LOMBARDI: “La mia società alternativa”*

Riccardo Lombardi 15,02,1973 - Comitato Centrale PSI, due*Questo articolo di Riccardo Lombardi è apparso su “il Manifesto” del 23 ottobre 1977; ricavato dal libro: “Riccardo Lombardi, scritti politici 1963-1978. Dal centro-sinistra all’alternativa”, Marsilio Editori, 1978
Il  testo fu redatto da Riccardo Lombardi nell’ottobre del 1977. L’Italia era guidata dal governo della non sfiducia presieduto da Giulio Andreotti, un esecutivo che aveva fatto parzialmente cadere la conventio ad excludendum (i comunisti sostenevano l’esecutivo, un monocolore dc, con l’astensione, di qui la definizione di “governo della non sfiducia). Erano tempi molto complicati con l’inflazione che ad ampie falcate guadagnava la soglia del venti per cento, le casse dello Stato tanto vuote da obbligarci, qualche anno prima, nel 1974, a chiedere un prestito alla Bundesbank garantito attraverso la consegna ai nostri creditori di una parte delle nostre riserve auree. L’esecutivo presieduto da Andreotti si inquadrava all’interno della formula della “solidarietà nazionale” che per i comunisti era una fase di passaggio verso quell’accordo organico definito da Enrico Berlinguer con la proposta del Compromesso Storico. Lombardi a questa prospettiva non si rassegnava: per lui, il traguardo doveva essere il governo delle sinistre, prospettive e suggestioni alimentate anche dalla crescita in Francia del Psf e che di lì a poco (nel 1981) avrebbe portato Francois Mitterrand all’Eliseo. L’articolo di Lombardi, al di là delle proposte, racconta di un modo diverso di fare politica: non la semplice gestione del contingente, ma lo sforzo di immaginare una società nuova, diversa, nelle sue variegate articolazioni. Uno sforzo a cui la sinistra dovrebbe ricominciare a dedicarsi.

di RICCARDO LOMBARDI 

“Un programma di sinistra, qui e ora, deve fondarsi su tre presupposti. Primo, che il sistema non ha la catastrofe nel suo destino, ma è divenuto intollerabile e sono emerse forze interessate a spezzare questo regime di intollerabilità. Secondo, che la sinistra non può accedere al potere se non in fasi di crisi profonde, come quella attuale, appunto. Terzo, che la prima fase di gestione del governo da parte delle sinistre avverrà in un ambiente capitalistico. Proprio per questo il termine transizione che noi usiamo per questa fase non ha il significato classico del vocabolario marxista.

Sulla base di questi presupposti si pongono due obiettivi generali: innanzitutto realizzare alcuni elementi di rottura con il sistema capitalistico (quel che nell’articolo di Magri si definisce “massa critica”) cioè individuare e realizzare due o tre fatti capaci di dare l’avvio al processo di rottura. Il secondo obiettivo è quello di durare nel persistente ambiente capitalistico offeso e ferito dalle rotture che saremo riusciti a provocare. Il problema del durare, si pone anch’esso in termini tutt’altro diversi che nei passati esempi di “presa del potere”, proprio per il fatto che l’impegno all’alternanza dei poteri e al rispetto delle consultazioni elettorali è essenziale al nostro progetto. C’è un problema di consenso e, quindi, di scelta dei termini più adatti per durare: è chiaro, per esempio, che ove il governo delle sinistre desse luogo a una specie di corsa all’albero di Natale sarebbe la fine. Per durare bisogna però anche cambiare e realizzare molte cose: cambiare le regole del gioco, quindi, la struttura dei poteri nelle fabbriche, nell’esercito, nella polizia, nella magistratura, nel campo dell’informazione, negli enti locali. Si tratta di creare nuovi poteri e diffondere quelli esistenti di modo che la somma dei poteri non si concentri più solo nello stato, così ci si libera anche della conseguente illusione che basti mutare il segno politico dello stato perché tutto vada bene.

Il polo di riorganizzazione, ma dialettica – sarebbe forse più preciso parlare di punti di riferimento -, è il programma, la sua logica e i suoi contenuti. Quanto al Psi è attraverso la costruzione di questo programma che esso si costruisce la nuova identità e, quindi, definisce l’atteggiamento nei confronti delle varie forze politiche. L’identità più profonda del partito è nel progetto di società da costruire e che deve essere – anche nel socialismo realizzato – una società conflittuale, diversificata e niente affatto omogenea, come era per una certa ortodossia marxista. Una società in sostanza, nella quale l’uguaglianza economico-sociale esalti le differenze e ne promuova di nuove: tendente all’autogestione e caratterizzata da un processo di restituzione alla società civile dei poteri dello stato. Una società nella quale crescano gli stimoli agli scambi non mercantili.

La realizzazione del processo di costruzione di questo tipo di società può realizzarsi seguendo tre direttrici principale, che qui riassumo molto schematicamente. La prima direttrice è quella della generalizzazione del lavoro e dell’occupazione attraverso riduzione del tempo di lavoro, turnazioni, ecc. Tutto questo in prima apparenze e nel breve periodo può non risultare economico, ma se si guarda meglio è un modo di mobilitare e valorizzare al massimo le risorse umane e di liberare, attraverso il tempo libero, quelle nuove e maggiori capacità di gestione e direzione (capacità di autogoveno e di governo) che sono essenziali alla transizione. La seconda direttrice è quella di una ristrutturazione dell’industria dalla produzione di beni a forte profitto a quella di beni a forte utilità e che pertanto siano beni di uso durevoli nel vero senso della parola, cioè durino a lungo e riducano l’enorme dissipazione che oggi si accompagna alla produzione di beni cosiddetti “durevoli”. La terza direttrice è quella verso un’uguaglianza dei redditi, che è la condizione decisiva per tagliare le gambe all’inflazione.

Durare su queste direttrici che comportano rilevanti costi economici e sociali, ci riporta allo storico problema della alleanze. Ma, in una situazione in cui le differenziazioni ci sono anche nella classe operaia, non è più accettabile lo schema dell’alleanza operai-ceti medi, né pare utile la formula dei citi medi produttivi, che non si capisce bene cosa siano. Il problema, non analitico ma politico, è quello di cogliere e forse anche promuovere differenziazioni e quindi sulla base di questo conoscere e aggregare le forse sociali e politiche.

Su questa scelta programmatica si definisce l’identità del partito socialista e si sciolgono le ambiguità che qualcuno può vedere nella formula dell’alternativa. Ma, in effetti, anche per il modo come sta procedendo la discussione del programma e la preparazione del congresso, non è che ci siano due versioni dell’alternativa: da una parte c’è l’alternativa vera e propria e dall’altra c’è il vuoto. Quanto poi alla tentazione di speculare sullo scontento emergente a sinistra, evidentemente questa tentazione c’è, come c’è anche una tendenza a forme rinnovate di vecchio anticomunismo.

Il problema Dc continuerà a porsi e non solo in termini di pura contrapposizione: il vero obiettivo è quello di provocare una rottura nell’attuale federazione democristiana e di fare una politica che questa rottura la realizzi e non la predichi soltanto. Ma bisogna anche predicarla perché quando leggo su “Rinascita”: “In altre parole e per essere più chiari noi non pensiamo che siano utili scissioni di frange anche di sinistra della Dc”, francamente rimango un po’ frastornato. O meglio, trovo in queste affermazioni la conferma della politica del compromesso moderato.

Il discorso ritorna su quello che Magri definisce “massa critica”. “Massa critica” è quello che i socialisti francesi chiamano elementi di rottura. Questa “massa critica” però, allo stesso modo che in fisica nucleare, non si può determinare a priori, a prescindendo dal contesti (temperatura, pressione, ecc.). Ma per realizzare questa “massa critica” bisogna cominciare subito e partire dall’occupazione e, insieme, avere bene in mente che per fronteggiare gli effetti di questa “massa critica” bisogna costruirsi un consenso ben maggiore di quello elettorale.

Il primo avvertimento sta nel reagire all’impressione che la sinistra sia una sorta di “buon governo”: la sinistra al governo è una alterazione del potere e non una variazione del potere. Ciò comporta un diverso approccio teorico e politico alla questione del capitalismo di stato. La tesi di Lenin secondo cui la produzione organizzata in fase di capitalismo avanzato è già strutturalmente socialista e che a renderla socialista pienamente basti il mutamento dei rapporti di proprietà non è valida. Lenin forse aveva un’infatuazione tayloristica. Per cambiare non basta espropriare o statalizzare, bisogna veramente cambiare gerarchie e organizzazione del lavoro. Io ho sempre sostenuto che non ci può essere una catena di montaggio socialista.

Anche in campo sociale i “costi di trasformazione” ci sono e sarebbe sciocco negarlo. Quanto all’austerità però essa deve essere determinata, collocata nel contesto delle crescenti tensioni politiche che accompagneranno il governo delle sinistre ed esplicitata nel senso che essa corrisponda a una riduzione delle “attuali” soddisfazioni, ma non a una riduzione in generale delle soddisfazioni. Rispetto ai ceti medi, è inevitabile, e deve essere già dichiarata, una riduzione delle attuali soddisfazioni (reddito, doppi casa, ecc.) ma ci deve essere una soddisfazione compensativa che nasce dalla tensione e dalla partecipazione al mutamento sociale e politico.

Semprte sul terreno dei costi si pone la questione della riduzione dell’orario di lavoro. Occupazione pere tutti e riduzione dell’orario di lavoro sono le condizioni decisive, politiche, dalla transizione. Ma anche qui dobbiamo subito dire che questa riduzione di orario può accompagnarsi a una riduzione del salario giornaliero. Nel caso in cui tutti i membri di una famiglia lavorino, una riduzione di salario dei singoli può accompagnarsi anche a un miglioramento del tenore di vita. Il fatto che tutti (donne e uomini) abbiano un reddito e tutti abbiano più tempo libero può servire più di quanto non si pensi a modificare a modificare la famiglia, a cominciare dalla ripartizione del lavoro domestico. E quanto alle diseconomie della riduzione dell’orario di lavoro, qui c’è da rivedere in radice il concetto di economicità, a cominciare dai bilanci delle imprese fino al calcolo del reddito nazionale: perché le imprese non debbono mettere nei costi i danni che provocano all’ambiente? E perché un infortunio sul lavoro può diventare un incremento del reddito nazionale? Sono solo due piccoli esempi degli assurdi e delle incongruenze proprie all’attuale nozione di economicità.

Il problema del Psi è quello di decidere come spendere il piccolo capitale di cui dispone. La scelta – la formula è di Covatta – è se spenderlo subito o capitalizzarlo. Un investimento e rendimento differito certo comporta dei rischi ed è quindi del tutto legittimo che si siano compagni che vogliono spendere il capitale in piccole operazioni di potere; ma queste sono ancora più rischiose e non costruiscono niente. La questione investimento a breve o a lungo è la questione del programma, è il nocciolo del nostro dibattito congressuale e, in effetti, è il problema di tutte le forze politiche. Solo che per il Pci il lungo temine rimane nell’orizzonte del compromesso storico.”

 

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