di Mauro Beschi – In questi mesi la discussione sui temi della modifica alla Costituzione e della nuova legge elettorale è stata caratterizzata, del tutto giustamente vista l’importanza e la complessità degli argomenti, da ragionamenti giuridici e di dottrina costituzionale. Meno interessante ma pericolosamente deformante è stata la propaganda, in verità urlata e strumentalizzata come fanno i venditori ambulanti, sui miracoli e le mirabolanti prospettive per il Paese derivanti dalle “riformone” del Governo. Qualcuno potrà dire: perché si parla di “riformone” del Governo quando la modifica della Costituzione e la Legge elettorale dovrebbero essere di prerogativa e responsabilità del Parlamento? In realtà, mai come in questi mesi, si è vista l’ingerenza e le pressioni del Governo nella discussione parlamentare, fino all’utilizzo del voto di fiducia, fatto inconcepibile per tutti coloro che hanno a cuore le prerogative parlamentari, prescritte dalla attuale Costituzione, dell’ordinamento repubblicano.
In realtà il comportamento del Presidente del Consiglio, con il combinato disposto di Italicum e nuova Costituzione, approvati dopo una sua fortissima pressione, evidenzia un disegno, mai compiutamente espresso e trasparente, di trasformazione silenziosa da una Repubblica parlamentare verso, come ha osservato Valter Tocci, “un premierato assoluto senza contrappesi e senza paragoni nelle democrazie occidentali”.
Ma dietro questa riorganizzazione del modello istituzionale si disvela un inganno ed una sconfitta.
Un inganno poiché, attraverso un populistico rincorrere un cambiamento senza progetto, si rimuove la ragione sostanziale della crisi della politica, vale a dire la sua incapacità di rappresentare la società, nella sua complessità e nei suoi conflitti, e, proprio per questo, si giustifica questa sua estraneità incolpando il modello istituzionale, cercando con la tecnica di supplire alla assenza di “buona politica”.
Sembra di essere davanti ad un ciclista bolso che non riuscendo più a pedalare dà la colpa alla bicicletta.
Una sconfitta perché una società senza una buona e plurale rappresentanza politica non ha altre prospettive che quelle di un aumento di conflitti non governati, di un corpo sociale che perde la sua coesione e si frantuma in tante aspettative individuali, prosciugando i pozzi della convivenza civile e della solidarietà. Una società più sola, impaurita ed incattivita. Una società più fragile e vulnerabile sempre più attratta dalle sirene del dirigismo, della autodifesa autarchica, dal razzismo e dal rifiuto delle ragioni dell’altro.
Senza un modello istituzionale in grado di garantire la “buona rappresentanza” la democrazia è in pericolo.
Ma questo processo, già presente nel nostro Paese (si pensi al tentativo messo in campo da Licio Gelli e dalla P2) e ulteriormente raffinato dalle recenti modifiche alla Costituzione e dalla nuova Legge elettorale, non nasce per caso, esso è il frutto di antichi disegni oligarchici che hanno trovato una accelerazione nella durissima crisi, iniziata nel 2008. E’, a suo modo, un tentativo regressivo e classista di rispondere alle sue drammatiche ripercussioni economiche e sociali.
Una accelerazione che si fonda sulla necessità di razionalizzare e metabolizzare i negativi cambiamenti che la crisi e le politiche di austerità producono nella società, in particolare nella sua parte più debole, e che si sostanzia nella sfrontata proposta di rendere più “governabili” le dinamiche politiche e sociali superando le vecchie Costituzioni antifasciste che è, poi, il modo attraverso cui le elites economiche intendono far prevalere la propria visione ed i propri interessi, facendo sì che quelli antagonisti risultino emarginati, non rappresentati e, quindi, perdenti.
Si è molto parlato, in questa settimane, del documento di JP Morgan, una delle Banche ritenute maggiormente responsabili della creazione della bolla finanziaria che ha dato il via alla crisi, The Euro area adjustment: about halfway there, Europe Economic Research, 28 may 2013, ed è di grande insegnamento riprenderne i passaggi salienti:
“All’inizio della crisi, si riteneva che i problemi nazionali ereditati fossero per lo più di natura economica. Ma, con l’evolvere della crisi, è divenuto evidente che vi sono profondi problemi politici nella periferia, la quale, a nostro avviso, ha bisogno di cambiare se l’Unione monetaria europea vuole funzionare in modo appropriato sul lungo periodo. I sistemi politici della periferia sono stati costituiti all’indomani della dittatura e sono stati definiti da quell’esperienza. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, riflettendo la forza politica che i partiti di sinistra avevano guadagnato dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici in periferia, solitamente, mostrano diverse delle seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori; sistemi basati sulla costruzione del consenso che alimentano il clientelismo politico; e il diritto alla protesta se vengono apportate modifiche sgradite allo status quo politico. I limiti di questa eredità politica sono stati rivelati dalla crisi. I paesi della periferia hanno avuto un successo solo parziale nel produrre agende di riforme fiscali ed economiche, con esecutivi limitati dalle costituzioni (…). Vi è una crescente presa d’atto della portata del problema, sia al centro, sia in periferia. Cambiamenti hanno cominciato ad aver luogo. La Spagna ha intrapreso passi per risolvere alcune delle contraddizioni dell’equilibrio post-franchista con la legge dello scorso anno che consente una maggiore supervisione fiscale sulle regioni. Ma, al di fuori della Spagna, poco è avvenuto fino ad ora. La chiave nel prossimo anno sarà l’Italia, dove il nuovo governo ha una chiara opportunità per impegnarsi in significative riforme politiche.”
Dunque la visione che se ne trae è quella di un progetto teso a semplificare (nel senso di rendere più debole o nullo) il peso di certi interessi e diritti sociali nel processo di formazione delle decisioni politiche ed economiche.
Questo è già stato fatto, in questi anni, attraverso la drammatizzazione di specifiche questioni economiche e sociali (lavoro, pensioni, riduzione del welfare, privatizzazioni) affinché, in una sorta di stato di eccezione, si determinassero consensi parlamentari a sostegno di politiche inique ed anche fallimentari se è vero che, ad otto anni dall’inizio della crisi, l’Italia resta ancora in una fase di declino e deflazione, distruzione di attività produttive e forte aggravamento delle condizioni sociali (vedi ultimi dati Istat che attestano come il nostro Paese abbia visto cresce la disuguaglianza più che in qualsiasi altro).
Ed è proprio questo fallimento che, invece di mettere in discussione le politiche di austerità, che ne sono state la causa e, di conseguenza, gli interessi che ne hanno beneficiato, sta spingendo una oligarchia di interessi dominanti a rinsecchire la dialettica democratica, a modificare una bella Costituzione, perché fondata sul riconoscimento di valori inclusivi e solidali, e a comprimere ulteriormente, con la nuova Legge elettorale, la formazione di una rappresentanza plurale, privando, così, la politica della capacità di leggere, rappresentare e assumere la complessità sociale e metterne in equilibrio gli interessi.
E se la politica non “respira” nella società, muore.
Per questo ciò che è in gioco in questi mesi ci parla non di astratte costruzioni giuridiche, non del consenso ad un Presidente, non del nuovo contro il vecchio, ma dell’avvenire della democrazia nel nostro Paese.
Roma, 22 maggio 2016