NEL TEMPO DELLA GRANDE CRISI ECONOMICA DELL’ITALIA E DELL’EUROPA
di Renzo Penna
In risposta all’attuale disastrosa crisi economica mondiale – che ha avuto origine nello sviluppo abnorme e senza regole del sistema finanziario e sta investendo con particolare durezza il vecchio continente e, in particolare, il nostro Paese – da più parti si invocano politiche capaci di favorire la crescita dell’economia e la creazione di nuovi posti di lavoro anche per rendere più sopportabili le politiche di austerità dei bilanci pubblici. Ma tra le differenze nelle cause dell’attuale recessione con quella del ’29 c’è, e sono ancora troppo pochi a evidenziarlo, la insostenibilità sociale ed ecologica del modello di sviluppo che si è affermato ad iniziare dagli anni ’80. “Si parla molto di far partire la crescita – ha scritto di recente Barbara Spinelli[1] – ma essa non potrà essere quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica, e perché la nostra crescita sarà d’avanguardia solo se ecologicamente sostenibile”.
Il termine crescita risulta, di conseguenza, inevitabilmente connesso ad una modalità dello sviluppo dell’economia basata sulla quantità dei prodotti e delle produzioni e non, come sarebbe necessario, sulla loro qualità. Un indirizzo tutto incentrato sulla crescita che ha come parametro di riferimento e di misurazione quello rozzo del prodotto interno lordo (PIL) risulta datato ed è poco adatto per una nazione – come l’Italia – che ha certo bisogno di lavoro e di sviluppo, ma non può che operare in tutti i campi per la sua sostenibilità, puntando sulla ricerca, l’innovazione, l’eccellenza, la qualità e la compatibilità dei processi produttivi e delle produzioni.
Lo sviluppo sostenibile al posto della crescita
Su questi temi Giorgio Ruffolo, nel 1994, ha pubblicato per Laterza un delizioso libretto dal titolo: “Lo sviluppo dei limiti. Dove si tratta della crescita insensata”. Nell’ultima di copertina si può leggere che: “sviluppare limiti alla crescita significa promuovere nuove forme di sviluppo senza limiti… La biforcazione di fronte alla quale ci troviamo ci pone non il dilemma tra crescere e non crescere, ma quello tra due tipi di sviluppo. Lo sviluppo della potenza – che chiamiamo crescita – e lo sviluppo della coscienza. E’ questo che vorremmo chiamare, più propriamente, sviluppo”.
A diciott’anni da quello scritto, mentre le conseguenze della crescita insensata ci costringono, già oggi, a fare i conti con le emergenze indotte dai cambiamenti del clima, è troppo chiedere alle principali forze politiche un cambio culturale in materia di ambiente e indirizzi capaci di fare della sostenibilità uno degli assi strategici della propria cultura di governo? Insistere più su uno sviluppo sostenibile che sulla semplice crescita significa impegnarsi a migliorare l’economia per rispondere ai bisogni essenziali delle persone e non solo a farla crescere sempre di più, indifferenti ad uno sfruttamento di risorse che, sappiamo, non sono infinite. Non è un caso se, nei paesi più ricchi, stanno aumentando le persone che rifiutano la competizione esasperata e la mentalità consumistica e perseguono uno stile di vita più semplice, sobrio e sano. Alcuni governi come l’Australia e il Canada hanno, ad esempio, fatto dello star bene un obiettivo della politica nazionale e prestano grande interesse agli indicatori che misurano la qualità della vita più direttamente e meglio del PIL.
La generale e difficilissima crisi economica deve indurre a riflettere sulle possibili soluzioni che non potranno venire dalla sola riproposizione di un modello basato sul rilancio e il sostegno ai consumi. A questo proposito l’ex arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi in uno dei suoi più significativi interventi ha invitato a non dimenticare la sobrietà che costituisce la via maestra alla solidarietà e a ragionare sulla dimensione della crescita economica.[2] Se la stessa sia sempre giustificata, anche quando risulta in palese contrasto con la condizione ecologica del pianeta ed incapace di garantire a tutti i popoli una esistenza dignitosa, non segnata da fame e malattie. Una sollecitazione alla politica e all’economia a cambiare indirizzo, a ripensare un modello di sviluppo meno condizionato e succube del mercato, più attento e rispettoso delle risorse ambientali, orientato non alla sola accumulazione quantitativa, ma alla soddisfazione qualitativa dei bisogni della gente, per superare una crisi che non è solo materiale ma culturale, morale e di incertezza sul futuro.
Dalla crescita senza limiti alla cultura della Sobrietà
Un richiamo da cogliere per mettere in discussione un modello basato sulla teoria di una crescita senza limiti, che ripone incondizionata fiducia nelle risorse della tecnica e nel funzionamento dei mercati. Una cultura basata sulla promozione del consumo per il consumo, come elemento indispensabile per sostenere la produzione, l’occupazione ed i redditi. Consumo di beni spesso indotti ed inutili, da eliminare rapidamente e trasformare in rifiuti, mentre miliardi di persone, a noi sempre più vicine, mancano del minimo necessario a vivere, e i paesi più poveri rischiano di pagare per primi e in misura maggiore la crisi dei paesi ricchi. I cultori della crescita continuano infatti a negare in radice il principio di precauzione nei confronti dello sfruttamento delle risorse naturali e, se mai, pensano di utilizzare proprio la crisi per rinviare gli impegni a ridurre l’inquinamento e le emissioni dei gas serra che stanno riscaldando la terra e mutandone il clima. Impegni che troppo spesso negli ultimi anni sono stati considerati nel nostro paese un disturbo all’uso dei combustibili fossili, per non ostacolare la crescita, sottovalutando, in questo modo, l’importanza strategica per l’Italia dello sviluppo delle fonti rinnovabili.
Sono però oggi le dimensioni della crisi che pretendono nuove risposte e rendono improponibile un modello di sviluppo drogato e insostenibile che in pochi decenni ha saccheggiato l’ambiente, consumato risorse fondamentali come l’acqua, non risolto il problema della fame, aumentato le disuguaglianze e indebitato le future generazioni. La questione ambientale, ignorata e nascosta per l’interesse mercantile legato allo sfruttamento delle risorse naturali, oggi presenta il conto. Insieme ad altre autorevoli voci l’arcivescovo ha proposto così di correggere la rotta, di pensare ad un nuovo progresso più assennato e giusto, più attento alle esigenze del pianeta e alla distribuzione delle risorse. Con un minor consumo di cose e beni superflui, che non migliorano la qualità della vita e non danno la felicità ai singoli, e una maggiore attenzione e più risorse a disposizione per lo sviluppo dei beni sociali fondamentali della ricerca scientifica, di formazione, sanità, sicurezza sociale, educazione e ai troppo spesso inadeguati servizi alle persone. Di fronte agli evidenti limiti di sostenibilità – ecologica, sociale e finanziaria – di una crescita solo quantitativa, si tratta di promuovere il valore di uno sviluppo equilibrato, basato sulla qualità e indirizzato al benessere collettivo. E’ la risposta di una cultura fondata sulla sobrietà, sulla rivalutazione dei beni sociali, dove si constata che non è la rincorsa senza fine all’acquisto che appaga e fa stare bene, ma che questo si trova nella ricerca di una sintonia con un ambiente naturale meno inquinato e in relazioni e scambi con gli altri che accrescono le conoscenze e i saperi. Non si tratta di tornare indietro e non è nostalgia delle condizioni di vita del passato – in generale tanto più dure e povere dell’attuale – ma il saper utilizzare le nuove conoscenze per usare con cognizione e ragionevolezza le risorse non infinite del pianeta che ci ospita.
Inascoltati negli anni del secondo dopoguerra non erano mancati studi approfonditi e denunce autorevoli. Straordinario per idealità e preveggenza il discorso di Robert kennedy del 1967 a Detroit che evidenziava le storture del Pil come supposto indice di misurazione del benessere; di qualche anno più tardi è il preveggente rapporto promosso da un gruppo di personalità del Club di Roma, presieduto da Aurelio Peccei, basato sulla denuncia dei limiti e l’esaurimento delle risorse naturali.
Ma sulla ragionevolezza hanno sin qui prevalso i sostenitori della crescita incondizionata, della superiorità del mercato e della indispensabilità dei consumi, considerati i principali fattori della ricchezza. L’attuale crisi globale se segnala, in maniera drammatica e con pesanti conseguenze sociali, l’insostenibilità e la fine di un modello, può rappresentare l’occasione per far pesare l’ecologia e l’ambiente nella strategia di un nuovo modello di sviluppo sostenibile, facendone integralmente parte. Avendo la possibilità di intervenire a monte, all’origine dei processi e non, come è sempre avvenuto, in coda e alla fine. Con l’inevitabile conseguenza, nel secondo caso, di apparire come chi blocca, pone ostacoli, si oppone al lavoro ed è portatore di una politica del “no”. Occorre cambiare. L’ambiente deve essere parte fondamentale di un nuovo progetto di riconversione della produzione e del tipo di società e, soprattutto in questo campo, deve tornare il primato e l’autonomia della politica non isolando, ma sostenendo chi, contro gli interessi costituiti e i poteri finanziari ed economici, fa valere l’interesse generale rappresentato dalla tutela del territorio. Diventerà a quel punto evidente che sono altri i veri sostenitori delle politiche del “no”: i poteri privati e occulti, le grandi corporazioni, le associazioni e i governi che li assecondano. No alle clausole sociali ed ambientali, no alla pianificazione urbanistica, no alla manutenzione preventiva del territorio e dell’assetto idrogeologico, no alle valutazioni di impatto ambientale, no alla penalizzazione delle emissioni inquinanti, no alla limitazione de traffico privato nelle città, no alle zone pedonali dei centri storici.
Il concetto di sviluppo sostenibile fu introdotto per la prima volta in maniera ufficiale dall’ONU nel 1987 con la diffusione del “rapporto Brundtland” dal titolo: “Il futuro di tutti noi”. A livello internazionale il tema ambientale era stato affrontato nel 1972 a Stoccolma dalla prima “Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo”. La filosofia del rapporto è nell’impegno a perseguire lo sviluppo sostenibile, assicurando cioè il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quello delle generazioni future. Era così ufficializzata la relazione tra sviluppo e ambiente considerati come due fattori inscindibili nelle politiche di piano di qualunque strategia volta al progresso dell’umanità. Nel 1989 il rapporto fu seguito dal primo studio dell’Ipcc per conto dell’Onu sul fenomeno del riscaldamento del pianeta.
In questa ottica, nel 1992, le Nazioni Unite hanno organizzato il “Summit della Terra” a Rio de Janeiro chiamato “Ambiente e sviluppo” e, dieci anni più tardi, la terza conferenza tenuta a Johannesburg (2002) che ha avuto come titolo: “Lo sviluppo sostenibile”. Tra questi due appuntamenti vi è stata la definizione del documento programmatico di Agenda 21, che analizza i principali temi di uno sviluppo sostenibile a livello complessivo, e l’approvazione del “Protocollo di Kyoto” (1997) sull’impegno dei Paesi firmatari a ridurre le emissioni climalteranti. Impegno che la recente conferenza delle Nazioni Unite di Durban (dicembre 2011) è riuscita, anche se con difficoltà, a mantenere e mentre ci si sta preparando per quest’anno a quella sullo sviluppo sostenibile di “Rio + 20”.
Risparmio ed efficienza energetica
I cambiamenti climatici in atto rendono improcrastinabili le decisioni per ridurre in maniera significativa le emissioni di anidride carbonica, che hanno già registrato in atmosfera 384 parti per milione di CO2. Pena ulteriori aumenti delle temperature medie con conseguenti catastrofici mutamenti del clima e il perpetuarsi sulla terra di fenomeni estremi: innalzamento del livello dei mari, nubifragi devastanti, allagamenti, estensione delle zone aride e dei deserti, aumento delle aree con scarsità di acqua. E’ necessario ridurre drasticamente l’utilizzo dei combustibili fossili che si può ottenere solo aumentando l’efficienza energetica, riducendo i consumi, eliminando gli sprechi e sviluppando le fonti energetiche rinnovabili al posto delle attuali centrali elettriche alimentate a carbone e a oli combustibili. Per avere un’idea della dimensione del problema è utile ricordare che la produzione totale di energia elettrica nel mondo nel 2006 era pari a 18.500 miliardi di kilowattora. I due terzi dei quali derivavano da combustibili fossili (il 40% dal carbone, il 6% dal petrolio, il 20% dal gas naturale), il 15% dal nucleare, il 16% dall’energia idroelettrica, e circa il 2% dalle altre rinnovabili. Le centrali a carbone, in particolare, che forniscono circa il 40% dell’elettricità mondiale, sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni di CO2 del settore elettrico. In questo contesto risulta di importanza strategica la nuova politica energetica varata a livello europeo nel 2008 e conosciuta come il “Pacchetto Clima-Energia 20-20-20”.[3] Essa costituisce il nuovo assetto normativo che delinea le opportunità di sviluppo e gli obiettivi della green economy energetica dell’Unione. In particolare l’Europa, con riferimento al 2020, si impegna a: produrre almeno il 20% dell’energia primaria attraverso fonti rinnovabili; ridurre del 20% le emissioni in atmosfera; risparmiare il 20% di energia attraverso un ampio recupero di efficienza.
Il Risparmio energetico, insieme al miglioramento dell’efficienza è, nel breve, l’elemento sul quale è necessario ed urgente intervenire e può essere considerato, per importanza, la prima delle fonti rinnovabili. Il modo più semplice ed economico per ridurre il consumo elettrico nei diversi comparti (residenziale, terziario e industria) consiste nella sostituzione delle inefficienti lampade a incandescenza (GLS) con le nuove lampade fluorescenti (LFC) in grado di risparmiare ben il 75% di energia. Una lampada fluorescente dura in media 10 volte di più e, consumando meno energia, consente una diminuzione delle emissioni di CO2 permettendo, nell’arco della sua vita, di ridurre il fabbisogno di energia di 90 chilogrammi di carbone. Una nuova tecnologia, adatta per l’illuminazione pubblica e dei semafori, si basa su diodi a emissione luminosa, detti LED, e utilizza solo un quinto di energia elettrica rispetto alle lampade a incandescenza tradizionali. Naturalmente, oltre alla sostituzione delle lampade, il risparmio energetico si ottiene eliminando gli sprechi. A questo proposito le soluzioni tecniche sono numerose: sensori di movimento per chiudere la luce negli ambienti quando questi (corridoi, scale, bagni, saloni) non sono occupati; nelle città variatori di luminosità (dimmer) per ridurre l’intensità della luce nelle strade e timer per spegnere le luci di monumenti e edifici pubblici durante la notte. Il passaggio alle più avanzate lampade fluorescenti tubolari nelle case, negli uffici, nelle fabbriche e nei centri commerciali, e ai LED nelle luci delle città, si stima possa ridurre la quota mondiale di energia elettrica usata per l’illuminazione, dal 19 al 7%. Analogamente si migliora l’efficienza, specie nel settore residenziale, con la sostituzione degli elettrodomestici tradizionali (lavastoviglie, frigoriferi e congelatori, lavabiancheria e scalda acqua elettrici) con apparecchiature di “classe A, A+, A+ +” e impiegando condizionatori e impianti di riscaldamento più efficienti.
Il settore dell’edilizia a livello mondiale è responsabile di una buona parte del consumo di energia, di impiego di materie prime e di produzione di rifiuti. Negli Stati Uniti gli edifici commerciali e residenziali consumano il 70% dell’elettricità e sono responsabili del 38% delle emissioni di CO2. Nel mondo la costruzione degli edifici utilizza il 40% di tutte le materie prime.
Una casa italiana presenta una media dei consumi tra i più alti d’Europa, attestandosi sui 150 kilovattora per metro quadrato l’anno. Un livello che con le attuali tecnologie e le dovute accortezze costruttive potrebbe essere ridotto anche del 50%. In Germania, per legge, le abitazioni non possono consumare più di 70 kilovattora e nel caso delle case passive non devono superare i 15. Per comprendere l’incidenza del settore residenziale italiano sul totale dei consumi di energia è utile sapere che questi ammontano al 35,2% e, di questi, almeno il 70% sono relativi al riscaldamento.[4] Le soluzioni architettoniche e le tecnologie di costruzione attuali permettono di progettare facilmente nuovi edifici dai consumi dimezzati rispetto al passato e il settore delle costruzioni e quello dei beni immobili stanno sempre più riconoscendo il valore degli edifici verdi. Tra le tecniche di progettazione vi è lo sfruttamento della luce naturale, la copertura di tetti con pannelli fotovoltaici, la ventilazione naturale, le finestre termoisolanti, la riduzione del consumo di acqua, tecnologie di illuminazione più efficienti e i sensori di movimento per comandarne l’accensione. In Alto Adige da anni fa scuola il sistema di certificazione energetica di “CasaClima”[5], nel quale un’abitazione in “classe A” risparmia sui costi di riscaldamento dal 50 al 70%. E’ possibile migliorare il rendimento energetico anche negli edifici vecchi e inefficienti, coibentando le superfici e sostituendo i vetri semplici, risparmiando fino al 20-25% di energia. A questo fine la detrazione fiscale del 55% si è rivelata utilissima e ha favorito oltre un milione di interventi realizzati, con un picco di 405 mila nel 2010. La misura ha consentito di avviare il sistema delle imprese in direzione della riqualificazione energetica degli edifici e il ritorno complessivo dell’investimento -considerando l’emersione del lavoro nero e le maggiori entrate fiscali – è anche stato positivo per i bilanci dello Stato. Secondo il direttore del Kyoto Club Gianni Silvestrini, è possibile ridurre di un terzo i consumi energetici, recuperando l’occupazione persa in questi anni e incrementarla con una politica di risparmio ed efficienza che interessi, in primo luogo, il settore pubblico. Va inoltre considerato che dal primo gennaio 2012 la certificazione energetica degli edifici è diventata obbligatoria e tutti gli annunci di vendita di edifici o di singole case dovranno riportare l’Indice di prestazione energetica.
A questo proposito uno studio dell’Enea[6] riferito al settore edile individua nello sviluppo di tecnologie per l’efficienza energetica la possibilità di una contrazione di CO2 nell’atmosfera connessa a rilevanti ricadute occupazionali. Altre stime (WWF) confermano e rafforzano questo dato di tendenza in considerazione anche delle normative sulle prestazioni energetiche degli edifici che potrebbe generare tra i 280.000 e i 450.000 nuovi occupati entro il 2020. Comportando anche lo sviluppo di figure professioni riferite alla bioedilizia, alla certificazione energetica degli edifici, alla progettazione e produzione di materiali a basso impatto ambientale per l’isolamento termico, alla realizzazione di sistemi passivi per il riscaldamento ed il raffreddamento, oltre all’integrazione dei sistemi tradizionali per la fornitura di energia termica e/o elettrica con sistemi innovativi di generazione dell’energia e di tecnologie per una gestione ottimale dei servizi energetici.
La ristrutturazione energetica degli edifici privati, pubblici, commerciali e industriali esistenti – insieme ad un piano straordinario per la manutenzione del territorio finalizzato a prevenire i movimenti franosi e adeguare l’assetto idrogeologico – risulta anche funzionale alla non più rinviabile riorganizzazione del settore delle costruzioni. Il quale si trova, nel nostro Paese, a fare i conti con il più alto consumo di suolo in Europa, che non può più essere ulteriormente sfruttato per un minimo di tutela delle produzioni agricole, ma, soprattutto, per ridurre le conseguenze di una cementificazione sregolata e abnorme su quel che rimane del bellissimo e fragile paesaggio italiano. A fronte di un andamento demografico stabile, negli ultimi dieci anni e solo nelle grandi città, si sono costruite 4 milioni di nuove case, ma moltissime sono vuote e almeno 2 milioni sono gli appartamenti che risultano invenduti.[7] In questo campo, secondo il “Manifesto per un futuro sostenibile dell’Italia”, promosso da imprenditori e esponenti di organizzazioni di imprese: “E’ tempo di definire le linee fondamentali per l’assetto del territorio italiano volto a costituire le basi di una riforma dell’urbanistica, tutelare le qualità ecologiche del nostro ambiente e frenarne il consumo, stabilendo che non se ne impiega di nuovo se non si dimostra di non poter far fronte alle esigenze recuperando patrimonio esistente, accelerando le bonifiche e il riutilizzo dei siti contaminati e promuovendo la manutenzione e la prevenzione dei rischi di dissesto idrogeologico”.[8]
Anche per quanto riguarda il sistema dei trasporti – essendo uno dei maggiori responsabili dell’emissione di gas serra per l’Unione europea – sono analogamente urgenti e numerose le ragioni della sua riorganizzazione ecologica: stabilizzare i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, prepararsi alle conseguenze del picco della produzione petrolifera, alleggerire, in particolare, nelle città la circolazione automobilistica e ridurre l’inquinamento atmosferico. Veicoli ibridi, elettrici e maggiore efficienza nei consumi, da un lato, e una mobilità sempre più basata su un mix di ferrovie leggere, autobus, biciclette e spostamenti a piedi, rappresentano il modello futuro delle città. In Europa, le emissioni di anidride carbonica per chilometro e per passeggero sui treni ad alta velocità sono un terzo di quelle delle automobili e un quarto di quelle degli aerei. I collegamenti ferroviari vanno potenziati perché riducono l’inquinamento dell’aria, la congestione del traffico, il rumore e gli incidenti. A questo fine serve trasferire in maniera significativa i finanziamenti per i trasporti dalla costruzione di autostrade a quella di ferrovie urbane ed extraurbane. Nei trasporti l’impegno globale per tagliare le emissioni di CO2 non può che iniziare dagli Stati Uniti che da soli consumano più carburante dei 20 maggiori emettitori messi insieme, inclusi Giappone, Cina, Russia, Germania e Brasile. Gli USA con 238 milioni di veicoli sugli 860 globali (il 28% del totale mondiale) possiedono il più imponente parco automobilistico e sono vicini al minimo per quanto riguarda l’efficienza di consumo. In Europa è l’Italia il paese leader per quanto riguarda la mobilità privata su strada. Il nostro paese detiene infatti il record negativo del ricorso all’automobile (15200 km annui percorsi per abitante, il 22% in più della media europea e il 44% in più rispetto alla Germania).[9]
La mobilità sostenibile
La “Settimana per la mobilità europea”, istituita nel 2002, si pone l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini e le amministrazioni per accrescere consapevolezza e sostegno alle indispensabili azioni contro l’inquinamento da traffico. Il settore dei trasporti è, infatti, universalmente considerato tra i maggiori responsabili delle emissioni di CO2 in atmosfera. In questo comparto decongestionare il traffico, ridefinendo la mobilità nei centri urbani, e sviluppare il trasporto pubblico delle persone e delle merci, avendo a riferimento la tutela della salute e la qualità della vita, devono rappresentare le priorità sulle quali intervenire.
Nel 2008 la popolazione che vive nelle città ha superato la metà della popolazione mondiale rendendoci, per la prima volta, una specie urbana. L’evoluzione della città moderna è legata ai progressi nel settore dei trasporti, ma è stato soprattutto il motore a scoppio, insieme al basso costo del petrolio, che ha fatto esplodere la crescita urbana del XX secolo. Nel 1900, 150 milioni di persone vivevano in contesti cittadini, nel 2000 sono diventati 2,8 miliardi. All’inizio del secolo scorso solo poche città raggiungevano il milione di abitanti, oggi 414 città raggiungono o superano questo valore, ed esistono venti megalopoli con dieci o più milioni di residenti. Tokyo, con 35 milioni, ha più abitanti del Canada. Città del Messico, con 19 milioni, è pari alla popolazione dell’Australia. Seguono, da vicino, New York, San Paolo, Bombey, Delhi, Shanghai, Calcutta e Jakarta. Le aree delle città di tutto il mondo, però, oggi stanno affrontando problemi senza precedenti: l’aria che si respira non è più sicura per la salute, crescono le ore che i pendolari perdono su strade e autostrade congestionate dal traffico, l’aumento del prezzo del petrolio fa salire il costo dell’energia che si scarica su servizi e prodotti. Come risposta a questa situazione e a una condizione in rapido peggioramento, sta nascendo un nuovo concetto di urbanizzazione e, in diverse parti del mondo, si sta tornando a progettare le città a misura e per l’uomo e non per le automobili.
In un mondo in via di urbanizzazione diventa sempre più chiaro ai cittadini che esiste un conflitto tra l’automobile e la città. Superata una certa soglia le auto, che promettono mobilità, diventano esse stesse causa di immobilità. Per questa nuova filosofia urbanistica nella mobilità urbana prevalgono autobus, tram, biciclette, spostamenti a piedi, e i parchi diventano uno spazio pubblico importante per le relazioni sociali, l’esercizio fisico, i giochi dei bambini, cui destinare nei bilanci le risorse necessarie.
Autobus, tram e biciclette offrono la migliore mobilità possibile con trasporti a basso costo e un salutare ambiente urbano. Numerose sono le città al mondo che stanno ripensando il ruolo dell’auto nei sistemi di trasporto urbano e mettendo in atto progetti e iniziative – pagamento pedaggi all’ingresso, divieto per i veicoli più inquinanti, zone a traffico limitato, zone a 30 e a 10 km./ora – in ogni caso volte a ridurre la loro presenza. Ad Amsterdam solo il 40% dei lavoratori va al lavoro in auto, il 35 usa la bicicletta e si sposta a piedi, mentre il 25% usa i mezzi pubblici. A Copenaghen la situazione è, sostanzialmente, identica. Il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoè, si è dato come obiettivo quello di ridurre del 40% il traffico entro il 2020 e la città sta investendo in trasporti pubblici di alta qualità, realizzando, nelle vie più trafficate, corsie preferenziali per autobus e biciclette, e riducendo le corsie per le automobili. Ed è in piena attuazione il piano di noleggio di biciclette che nel 2007 ha messo a disposizione circa 20.600 due ruote, Velib, in 1450 rastrelliere nella città, incontrando il favore dei parigini. In Francia Lione e Nizza rappresentano altri esempi positivi di utilizzo delle bici condivise dai cittadini. Le città che hanno sistemi di trasporto pubblico efficienti e una rete di piste ciclabili bene sviluppate sono oggi quelle meglio preparate ad affrontare le tensioni e le conseguenze provocate dal costo del petrolio e, in prospettiva, dalla contrazione della sua produzione.
La bicicletta, per la mobilità individuale, rappresenta l’elemento, sotto diversi punti di vista, più attraente e utile per i cittadini. Alleggerisce la congestione delle strade, non inquina, non è rumorosa, migliora la forma fisica, fa risparmiare e ha un prezzo accessibile. Le bici, il cui utilizzo cittadino risulta ottimale per le brevi distanze, entro i 5 chilometri, riducono e velocizzano il traffico e la necessità delle superfici asfaltate: 6 biciclette occupano lo spazio di un’auto. Per il parcheggio, il vantaggio è più evidente, visto che 20 biciclette occupano lo spazio di un posto auto. Molte attività si stanno orientando verso le biciclette per diversi utilizzi: i corrieri che eseguono il trasporto di piccoli pacchi in bici sono comuni nelle grandi città perché consegnano più velocemente delle automobili e ad un costo più basso; così i vigili urbani e i poliziotti. Negli Stati Uniti la maggioranza dei dipendenti di polizia di centri con almeno 50 mila abitanti dispongono di pattuglie di sorveglianza in bicicletta. Per favorire lo sviluppo dell’utilizzo della bicicletta serve un sistema dei trasporti che ne faciliti l’uso realizzando piste e corsie riservate. I Paesi che più hanno progettato sistemi di trasporto ciclabili sono, in Europa, gli olandesi, i danesi e i tedeschi: in queste realtà, come ad esempio la città di Monaco nella Baviera, il sistema prevede la precedenza ai ciclisti rispetto agli automobilisti provenienti da destra e ai semafori. Il Giappone ha portato avanti uno sforzo di integrazione tra biciclette e servizi ferroviari per pendolari mettendo a disposizione parcheggi per biciclette alle stazioni e rendendo più semplice ai ciclisti recarsi al lavoro in treno. In Giappone l’uso della bicicletta e del treno ha raggiunto un tale sviluppo che prevalgono nelle stazioni i parcheggi verticali multi livello riservati alle due ruote, rispetto a quelli per le auto.
La combinazione e l’integrazione della mobilità sul ferro e della mobilità ciclabile rende la città notevolmente più vivibile rispetto al quasi esclusivo impiego delle auto private. In Italia le città che più hanno investito su piste ciclabili e sistemi bike sharing, si trovano in prevalenza al centro e al nord: Ferrara, Reggio Emilia, Parma, Modena, Ravenna nell’Emilia-Romagna, Mantova, Lodi, Cremona, Brescia in Lombardia e Bolzano nel Trentino dove il servizio è stato reso fruibile anche a chi arriva in centro da fuori. Nel Mezzogiorno Bari ha lanciato il bike sharing per decongestionare il traffico cittadino con risultati ottimi. In Piemonte la citata indagine di Legambiente assegna a Vercelli il migliore indice di ciclabilità (metri equivalenti di piste ciclabili e zone 30 per 100 abitanti), terza in assoluto tra i capoluoghi (26,02 m), dopo Reggio Emilia e Mantova. Bene anche Cuneo, settima (22,44). Alessandria è 38° (5,96 m) davanti a Biella (5,70 m).
Certo è che la creazione di città più vivibili e a misura d’uomo e non di automobile dipende da un indirizzo politico-amministrativo che decida di trasferire gli stanziamenti previsti per la costruzione e manutenzione di nuove strade e spazi per le auto, a infrastrutture di supporto per mezzi pubblici e biciclette. La notizia positiva è che sindaci ed urbanisti in tutto il mondo stanno ripensando il ruolo dell’auto nei sistemi di trasporto urbani. Si sta progettando il ridimensionamento del ruolo urbano delle automobili e si pongono le basi per un cambiamento nella concezione della mobilità, rendendo centrali i trasporti pubblici, ridisegnando strade agevoli per pedoni e ciclisti, sostituendo le aree di parcheggio con parchi, zone ricreative e sportive. Incomprensibile, a questo proposito, risulta la decisione della Fiat Iveco di chiudere lo stabilimento di autobus urbani, extraurbani e turistici “Iribus” di Valle Ufita (Avellino) che, oltre a mettere in discussione 700 posti di lavoro, vanifica la possibilità di mantenere e valorizzare, sotto il profilo strategico, una produzione nazionale di mezzi meno inquinanti e indispensabili a favorire e incentivare il trasporto pubblico.
Recupero e riciclo dei materiali
Con la produzione, la lavorazione, e lo smaltimento dei materiali nel modello economico dell’usa e getta che si è diffuso nell’ultima metà del secolo scorso, si sprecano non solo materie prime, ma molta energia. Le attività industriali, compresa la produzione di materie plastiche, fertilizzanti, acciaio, cemento e carta, incidono per più del 30% sul consumo mondiale di energia.
Il settore petrolchimico, attivo in queste produzioni, è il più energivoro e consuma un terzo dell’energia industriale globale. Di conseguenza l’aumento del recupero e del riciclo dei materiali può ridurre la necessità di estrarre nuove materie prime e ridurre di circa un terzo l’energia consumata dall’industria petrolchimica. L’industria metallurgica mondiale, con una produzione di oltre 1,2 miliardi di tonnellate nel 2006, è la seconda più grande consumatrice di energia nel settore manifatturiero (19%). Con il recupero e il riciclaggio completo dell’acciaio usato e adottando misure di efficienza energetica, come i migliori sistemi di fusione oggi disponibili, si potrebbe ridurre del 23% l’energia consumata nel settore metallurgico. Negli Usa, ad esempio, la percentuale di riciclaggio degli elettrodomestici è stimata intorno al 90%, mentre totale è il riciclo delle automobili. La grande sfida nelle città di tutto il mondo è rappresentata dal riciclaggio delle diverse componenti dei rifiuti, in questo modo si utilizza solo una frazione dell’energia necessaria per produrre gli stessi oggetti dalla materia prima grezza. Il riciclaggio è possibile per tutti i prodotti di carta, per il vetro, la maggior parte delle plastiche, l’alluminio e i materiali provenienti dalla demolizione degli edifici. L’acciaio e l’alluminio possono essere usati e riciclati all’infinito. Oggi, dopo che la città di San Francisco (California) si è posta l’obiettivo “rifiuti zero” per il 2020 ed attualmente ha già raggiunto nella raccolta differenziata il 78%, dovrebbe diventare per tutti imbarazzante continuare a sostenere il ruolo centrale nel ciclo dei rifiuti delle discariche e degli impianti di incenerimento.
In aggiunta alle misure che incentivano il riciclaggio dei materiali, ci sono quelle che incoraggiano il riuso dei prodotti come i contenitori per le bevande. La Finlandia, per esempio, ha proibito l’impiego dei contenitori usa e getta per bevande, mentre l’isola di Prince Edward in Canada ha adottato un analogo divieto su tutti i contenitori che non siano riutilizzabili.
Per abbattere le emissioni di CO2 è, poi, consigliabile disincentivare le attività ad alto consumo energetico che non siano necessarie. Dal punto di vista dell’impatto sul clima è, ad esempio, difficile da giustificare l’imbottigliamento dell’acqua, che spesso equivale all’acqua del rubinetto, il suo trasporto su lunghe distanze e la vendita a prezzi assurdi. Anche se un abile marketing ha convinto molti consumatori che l’acqua in bottiglia è più sicura e salutare di quella che viene erogata dai loro rubinetti, uno studio del WWF sottolinea, anzi, che negli Stati Uniti e in Europa ci sono più controlli sulla qualità dell’acqua del rubinetto. Negli ultimi anni in Italia numerosi sindaci si sono fatti promotori dell’acqua del rubinetto, negli USA quello di San Francisco ha proibito l’uso di fondi comunali per acquistare acqua imbottigliata e la città di New York ha avviato una campagna pubblicitaria per promuovere la sua acqua e liberare così la città dalle flotte di camion per la consegna dell’acqua imbottigliata che intasano il traffico.
Le energie rinnovabili
Ma la decisività dell’elemento ambientale, non riguarda solo agli aspetti della tutela, ma la crescente influenza economica che l’ecologia assume sulla qualità dello sviluppo e l’occupazione.
La Commissione Europea, nel riconoscere la priorità della crisi climatica e della lotta per la salvaguardia del pianeta, è impegnata a mantenere il riscaldamento del pianeta al di sotto dei 2°C e questo costituisce una opportunità per definire nuove economie a basse emissioni di carbonio e indurre una rivoluzione industriale in cui i vincoli imposti possono rappresentare il motore di una nuova economia capace di dare risposte all’attuale crisi. In particolare nei comparti delle energie rinnovabili dove si giocherà, a livello planetario, la sfida dell’innovazione, della competitività e del lavoro. Lo sviluppo delle rinnovabili e il miglioramento dell’efficienza energetica stanno diventando nei paesi industrializzati (USA, Germania, Spagna, Danimarca), come in quelli emergenti (Cina, India e Brasile) o in via di sviluppo (Kenya e Angola), un fattore propulsivo di economia reale, facendo dell’attuale crisi un’opportunità di cambiamento in direzione di un new deal verde che può rappresentare la “nuova rivoluzione industriale del XXI secolo”.[10]
Secondo il recente rapporto[11] di due Agenzie delle Nazioni Unite (UNED e OIL) l’offerta occupazionale dei cosiddetti “green jobs”, o lavori verdi, può riguardare fino a 4 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo industrializzato e una cifra anche superiore nei Paesi in via di sviluppo.
E’ un trend positivo confermato anche dall’andamento degli investimenti destinato a raddoppiare dagli attuali 1.370 miliardi di dollari l’anno a 2.740 entro il 2020. In Germania, per esempio, i capitali scommessi in tecnologie sono addirittura quadruplicati e toccheranno il 16% dell’intera produzione industriale con una forza lavoro superiore a quella delle industrie di macchine utensili e auto. Lo studio analizza inoltre gli sbocchi di occupazione verde nell’agricoltura, industria, servizi, nella pubblica amministrazione, sostenendo che queste opportunità possono rappresentare una via d’uscita dalla crisi.
Uno studio dell’istituto di ricerca IRES – presentato ad un convegno organizzato dalla categoria dei chimici e tessili della Cgil (Filctem)[12] – ha analizzato le possibilità degli nvestimenti, le ricadute occupazionali e le nuove professionalità legate ai lavori verdi, in primo luogo, derivanti dalle fonti rinnovabili. La ricerca ha messo in evidenza le potenzialità di sviluppo di questo settore a livello nazionale e nelle regioni del Mezzogiorno, a partire dallo sviluppo della geotermia in Campania, del solare, dell’eolico e delle biomasse. Secondo le proiezioni dell’Istituto, entro dieci anni il contributo netto all’occupazione diretta e stabile sarebbe di 9mila unità nel Sud e 12mila a nell’intero paese.
Se poi consideriamo anche l’occupazione indiretta e quella temporanea, si raggiungerebbero le 60.500 unità circa. Cifra che nelle prospettive più rosee potrebbe addirittura salire a quota 250mila, con una predominanza delle biomasse, del fotovoltaico e dell’eolico. In termini di valore aggiunto l’industria italiana potrà realizzare un fatturato medio annuo compreso tra i 2,5 e i 5,5 miliardi di euro annui per il prossimo decennio. Il forte sviluppo delle rinnovabili comporterà una grande trasformazione anche delle reti elettriche di trasporto e distribuzione. La realizzazione di “network intelligenti” potrà determinare invece in Italia investimenti stimati attorno a 1,5 miliardi di euro. Numerose sono, poi, le figure tradizionali operanti nel settore delle rinnovabili che stanno vivendo un processo di riqualificazione.
La Green Economy e le prospettive dei lavori verdi
I temi dell’Ecologia e dell’Ambiente stanno rapidamente cessando di essere considerati settoriali per divenire generali e caratterizzare, ai diversi livelli, l’indirizzo politico-programmatico dei governi e delle amministrazioni. Mentre i contenuti, se continuano a contemplare la tutela della natura e la valorizzazione del paesaggio, si completano ed estendono ai temi dell’economia e del lavoro. Nel nostro Paese i risultati dei referendum ambientali – che hanno colto completamente impreparato il precedente governo, ma sorpreso anche parte dell’opposizione – stanno producendo, in questa direzione, una decisa accelerazione. Analogamente sta capitando, sia per reagire alla crisi che per effetto del disastroso incidente alla centrale giapponese di Fukushima, in Europa e negli Stati Uniti. Così in Germania – che conta già 370 mila addetti nelle rinnovabili – il governo della Merkel ha deciso di fuoriuscire dal nucleare e si impegna a produrre entro il 2030 almeno il 50% dell’energia elettrica da fonti pulite. E, nel contempo, le elezioni nel Bad Wurttemberg – il Lander di Stoccarda che con 10,7 milioni di abitanti è il più industriale della nazione – sono state vinte dai verdi con un programma che al primo posto mette la green economy e formula precise proposte che riguardano le prospettive dei green job, i lavori verdi. Negli USA, sotto la spinta di Barack Obama, Washington stanzia 70 miliardi di dollari per incentivare studi e imprese nel solare, nell’eolico, nei bio-combustibili e nella bio edilizia.[13] Solo nell’aggiornamento termico dei vecchi edifici, in direzione di un forte risparmio energetico e di una riduzione delle emissioni in atmosfera, si stima verranno prodotti, nei prossimi anni, un milione e 300 mila posti di lavoro. E la Cina, in questo campo, non è certamente intenzionata a rimanere indietro, basta pensare che Pechino ha destinato, per sostenere la produzione, il 38 per cento dei fondi al settore ambientale.
Per le forze politiche progressiste della sinistra italiana non si tratta, quindi, solo di prendere atto e, con opportunismo, “cambiare cavallo”, ma ripensare a fondo la propria strategia, in direzione di una sostenibilità dello sviluppo basata sulla innovazione, la qualità dei prodotti e delle produzioni e una nuova consapevolezza dello stato del clima e dei limiti delle principali risorse naturali.
Nel nostro paese la quota stanziata dal precedente governo a favore dell’economia verde è ridicola, solo l’1,3 per cento, e irresponsabile il comportamento tenuto nei confronti delle energie rinnovabili. In particolare l’incertezza manifestata nella politica degli incentivi, con un continuo rimettere in discussione gli impegni presi, ha reso incerto e inaffidabile il sistema e aumentato i rischi di chi vuole investire. Ma nonostante l’indifferenza dell’esecutivo la nuova economia si sta rapidamente muovendo anche in Italia. Nel censimento che la Bocconi ha svolto per conto di Assolombarda fra le aziende green in provincia di Milano è, ad esempio, emersa la presenza di 400 società con 50 miliardi di fatturato e 25 mila dipendenti.[14]
Se nel settore delle rinnovabili le indicazioni dell’ultima fiera “Solarexpo” di Verona confermano che sarà il fotovoltaico a trainare l’intero comparto il quale, nel prossimo biennio, avrà bisogno di 70 mila tra ingegneri, personale gestionale e venditori specializzati, numerosi altre sono le attività interessate dalla economia verde. Ma lo stesso settore chimico, che per decenni ha prodotto un forte impatto ambientale, registra con la società “Novamond” importanti novità nel settore delle plastiche biodegradabili che possono trasformare e sostituire parte degli attuali impianti petrolchimici in bioraffinerie con la creazione, anche qui, di nuovi posti di lavoro. Così come l’industria del riciclo e del recupero dei materiali che con il Conai, il consorzio per il recupero degli imballaggi, ha creato, in dieci anni di attività, 90 mila posti di lavoro all’interno delle oltre 300 aziende che mettono in atto efficienti sistemi di raccolta differenziata. Con una significativa riduzione degli smaltimenti dei rifiuti nelle discariche e forti benefici nell’abbattimento delle emissioni inquinanti.
Un comparto destinato ad un ulteriore sviluppo considerati gli obiettivi di legge della Comunità Europea che prevedono di raggiungere il 65 per cento nella raccolta differenziata dei rifiuti urbani entro il 2012 e conseguire nel 2020 la quota del riciclo al 50 per cento. Mentre oggi siamo, come media del paese, al di sotto del 30 per cento nella differenziata e al 20 nel riciclo. Per un raffronto con altre nazioni è utile segnalare che la Gran Bretagna è già al 34 per cento nel riciclo e la Germania, addirittura, al 62[15]. Bisognerà, di conseguenza, sviluppare questa pratica in settori oggi trascurati come i rifiuti ingombranti, gli apparecchi elettrici ed elettronici (Raee) e l’organico per il quale produrre compost di qualità. Un aiuto consistente a questa attività potrà venire se le pubbliche amministrazioni prenderanno finalmente sul serio la norma sul green public procurement che le obbliga negli acquisti a una quota del 30 per cento di prodotti verdi. Una misura che la Provincia di Alessandria ha iniziato ad adottare nel 2006. E’ del tutto evidente che la decisione del Comune di Alessandria di abbandonare nella gestione dei rifiuti la raccolta domiciliare e riportare i contenitori sulle strade rappresenta una scelta regressiva al posto di un indirizzo di innovazione legato alla filiera del riciclo, del recupero dei materiali, del risparmio energetico e della riduzione delle emissioni climalteranti. Si tratta, nei fatti, di un sostanziale ritorno indietro alla centralità delle discariche inquinanti, mal sopportate dai cittadini, e alla pratica dell’incenerimento.
Per l’Italia è indispensabile un recupero in tecnologia e formazione
Anche il mondo della formazione si fa green, gli eco-master universitari sono aumentati di cinque volte negli ultimi otto anni e le prospettive per i prossimi tempi accademici sono di ulteriori incrementi. In questo favoriti dalle buone opportunità occupazionali che lo sviluppo della green economy italiana promette. Mentre diverse Università si stanno attrezzando attraverso un’ampia offerta di nuovi corsi e master ecologici, sarebbe bene che Comune e Provincia di Alessandria, insieme all’approvazione di un significativo sostegno economico, richiedessero alla locale sede dell’Università “Amedeo Avogadro” una forte specializzazione dei corsi dell’ateneo in dottorati in Economia ambientale. Per rispondere ai futuri fabbisogni professionali e formativi connessi alle attività e ai nuovi lavori verdi. Esiste infatti un rapporto diretto tra impegno nei campi ambientali e capacità di incremento delle produzioni. Nei prossimi cinque anni, in Italia, diverse fonti concordano nel prevedere che la green economy realizzerà oltre un milione di posti di lavoro e rappresenterà uno degli elementi più concreti per superare l’attuale crisi. In particolare nel fotovoltaico il nostro paese, grazie agli incentivi pubblici, ha – secondo l’autorevole centro studi della California sulle energie alternative, Ihs – quasi raddoppiato i sistemi solari installati in un anno: dai 3,6 gigawat del 2010 è passata ai 6,9 gigawat di nuovi impianti nel 2011. Superando addirittura la Germania e aggiudicandosi il primato mondiale nel solare. In questa classifica al terzo posto si sono piazzati gli Stati Uniti con 2,7 gigawat di nuove installazione, al quarto la Cina con 1,7 seguita da Giappone (1,3) e Francia (1). Tra le regioni la Puglia con 16803 impianti per 1486 megawat si conferma quella con una maggiore capacità produttiva da fonti rinnovabili, mentre la Toscana ha segnato nel 2011 la maggiore crescita con 8343 nuovi impianti per 337 megawat.[16]
Va però conclusivamente osservato che affinché il sistema paese possa beneficiare delle opportunità offerte dal forte aumento delle rinnovabili, è indispensabile venga deciso un adeguato investimento in ricerca e sviluppo, parallelamente a quello in favore della formazione di profili professionali coinvolti nei processi di innovazione tecnologica. Infatti il progresso dei diversi settori delle fonti rinnovabili è funzionale, non solo agli sgravi fiscali, ma alla definizione di politiche industriali ed energetiche in grado di rispondere alla rapida innovazione dei prodotti. L’economia ecologica non ha e non può avere una posizione contraria all’industria – anche se ne riconosce i danni causati negli anni – e la green economy non è quindi la fine dell’industria bensì può rappresentare un cammino di riconversione che porta alla sostenibilità ambientale e sociale dell’industria. Se l’Italia, come abbiamo visto, in questi ultimi anni ha saputo utilizzare l’impiego delle energie rinnovabili è però rimasta ferma sul piano dell’innovazione e della tecnologia, penalizzando i comparti della produzione e importando sul mercato italiano prodotti di aziende straniere. Nella manifattura e nell’export, ad esempio, dei pannelli fotovoltaici la Cina ha ormai consolidato il suo primato. Mentre le fasi lavorative del comparto che impiegano realtà nazionali corrispondono alla distribuzione e installazione che risultano a basso valore aggiunto. Riferendosi al solare è, in particolare, necessario provvedere allo sviluppo dell’intera filiera coinvolta, dalla produzione del pannello al suo uso. Perciò, in questo come in altri settori, occorre ripensare a una politica economica e industriale che, come suggerisce Luciano Gallino: “sia volta a favorire un’occupazione ad alta intensità di conoscenza e uno sviluppo più autonomo ed equilibrato di tutto il paese”.[17] Per competere nel segmento alto delle produzioni e dei prodotti.
Infine, in questo decisivo campo – come si raccomanda lo studio dell’IRES su “Energia e lavoro sostenibile”– il coinvolgimento attivo dei lavoratori e il protagonismo del sindacato possono avere un ruolo fondamentale: “nello sviluppo di una politica industriale in favore della tutela dei diritti, della sicurezza e della salute dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente”.[18]
Alessandria, 24 gennaio 2012
[1] La Repubblica del 28 dicembre 2011 – “Abolire la miseria” di Barbara Spinelli.
[2] Dionigi Tettamanzi: “La sobrietà dimenticata”, discorso tenuto a Varese il 15 gennaio 2009
[3] Il Consiglio europeo ha tradotto la strategia clima-energia “20-20-20” nella direttiva 2009/28/CE approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo il 23 aprile 2009.
[4] Serena Rugiero dell’IRES – presentazione n. 14/2011
[5] Il progetto CasaClima è un metodo di certificazione energetica degli edifici. La certificazione consente di quantificare il contenimento del consumo e l’uso efficiente di risorse nel progetto urbanistico ed edilizio, valutando la reale sostenibilità dell’intervento. La Provincia autonoma di Bolzano è la prima in Italia ad aver introdotto l’obbligo della certificazione energetica CasaClima ed è la stessa provincia a certificare gli edifici aumentandone il valore commerciale. A giugno 2011 l’Agenzia CasaClima di Bolzano, in quanto organo certificatore pubblico indipendente, ha certificato oltre 2500 edifici, distribuiti su tutto il territorio nazionale. L’Agenzia offre anche programmi di formazione per tutti gli operatori coinvolti nella costruzione e promuove iniziative per sensibilizzare e responsabilizzare tutta la cittadinanza su: risparmio energetico, sostenibilità e mutamenti climatici. Collabora inoltre con i più importanti partner del settore, aziende ed istituzioni, sia in Italia che all’estero.
[6] ENEA: “Crisi economica e intervento pubblico” del 26 febbraio 2009
[7] Salvatore Settis: “Serve un Keynes per salvare il paese”, la Repubblica del 15/12/2011
[8]www.manifestofuturosostenibile.it
[9] Fonte Apat 2007
[10] “La Frontiera della Sostenibilità” di Rita Ammassari e Maria Teresa Palleschi
[11] “Green Jobs: Towards decent work in a sustainable, low-carbon word”
[12] Roma, convegno della Filctem-Cgil del 23 marzo 2010
[13] “Se l’ecologia diventa un mestiere” di Vittorio Zucconi, la Repubblica del 9/06 2011
[14] Intervista a Gianni Silvestrini su “la Repubblica” del 9 giugno 2011.
[15] Imballaggi la seconda vita dei materiali da “Le Guide di Repubblica” del 21 giugno 2011.
[16] Federico Rampini: “L’Italia sceglie il sole ora nel fotovoltaico siamo primi al mondo” – “la Repubblica” 10/1/2012
[17] Luciano Gallino: “La scomparsa dell’Italia industriale” – Giulio Einaudi editore
[18] IRES: Dossier a cura del Forum “Energie Rinnovabili e Sostenibili” della Cgil Nazionale del 24 gennaio 2011