Riccardo Lombardi, una passione irrefrenabile
di Vittorio Emiliani (20 settembre 2004)
La moglie Ena aveva un bel supplicare chi accompagnava Riccardo nei giri elettorali. Fatelo parlare poco, altrimenti gli torna il male ai polmoni. Nel 1930 Lombardi era stato arrestato dalla polizia fascista e scientificamente picchiato con sacchetti di sabbia bagnata ledendogli per sempre un polmone e spedendolo in sanatorio. Ma quando lui si trovava di fronte come capitò una sera al Sociale di Stradella una platea gremita, di giovani soprattutto, disegnava quei suoi affreschi planetari parlando anche una o due ore. Senza che nessuno si schiodasse dalla sedia. Tutti affascinati da quell’oratore alto, magro, un po’ curvo, che parlava con voce forte, sempre a braccio, citando a memoria dati e cifre. L’ingegner Lombardi era così. Irrefrenabile nella passione politica. Nella voglia di comunicare agli altri, ai più giovani soprattutto, passione, libertà di mente, ragionamento politico. E gli astanti avvertivano che dietro quel volto impossibile da immaginare senza occhiali, in quella testa incassata fra le spalle ossute, c’era il più totale disinteresse personale, una mancanza di cinismo persino disarmante.
Nonostante avesse lasciato la Sicilia ancora giovane (era nato a Regalbuto, in provincia di Enna nel 1901), all’inizio degli studi di Ingegneria completati al Politecnico di Milano, manteneva nel suo bel linguaggio, tecnico e immaginoso insieme, a volte tagliente, la cadenza isolana. Era severo, austero nelle espressioni morali e politiche, e però ironico e divertente nella quotidianità. Non certo l’uomo cupo e aggrondato che Indro Montanelli ha voluto sino alla fine descrivere. Nel privato, con noi, che stavamo fra i 20 e i 30 anni, era spesso allegro, spiritoso.
Non parlava quasi mai di sé. Si smitizzava volentieri. Pur essendo stato un attore importante della Resistenza a Milano per Giustizia e Libertà, primo prefetto politico della città nei giorni felici e terribili della Liberazione, non coltivava alcuna mitologia eroica di sé. Diversissimo in questo da Sandro Pertini che non amava né lui, né gli altri ex azionisti del Psi. Naturalmente ricambiato. Sapevamo noi che il prefetto Lombardi aveva sequestrato le industrie del latte per poter distribuire una quota minima dell’alimento a tutti o che aveva pure decretato l’arresto di tutti i grandi industriali, lestamente fuggiti in Svizzera. Al termine dell’esperienza aveva scritto un articolo in cui proponeva di abolire i prefetti.
Presenziava a riunioni di partito e di corrente anche modeste, periferiche, ascoltando fino a notte interventi tanto appassionati quanto sconclusionati a volte. Si accendeva la pipa o il prediletto mezzo toscano, e ascoltava, paziente. Per poi tirare le fila e dare senso politico a quel dibattito notturno. Sempre lucidamente. Era così anche nei comizi, mai di routine. Se permetti, prima andiamo a cena, mi faceva. Il menu era fisso: una specie di zuppa alla pavese con un uovo nel brodo, una piccata di vitello e un frutto. Con un bicchiere di buon rosso. Poi, in piazza o in teatro, avesse di fronte trenta o trecento persone, teneva il suo comizio impegnato, fervido, ricco di dati e di stimoli critici. Si capiva dalle sue diagnosi che, rispetto a Marx, aveva prediletto Schumpeter e Keynes. Mai un filo di retorica, ricco di esempi polemici, crepitante nell’argomentare. Sulla nazionalizzazione elettrica o sulla legge urbanistica.
Non si può governare col 51 per cento? Ma, caro, io avrei paura del 90 per cento, non del 51, mi disse una volta in aperta polemica con la diagnosi di Berlinguer sul rischio cileno che correva l’Italia degli anni 70 e che giustificava il compromesso storico. Era stato uno degli autonomisti determinanti nel portar fuori il Psi dalle secche frontiste, filo-comuniste. Relatore allo storico Congresso di Napoli. Era diventato leader della sinistra interna combattendo però lo spirito di scissione. Da autonomista di sinistra. La radice laica e liberalsocialista tornava fuori quando si parlava di Europa (in una sinistra italiana che aveva votato contro il Mec, o l’aveva ostacolato) o quando ci si batteva per i diritti civili, per il divorzio.
Allorché si spense Ferruccio Parri, tutti pensammo che Pertini avrebbe nominato senatore a vita, in suo luogo, un altro esponente azionista, un altro dirigente del Clnai, cioè Riccardo. Non lo nominò. Né lo invitò mai, credo, al Quirinale. Ma lui non se ne doleva proprio. Anzi ne ridacchiava con quel suo riso gorgogliante, vedendo confermato ciò che pensava da tempo. Del resto, era stato fugacemente ministro dei Trasporti nel primo governo De Gasperi, nel 46, e poi più nulla, nonostante le forti insistenze di tanti. Nel 1968 confermò questo disinteresse per il potere. Era successo che Eugenio Scalfari, candidato dal Psi a Torino e a Milano, fosse riuscito in entrambi i collegi e, nonostante il patto non scritto di optare in tal caso per Torino, fosse restio a lasciare Milano dove aveva più radici. In tal caso però escludeva Michele Achilli, urbanista meno che quarantenne, deputato da due legislature, vicinissimo a Riccardo. Ma cari compagni, che problema c’è? Mi dimetto io ed entra Achilli che è giovane e bravo, mentre io sono lì da tanti anni ( Mi annoio pure, mi aveva detto a parte). Non se ne parla nemmeno. Scalfari resta a Torino, tagliò corto Nenni. Guarda, Pietro, che io parlavo seriamente. E sottolineò la sincerità dell’affermazione col consueto riso. I posti, per lui, contavano poco o nulla. Contavano le idee. Purtroppo alcuni di quelli che aveva scelto come figli dovevano comportarsi in modo opposto. Lontanissimi da lui sempre accusato di essere troppo candido e politicamente presbite.