di Sergio Ferrari da: www.syloslabini.info – Il dibattito sul successo delle politiche economiche messe in opera dal nostro Governo, dovrebbe essere sottoposto ad una rilettura per consentire di capire come stanno effettivamente le cose. Nel tentativo di cogliere gli esiti elettorali e di trovare una conferma ad una politica economica, peraltro molto discussa e discutibile, le approssimazione e i silenzi che vengono fatti – anche dalla grande stampa e da nomi altisonanti dell’economia e della comunicazione – stanno, infatti, superando il decoro e le ovvietà.
Incominciamo intanto a ricordare che i provvedimenti del nostro Governo si sono realizzati temporalmente in buona misura in parallelo con le misure adottate a livello internazionale, con forti effetti sullo sviluppo: ci si riferisce alla forte riduzione dei prezzi delle fonti energetiche , alla forte svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, alla forte immissione di denaro da parte della BCE. Tutti interventi unanimemente riconosciuti come fortemente positivi per lo sviluppo in particolare dei paesi dell’UE.
Se, dunque, gli interventi del governo italiano hanno ottenuto un ulteriore effetto positivo, questo dovrebbe essere aggiuntivo rispetto a quelli ottenuti come paese dell’UE.
Si potrebbe pensare che distinguere la quota da attribuire ai diversi interventi sia una operazione non impossibile, ma certamente con esiti sempre discutibili. Nel caso in questione, tuttavia, sarebbe sufficiente verificare l’andamento degli indicatori assunti come riferimento dello sviluppo, che nel caso italiano dovrebbero risultare in qualche misura superiori rispetto a quelli dei paesi non favoriti dai nostri specifici interventi.
Una seconda questione, in qualche misura connessa alla precedente, che andrebbe approfondita, riguarda il fatto che il nostro Paese ha accumulato nel corso dei decenni precedenti, una ritardo in materia di sviluppo e di competitività relativamente ai paesi sviluppati, compresi i nostri partner europei, del tutto significativo e che ha caratterizzato quello che è stato chiamato come il “nostro declino”.
Come è noto per verificare il superamento di una condizione di recessione e l’avvio di una ripresa dello sviluppo occorre convenzionalmente riscontrare l’esistenza di due trimestri consecutivi di sviluppo positivi. Ma, come è ovvio, la ripresa dello sviluppo è una questione diversa. Occorre, inoltre, precisare che in un mondo globalizzato non è sufficiente registrare una crescita del PIL del 2 o del 3 %, per un motivo che sovente non viene richiamato ma che è, anche questo, del tutto ovvio: se un paese parte da una situazione di sviluppo inferiore a quella di un altro è evidente che anche a parità di crescita percentuale del PIL, continuerà ad accrescere il suo divario. Nel caso del nostro Paese è dal 2002 che il PIL pro capite è sceso sotto la media di quello dell’UE18 ( e ovviamente al di sotto anche di quello della Francia o della Germania), quindi anche supponendo che la nostra crescita sia pari a quella dei nostri partner, non è sufficiente per poter dire che siamo usciti dalla crisi ma, anzi, occorre sapere che anche in questo caso noi continuiamo ad accrescere il nostro divario. Tuttavia un giudizio più completo richiede una lettura dei dati non solo con le integrazioni accennate, ma anche estese per un periodo temporale sufficiente per consentire che dei possibili segnali possano essere considerati come degli indicatori validi per le previsioni che occorre elaborare.
Nel caso dell’Italia questi segnali sembrano emergere a partire dalla metà del 2013 e sono ancora tutti da confermare essendo molto deboli. Inoltre un andamento delle nostre variazioni del PIl in qualche misura ancora inferiori ma con andamenti tendenzialmente paralleli a quello riferito al complesso dei paesi UE 19, si verifica dalla fine del 2014. Ma essendo il valore della base di riferimento inferiore, anche una variazione percentualmente eguale implicherebbe, come accennato, il permanere di una minore dinamica del valore assoluto dello sviluppo.
Uno dei punti critici della politica economica di questo Governo trova un riferimento e una conferma anche nella Premessa al DEF Aggiornato. In questo documento si afferma inizialmente che il Paese deve uscire “da una crisi profonda di lunga durata, in cui si sono registrati gli effetti congiunti del ciclo negativo internazionale e dei limiti di sistema propriamente italiani, sedimentati e sovrapposti nell’arco di almeno due decenni.” Sino a qui l’analisi, ancorché sintetica, può essere accettata se non portasse alla seconda affermazione secondo la quale “Lo stimolo fiscale all’economia risulta sostenibile nel tempo anche perché accompagnato da riforme strutturali che stanno modificando alla radice la capacità competitiva del Paese: dall’assetto istituzionale…..”. In sostanza sembra di capire che negli ultimi vent’anni l’attuale struttura bicamerale ha condizionato le capacità competitiva del nostro Paese, mentre l’investimento privato nei suoi aspetti quali e quantitativi deve essere considerato come un fattore da incrementare e “cruciali per irrobustire la ripresa:” .
Con tutta la comprensione per le necessità affabulatorie che sono un requisito di ogni aspetto delle politiche di questo Governo, francamente affermare che da circa un ventennio il Senato è un’ostacolo allo sviluppo del paese, mentre l’investimento privato – che ha espresso i connotati del Paese in materia di struttura e di specializzazione produttiva – debba essere semplicemente da incentivare e favorire, rappresenta una sintesi difficilmente condivisibile per motivi che appaiono di tutta evidenza, anche solo sul piano della ragionevolezza.
Alla gravità delle soluzioni “democratiche” prospettate per eliminare i “difetti” del Senato attuale, occorre aggiungere una concezione e una interpretazione della nostra grave crisi economica e sociale, e delle conseguenti terapie indicate nel DEF Aggiornato, non meno preoccupanti. Dalla natura dei provvedimenti assunti sembra ragionevole ritenere che si sia voluto affrontare una questione di competitività di prezzo come causa della difficoltà economiche rilevate, ad esempio, dalla perdita di quote di mercato nel commercio internazionale. Il sostegno ad una tale competitività – sostenuta da Confindustria – rappresenta il prezzo che questo Governo si appresta a pagare per quel consenso politico senza il quale sarebbero difficilmente perseguibili gli obiettivi sottesi non solo alle proposte di riforme istituzionali ed elettorali ma anche alle condizioni sociali espresse da una politica economica e industriale che ci colloca nell’area dei paesi in via di sviluppo, per noi ovviamente perdente, lasciando sostanzialmente aperta la questione del lavoro in termini quali e quantitativi.
La logica da keynesismo privato che pervade il DEF – cioè i finanziamenti sono pubblici ma gli investitori che decidono il che fare sono privati – l’assenza di una qualche preoccupazione per la cattiva distribuzione della ricchezza che, secondo Stiglitz, ma non solo, ci colloca al terzo posto tra i paesi “sviluppati”, ma rappresenta di per sé una condizione che penalizza la crescita, le conseguenti “cure” che aggravano le condizioni del Servizio Sanitario, della scuola, della Università e della Ricerca pubblica, in linea con una teoria delle privatizzazioni che parte dalla eliminazione delle strutture inutili o sottogovernative, per arrivare ad offrire la gestione di realtà economiche prive di possibilità concorrenziali, ponendo tra queste non solo i servizi quali i trasporti, le autostrade, ecc., ma anche la formazione e la stessa amministrazione pubblica, una questione “ambientale”, nonostante i ripetuti “avvertimenti”, tuttora assente, ecc., ecc.,. Tutto questo colloca il DEF Aggiornato, tra i documenti di base per elaborare una alternativa. Certamente tra gli “autori” occorre includere il ruolo essenziale di quella Europa che, così come è, va annoverata tra i grandi malati di questa epoca.
Il Governo si consola – e cerca di consolarci – citando una variazione del PIL finalmente positiva e anche crescentemente positiva, tanto che le previsioni per il 2015 possono passare dal 0, 7% allo 0,9 %. Tutto vero, ma si continua a pensare – sbagliando –che il giudizio sull’andamento del nostro PIl possa essere dato indipendentemente da quello che succede nel mondo e, in particolare, nei paesi nostri partner. Purtroppo occorre aggiungere che nonostante quei dati “positivi” segnalati del Governo, i confronti necessari non lo sono affatto: la nostra migliore crescita prevista per il 2015 pari allo 0,9 % deve misurarsi con l’1,5 relativo al complesso dei paese dell’UE15, mentre per il 2016 le previsioni attuali nel DEF indicano una crescita del 1,6% a fronte di un 2% per quegli stessi paesi dell’UE15[1].
[1] Questa sostanziale permanenza del differenziale negativo della nostra crescita, potrebbe porre qualche interrogativo circa l’efficacia degli interventi e delle riforme introdotte dall’attuale Governo. Ma su questa questione sarà necessario una valutazione specifica.