, negli anni Settanta, riuscì a rimettersi in piedi, e più recentemente è stato il Catapult Centre dedicato al settore automobilistico (i Catapult Centres sono organizzazioni pubbliche che hanno il compito di promuovere la ricerca e l’innovazione in vari settori) che hanno consentito all’industria dell’auto britannica di tornare al centro della scena: oggi nel Regno Unito si producono più automobili che in Italia.
L’Italia continua a non disporre di organizzazioni come queste, con un respiro strategico. I problemi dell’economia sono visti soltanto (sia da Berlusconi in passato, sia da Renzi oggi) in termini di «impedimenti» (tasse, burocrazia, eccetera) da rimuovere, invece che in termini di istituzioni da creare per investire e creare i nuovi mercati del futuro.
Prendiamo il caso della Cassa depositi e prestiti: finora non ha mai funzionato come una vera e propria banca pubblica, limitandosi tutt’al più a investire in infrastrutture e facilitare le aziende private, invece di realizzare investimenti strategici in innovazioni capaci di creare nuovi mercati, che sarebbero seguite da investimenti privati.
È questo che fa la KfW in Germania e la Banca cinese per lo sviluppo in Cina. Non è ancora chiaro quali sviluppi avrà l’attuale riorganizzazione della Cassa depositi e prestiti, se sarà solo l’ennesimo cambio di poltrone o se sarà davvero un cambio di rotta. Quello che è certo è che per l’Italia riveste un’importanza cruciale. La ricapitalizzazione è importante, e gli ultimi investimenti sulla banda larga sono uno sviluppo positivo, ma per il XXI secolo non è abbastanza: bisogna imboccare una direzione nuova.
Quale direzione? Per il futuro dell’Italia è fondamentale sgombrare il campo dal dibattito statico «pubblico contro privato». Sono fondamentali entrambi. Il problema è come promuovere collaborazioni sinergiche che consentano al settore pubblico, nel confronto con il settore privato, di mantenere un approccio coraggioso e strategico e stabilire la direzione del cambiamento, invece di limitarsi ad assorbire i rischi, facilitare, amministrare, sovvenzionare e incentivare. Che si parli di istruzione, salute, trasporti, cultura, energie rinnovabili o del futuro della microelettronica, il problema non dev’essere «aprirsi al mercato» (guardate quanto bene ha fatto a Telecom Italia), ma come strutturare e modellare il mercato attraverso investimenti pubblici e privati, che consentano a un settore di diventare più dinamico, innovativo e focalizzato sugli investimenti.
Invece, seguendo la tesi che gli investimenti sono cose che spettano al settore privato e che il settore pubblico esiste solo per regolamentare, sovvenzionare o salvare capra e cavoli quando le cose vanno male (assorbendo la parte
bad e lasciando ai privati il godimento della parte good), si finisce dentro una profezia che si autorealizza, in cui il settore pubblico, proprio perché non vediamo un effettivo «ruolo» per esso al di là di quanto elencato, si ritrova a corto non solo di finanziamenti, ma anche di immaginazione.
Quando un settore manca di immaginazione, muore. Diventa irrilevante, e ovviamente più facile da attaccare. Nel settore pubblico italiano è in opera un circolo vizioso che sta contribuendo ad affossarlo. Solo quando la visione diventa quella di creare insieme un nuovo futuro, invece di lasciare che una parte si accolli il compito di raccogliere i cocci mentre l’altra continua a realizzare profitti di corto respiro, potremo sottrarci al consueto «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima».