di Sergio Ferrari*
Roma, marzo 2011
Anche in relazione ai recenti dibattiti sollevati dalla crisi economica internazionale e dalla specificità aggiuntiva della crisi italiana in materia di competitività e di produttività del lavoro, segnalata anche dalla questione Fiat, si sono andate recuperando questioni che sembravano sommerse nella storia. Tra queste: la caduta tendenziale del saggio del profitto di marxiana concezione e la misura della produttività del lavoro come indicatore della competitività tra sistemi produttivi.
Il punto di collegamento tra queste due questioni può essere letto e rappresentato dal ruolo dell’innovazione tecnologica.
Vediamo come: la caduta tendenziale del saggio del profitto nasce, come è noto, dal fatto che in regime di concorrenza la necessità di competere porta il capitalista a introdurre macchine che riducano i costi sia direttamente sia riducendo il contributo richiesto al fattore lavoro, accrescendo cosi quella che viene chiamata la composizione organica del capitale e cioè il peso economiche delle macchine rispetto al lavoro, sui costi totali. Ma l’introduzione di nuove macchine può essere sollecitato anche da fattori competitivi indiretti nel senso che a fronte di una crescita del costo del lavoro l’impresa può contenere i costi di produzione ricorrendo a macchine più efficaci. Anche in questi casi, tuttavia gli effetti sul cambiamento della composizione organica del capitale si muovono nella stessa direzione. Assumendo che il plusvalore sia una quota fissa del costo del lavoro, è evidente che quel tipo di innovazioni tecnologiche prolungano, selezionandoli, la vita di singoli imprenditori ma determinano anche una parallela complessiva riduzione del pluslavoro sino a provocare una crisi del sistema nel suo complesso. Le reazioni per superare queste crisi sono state varie nella storia e anche la recente crisi da un lato sembra richiamare, con la dimensione delle speculazioni finanziaria, il tentativo di recuperare una ripresa del saggio del profitto e poi scaricare comunque il conseguente fallimento sull’economia pubblica chiamata a salvare i risparmi dei singoli. Ma esiste anche la possibilità che il plusvalore possa riflettere o una minore rigidità rispetto al capitale variabile o anche rispetto al capitale fisso, o entrambi, con un effetto di più o meno lungo periodo, ma comunque positivo sull’andamento del saggio del profitto. In queste condizioni, ad esempio, una variazione del capitale variabile percentualmente maggiore della variazione del capitale fisso determina un aumento del saggio del profitto.
Il fatto che tutto questo possa avvenire – come è avvenuto – in concomitanza con un costante aumento della produttività del lavoro, conferma come si sia manifestato un processo di innovazione tecnologica. Ma poiché questo ha determinato anche un valore aggiunto per addetto crescente – come appare dalle statistiche – si è riaperta una questione circa le condizioni reali che consentono di verificare l’esistenza o meno di una caduta tendenziale del saggio del profitto concomitante con una crescita del valore aggiunto per addetto
Rispetto a questo dibattito occorre inserire una riflessione che consenta di distinguere all’interno del complesso delle innovazioni tra quelle che segnano la nascita di un nuovo prodotto e quelle che aggiornano prodotti preesistenti. Mentre queste seconde – sino ad oggi di maggiore rilevanza numerica – rientrano tra quegli interventi che portano ad accrescere la composizione organica del capitale, nel caso della creazione di prodotti nuovi, queste condizioni non sono necessariamente presenti: questi nuovi prodotti non sono soggetti, almeno per un certo periodo di tempo, ad un regime di concorrenza e quindi possono definire a piacere non solo il saggio del profitto ma anche il capitale variabile. Il maggiore valore aggiunto ottenuto dai prodotti che rispecchiano questa maggiore innovatività – le statistiche ci dicono che si tratta di una maggiorazione del 20-30 % – suona a conferma di questa impostazione.
Le implicazioni sono evidenti e non solo di ordine teorico. Intanto si apre una stagione di differenziazioni economiche connesse con le diverse capacità innovative. Tali capacità non implicano solamente l’ottenimento di un maggiore valore aggiunto ma possono essere collegate ad un percorso di sviluppo qualificato dalla scelta sociale delle innovazioni. Si tratterebbe di cogliere da Schumpeter la positività dei cicli d’innovazione agganciandoli, tuttavia, ad un percorso dettato dalla selezione programmata delle innovazioni. Che tutto questo non abbia ottenuto la necessaria attenzione degli economisti può essere compreso se si tiene conto che solo negli ultimi decenni questa diversità economica dei diversi processi innovativi ha assunto un certo rilievo, essendo l’innovazione tecnologica compresa, da un punto di vista economico, solo come fattore sostitutivo del lavoro. Del tutto ancora da scoprire, invece, restano le potenzialità, e le opportunità offerte dalla capacità di programmare nuovi prodotti, nonché le connesse problematiche politiche e sociali.
Appare, comunque, evidente anche il “non sense” della polemica sulla scarsa crescita della produttività del lavoro nel nostro paese non perché non sia vera, ma perché dovrebbe, secondo alcuni, chiamare in causa i sindacati e i lavoratori, poco attenti alle esigenze aziendali e ai contesti competitivi creati dalla globalizzazione: prima di arrivare a questa questione ci sarebbero da rimuovere alcuni macigni che riguardano il nostro sistema produttivo e cioè il fatto che è il prodotto (con le solite dovute eccezioni) quello che non offre margini per una crescita nemmeno del valore aggiunto. In queste condizioni prendersela con il lavoro rappresenta solo un falso obiettivo e le recenti vicende automobilistiche che hanno finalmente consentito il confronto tra orari e salari tedeschi ed italiani, dovrebbero essere servite almeno a meglio identificare il “colpevole”. Il fatto è che sulla Fiat si accendono necessariamente i riflettori che, tuttavia, almeno per ora, non illuminano nessuna innovazione del prodotto, ma su tutto il resto della nostra produzione, incominciando dal Mezzogiorno, non si sa nemmeno da dove incominciare.