17 febbraio 2012 – Sergio Ferrari: “A che cosa serva un partito senza storia e senza memoria in questo contesto non è dato di comprendere, ma se sino a ieri poteva sopravvivere all’ombra dei poteri reali, oggi la necessità di compiere delle scelte investe anche quella rendita.”
Sulle irrequietezze che si muovono attualmente nel PD, Scalfari domande garanzie perché non si determinino degli avvicinamenti al PSE dando luogo ad un partito socialdemocratico “che oggi mi sembra del tutto anomalo”. Accusare Scalfari di essere un voltagabbana, visto che si era iscritto al partito socialista di Nenni, sarebbe del tutto scorretto e sbagliato. Cambiare idea in politica è un fenomeno molto diffuso e il caso Scalfari non è certo il primo e non sarà l’ultimo. Certo, se si trattasse di un difetto non sarebbe sufficiente essere in molti per esserne esente. Il paradosso sta nel fatto che se non ci fossero dei cambiamenti nelle convinzioni politiche della gente, potremmo fare le elezioni oggi e le prossime con la generazione successiva.
La questione è un’altra e anche questa non riguarda solo Scalfari: cambiare idea, soprattutto quando si occupa una posizione di rilievo nell’opinione pubblica o politica, dovrebbe comportare, come dovere prioritario, l’esposizione dei travagli e delle riflessioni che hanno portato a quel cambiamento.
Invece le motivazioni di Scalfari – e di quasi tutti gli altri – non ci sono e, quando ci sono, si tratta di semplici tautologie indimostrate e indimostrabili.
“Oggi un partito socialdemocratico mi sembra del tutto anomalo” dice Scalfari.
Fa il paio con la battuta in voga nel PCI quando si dovette prendere atto della fine dell’esperienza sovietica ” il comunismo è morto ma la socialdemocrazia sta molto male”.
Si potrebbe dire, in entrambi i casi, forse con anche una maggiore ragionevolezza, il contrario: “oggi un partito socialdemocratico è del tutto necessario”, ” il comunismo è morto, ma per fortuna c’è ancora il socialismo”.
Si capisce cosi come su basi tanto deboli sul piano logico-concettuale sia poi possibile avanzare affermazioni e convinzioni sempre più inconsistenti. E’ il caso della creazione del PD ( ma “mutatis mutandi”, la stessa osservazione potrebbe valere per il PDL, anch’esso in crisi), un partito talmente anomalo da non poter avere né una storia né una memoria. Una soluzione che può valere per un po’ di tempo per un apparato che deve cercare collocazioni, posizioni e presenza, ma non serve per avere una adesione convinta e responsabile. I casi di Milano, Cagliari, Napoli e Genova, vanno tutti, al di là delle singole specificità, a conferma dei limiti di un partito senza storia e senza memoria per cui un candidato di quel partito se non è una personalità di grande rilevo, si porta dietro tutto il non essere e la non chiarezza del partito madre.
Questo difetto d’origine diventa più grave in una fase storica che vede, di fatto, la crisi della concezione economica e sociale che aveva guidato il mondo nei decenni precedenti sino ad influenzare proprio quei cambiamenti di opinioni sopra ricordati.
Una crisi che mette in discussione non solo i capisaldi liberisti ma una serie di elementi di un quadro nei confronti dei quali anche la cultura di sinistra deve fare dei non facili aggiornamenti e ampliamenti.
Ad esempio la fine della riflessione maltusiana in materia di pressione demografica e dei conseguenti percorsi di crisi sociale, rappresenta un cambiamento di orizzonti e di vincoli per molte elaborazioni economiche e politiche; la versione di una internazionalizzazione – non certo proletaria – fatta a immagine e misura del sistema finanziario, con tutte le deformazioni negative conseguenti, rappresenta non solo una degenerazione dello stesso capitalismo ma – ed è bene rilevarlo – un “difetto” democratico e, inoltre, un vincolo ad un uso sociale delle nuove capacità di programmare l’innovazione tecnologica; che porta con sé quelle ipotesi keynesiane di superamento della parte più alienante del lavoro. Si tratta di questioni non certo marginali per una ipotesi di politica avente a fondamento i principi dell’eguaglianza e della libertà come quelli del movimento socialista.
Se, dunque, al momento, è necessario respingere le manovre della speculazione finanziaria, guardando un poco più avanti, come è comunque necessario, sembra evidente che per uscire dalla crisi economica e sociale acuta e grave come quella attuale, occorre definire delle strategie aventi come obiettivo il raggiungimento di una nuova e più avanzata qualità del lavoro, un più grande valore della dignità dell’individuo, una maggiore partecipazione e responsabilità nella gestione della vita politica. Le grandi differenze nella distribuzione della ricchezza devono essere considerate come una forma arcaica della società, non più accettabile. La dimensione della qualità come valore sociale deve avere un riscontro là dove siano state eliminate le differenze nelle opportunità.
L’Europa ha sviluppato una sua concezione della vita sociale diventando un modello di riferimento per molti Paesi. Questa concezione comprende lo sviluppo di uno stato sociale – il walfare state -che viene messo in discussione anche dalle concezioni meno estremiste del liberismo. Una difesa d quei valori sociali oggi implicano un loro avanzamento.
Una elaborazione e una proposta come questa non rappresenta l’unica risposta possibile essendo evidenti tentavi di eliminare gli eccessi dello sfruttamento attuati dai poteri finanziari ma con l’intento di ristabilire una concezione comunque classista dello sviluppo civile.
A che cosa serva un partito senza storia e senza memoria in questo contesto non è dato di comprendere, ma se sino a ieri poteva sopravvivere all’ombra dei poteri reali, oggi la necessità di compiere delle scelte investe anche quella rendita. E la prima scelta da fare è quella di uscire dalla pretesa di essere un corpo vivente ma senza storia e senza memoria.