Matteo Renzi in Italia come in Europa non trascura mai di sottolineare con orgoglio il suo indiscutibile successo elettorale alle elezioni europee. La spiegazione, se vogliamo trovarne una non casuale,sta nel fatto che, differenza di altri governi usciti sconfitti dalla prova elettorale, il neonato governo di Renzi non poteva essere considerato complice delle sciagurate politiche europee. Renzi si è presentato come uomo nuovo, un outsider della politica, deciso, secondo uno slogan fortunato, a “cambiare verso” alla politica italiana ed europea. Un compito certamente ambizioso.
Consapevole delle difficoltà, soprattutto in relazione all’obiettivo europeo, ha scelto di giocare la partita decisiva, rivolgendosi direttamente ad Angela Merkel. A Berlino Renzi non sì è presentato a mani vuote. Innanzitutto ha rassicurato Frau Merkel circa la sua piena adesione al rispetto delle regole di bilancio stabilite in Europa – il deficit di bilancio al di sotto del tre per cento e l’impegno alla riduzione del debito dall’attuale 133 al 60 per cento del PIL nell’arco di venti anni, in ottemperanza al Fiscal compact.
Ha anche garantito il suo impegno ad attuare le riforme strutturali, che sono il vero cuore della strategia europea. In breve: la piena liberalizzazione del mercato del lavoro con la sostanziale libertà di licenziamento, la riduzione della spesa pubblica e la privatizzazionie di ciò che rimane del patrimonio pubblico nei settori industriali e dei servizi. Questi gli agnelli sacrificali sull’altare delle politiche europee, sperando di ottenere in cambio maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole di austerità.
Angela Merkel ha apprezzato la dichiarazpne di fedeltà al rigoroso rispetto dei vincoli di bilancio. Ma, com’è nel suo stile, quando discute di questi temi con i capi dei governi stranieri, non ha assunto nessun impegno specifico. Non ha detto né si, né no. Come sempre, la prima risposta è toccata a Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle Finanze che governa la politica economica tedesca, e informalmente, col supporto della tecnocrazia di Bruxelles, quella dell’eurozona.
“L’attenzione sulla crescita e sulle riforme è giusta e la sosteniamo pienamente, ha sentenziato Schäuble,…ma le riforme non devono essere l’alibi per evitare il consolidamento dl bilancio”. In altri termini, l’Italia deve attenersi alle raccomandazioni dell’Unione europea e “rafforzare le misure di bilancio per il 2014”. Gli fa eco il nuovo Commissario agli Affari Economici della Commissione europea, Jyrki Katainen, già primo ministro finlandese e successore di Olli Rehn che ha dichiarato al Die Welt:: “discutere di maggiore flessibilità nell’interpretazione del Patto di stabilità è pericoloso, è un dibattito sbagliato”. I personaggi cambiano, ma l’asse Berlino-Bruxelles rimane saldo. In ogni caso, Gian Carlo Padoan, che presiede l’Ecofin durante il semestre di presidenza italiana dell’UE, per evitare malintesi, ha voluto chiarire, secondo il resoconto di “24 ore”, che il governo italiano è “sulla stessa linea del governo tedesco”.
Che rimane della magica flessibilità invocata da Renzi? Se tutto va bene, l’Italia otterrà al pari della Francia e della Spagna la dilazione di un anno per tagliare il traguardo del pareggio strutturale del bilancio e per l’avvio del Fiscal compact. In sostanza, tutto come prima. Sotto il vestito niente, secondo il titolo di un vecchio film.
E’evidente l’errore o, se si preferisce, l’ingenuità di Renzi. Non puoi cambiare la politica europea con un gioco di parole. Se ne accetti i vincoli, ti sottoponi alla medicina dell’austerità che, sia pure con qualche modesto aggiustamento del dosaggio, più che curare la malattia sta lentamente e inesorabilmente uccidendo il malato.
In effetti, la crisi dell’eurozona ha assunto un carattere strutturale, che si manifesta in una profonda spaccatura al suo interno. Fra la Germania e la maggioranza dei paesi dell’eurozona si è creato una voragine incolmabile. Durante la crisi la Germania ha continuato a rafforzarsi. Nel 2014 crescerà, secondo le previsioni, intorno al 2 per cento del PIL, che è non solo la misura più alta fra i maggiori paesi dell’eurozona, ma è, grosso modo, pari alla crescita degli Stati Uniti. La differenza è nel persistente disavanzo commerciale americano, al quale la Germania contrappone un avanzo stratosferico pari al 7% per PIL. La Germania è diventata la Cina dell’occidente capitalistico.
Vi è di più. Con il 2015, in Germania entrerà a regime il salario minimo legale di 8,5 euro, pari a circa 11,5 dollari, contro i 7,25 dollari in America, che Obama tenta, senza ancora riuscirvi, di portare per tutti al minimo di 10.10 dollari. Ma ancora più sorprendente è che, a fronte del ristagno salariale negli USA, Jens Ulbrich, capo economista della Bundesbank, dichari in una recente intervista allo Spiegel, di considerare positivamente l’aumento di oltre il 3 per cento dei salari, e di sostenere l’impegno dei sindacati per accordi salariali volti a elevare il tasso di inflazione. Così in Germania esportazioni e aumento dei salari puntano a realizzare una maggiore crescita e a consolidare la riduzione della disoccupazione, che è già significativamente inferiore alla media della zona euro, pari a circa la metà di quella italiana e a un quarto di quella spagnola.
Riassumendo, il ruolo di medio-grande potenza a livello mondiale dà alla Germania una egemonia incontrastata sulla zona euro. Mentre Francia e Italia, le due maggiori economie dell’eurozona dopo la Germania, sono progressivamente ridotte al rango di province sottomesse a un impero economico che impone regole politicamente vincolanti ed economicamente devastanti.
La domanda è: fino a quando? Le elezioni di maggio hanno umiliato i governi dei maggiori paesi dell’Unione europea. Abbiamo visto Cameron travolto dall’avanzata dell’UKIP, il partito indipendentista che si batte per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. François Hollande relegato al terzo posto tra i grandi partiti francesi, con la vittoria di Marine Le Pen che progetta l’uscita della Francia dall’eurozona. A sua volta, il Partito popolare di Rajoy, trionfatore nelle passate elezioni spagnole, perde venti punti, conservando un’esigua maggioranza relativa in Parlamento solo in virtù della divisione della sinistra.
Non stupisce che, in questo panorama di sconfitte, brilli la stella di Matteo Renzi. Il quale ha, di fatto, allargato la propria maggioranza a una Grande coalizione non dichiarata con la rinata Forza Italia. Non a caso, Renzi conta di poter realizzare col sostegno di Berlusconi il programma di riforme, tra le quali spiccano quella dell’abolizione del Senato e quella elettorale che, combinate, minacciano di trasformare la democrazia italiana in un regime oggettivamente autoritario. Disegno fortemente sostenuto da Berlusconi, ora più forte e in grado di porre le sue condizioni, dopo l’insperata e sorprendente assoluzione nell’infamante “processo Ruby”.
Ma c’è qualcosa di sostanziale, irriducibile alla retorica del cambiamento, che insidia alle radici l’ambizioso progetto di governo di Renzi. L’Italia vive, dopo la Grecia, la peggiore condizione economica dell’eurozona: giunta al terzo anno di recessione, per il 2014 è annunciata una crescita prossima allo zero, se non negativa, e un livello di disoccupazione in continuo aumento, dopo essere più che raddoppiato rispetto all’inizio della crisi.
Il problema di Renzi, come quello di Hollande, è nella trappola tedesca dell’austerità. Il Partito democratico di Matteo Renzi è stato il partito più votato nel Parlamento europeo, ma nessuno ha avuto il coraggio di svelare che il re è nudo. La politica imperiale della Germania sta uccidendo le province dell’eurozona.
Cameron cercherà di guadagnare le elezioni britanniche del 2015, rafforzando la sua richiesta di modifica dei trattati europei, e rilanciando l’impegno di tenere entro il 2017 l’annunciato referendum “dentro o fuori dell’Unione”. François Hollande è precipitato a un livello di consenso popolare inferiore al 20 per cento, il più basso nella storia della V Repubblica. Rajoy dovrà dar conto con le elezioni del prossimo anno del disastro provocato alla Spagna, con un debito pubblico più che raddoppiato rispetto all’inizio della crisi e un tasso di disoccupazione del 25 per cento, come nelle stagioni più oscure della Grande Depressione in America. Con l’Italia senza crescita, e con più disoccupazione e povertà, Renzi potrebbe pentirsi di aver dichiarato fedeltà ai vincoli imposti da Berlino in cambio di un’inafferrabile quanto inconsistente flessibilità.
In questo scenario, la trappola tedesca del binomio austerità-riforme strutturali non potrà più essere camuffata. O le élite che governano le province dell’eurozona si piegheranno ai vincoli dell’impero sotto la falsa copertura di una più serrata, in effetti, subalterna integrazione. O, forse, più probabilmente, le province esauste, e sull’orlo di una crisi democratica, potrebbero ribellarsi all’impero con la dichiarazione di fallimento dell’eurozona, così come l’abbiamo conosciuta in questo primo scorcio di secolo.
Analisi condivisibile. Con un però. Quello di non indicare quello che di queste politiche è deleterio e proporre chiaramente cosa fare in alternativa. Perchè anche da questa lista ci sono quelli che dicono che non ci sono alternative. E Renzi segue fedelmente quello che il PD ha già imboccato anche prima di chiamarsi PD, adesione al modello “terza via” equivalente nella sostanza al neoliberismo. L’alternativa ci sarebbe, e Grillo e Vendola, ma sopratutto la sinistra post Tsipras, sa bene che l’alternativa è la riforma radicale dei trattati per fare cambiare il verso all’Eu da neoliberista a Ue socialdemocratica, UE cooperativa e solidale, con conseguente modifica dello statuto della BCE che da serva della plutocrazia mondiale diventi strumento in mano del governo Ue utile per una economia mista che si impegni fermando la deriva tutto al mercato anche quello che sarebbe stato impossibile per liberali onesti: monopoli naturali, servizi pubblici welfare, trasporti e fonti energetiche, industria pesante, ecc. Tutto quanto possibile secondo la Costituzione italiana. Una critica anche alle opposizioni, questo ritorno in economia ai dettami costituzionali di cui al titolo terzo rapporti economici non lo stanno spingendo a fondo e non stanno spiegando agli italiani la necessità di questo recupero della Costituzione che è pandant alla necessità di cambiare i trattati neoliberisti europei.