28 Giu 2018 by fondazione nenni
In una fase in cui l’unica alternativa che sembra prevalere in Italia e in Europa è costituita dallo scivolamento a destra sotto forme diverse e con diverso tasso di pericolosità, ci sembra utile riproporre questo scritto di Riccardo Lombardi (pubblicato il16 ottobre 1975, ”Il Mondo”) sostenitore ai tempi solitario, dell’alternativa di sinistra (i comunisti lavoravano per il compromesso storico trovando sponde solide nelle aperture di Aldo Moro). In questo testo, il dirigente socialista non ha problemi a puntare il dito contro il centralismo democratico che diventa centralismo burocratico, ma soprattutto con orgoglio rivendicava l’egemonia politico culturale di una idea socialista con solide fondamenta democratiche.
-di RICCARDO LOMBARDI*-
La svolta a sinistra, con la connessa corresposabilizzazione comunista e senza l’esclusione pregiudiziale, anche se obiettivamente non ipotizzabile della Dc, riguarda la congiuntura, l’immediato, i tempi brevissimi; obiettivi limitati e temporanei, anche se oggi importanti e urgentissimi ivi compresi dell’ordine democratico. La svolta a sinistra non contraddice, anzi può essere un punto di passaggio obbligatorio sia per l’una sia per l’altra delle strategie di fondo, quella comunista del compromesso storico e quella socialista dell’alternativa. L’alternativa di sinistra, difatti, non è una strategia di soli schieramenti né un semplice espediente di alternanza al potere (anche se il diritto all’alternanza deve essere rigorosamente garantito), l’alternativa di sinistra significa l’accesso a un governo da cui parta il processo di transizione graduale verso una organizzazione socialista della società e dello stato. Naturalmente, le due strategie riposano su analisi differenti della crisi del capitalismo; analisi che sarà, io spero, al centro del dibattito congressuale del Psi. È dal convincimento dell’impossibilità di uscire “durevolmente” dalla crisi del sistema (ciò che non significa che il capitalismo sia pronto a morire) che deriva la posizione socialista di una transizione al socialismo e non soltanto di una alternativa “democratica con elementi di socialismo” dell’ipotesi comunista. C’è campo per un franco e utile confronto che non implica affatto l’accantonamento o l’indebolimento del processo di sempre maggiore unità dei due partiti della sinistra, unità che non viene indebolita anzi che trae alimento dalla originalità dell’apporto differenziato delle due componenti.
A questo proposito vorrei rilevare l’importanza dell’affermazione di Bufalini che tale processo unitario “tende a superare la scissione del 1921”. E’ un’affermazione che è risuonata più volte nel corso del trentennio o come constatazione o come auspicio e sotto diversi e spesso equivoci profili. A mio giudicio molte delle ragioni della scissione del ’21 hanno cessato di valore o meglio di attualità e altre, queste specialmente di carattere internazionale, tendono a deperire; nello stesso tempo è avvenuta una reciproca compenetrazione di tradizioni e posizioni socialiste e comuniste che si sono influenzate scambievolmente. Basta riflettere a quante delle posizioni culturali che i socialisti hanno introdotto o difeso, spesso in anticipo sui tempi, sono oggi patrimonio comune o rendono a divenirlo; valgono per tutte, la posizione neutralistica, la concezione della pianificazione democratica, una certa idea dell’europeismo che, elementi di divisione di un tempo, sono divenuti, o tendono a divenire, patrimonio comune.
Una polemica come quella in atto in Francia rispetto alle ipotesi autogestionarie, così essenziali per la prospettazione di un socialismo persuasivo anche perché svincolato dalle esperienze storiche del “marxismo al potere” (o dei “marxismi al potere”), sarebbe difficile avvenisse fra comunisti e socialisti italiani come invece è avvenuto in Francia; e tuttavia non per questo i socialisti e i comunisti possono riconfondersi in una indiscriminata unità che sarebbe non un potenziamento, ma un impoverimento derivante dalla cancellazione di impostazioni in fondo non cancellabili. Si pensi a un elemento che sembra solo organizzativo, ma che è profondamente politico, cioè all’organizzazione interna dei due partiti. Se un partito proletario deve prefigurare nel suo regime interno lo stato e la società di domani, non vi è dubbio che la struttura che dà libertà e diritto di espressione organizzata delle correnti è quella giusta per un partito che prefiguri lo stato e la società di domani come non autoritari e pluralistici.
Certo che la pratica delle correnti del Psi è degenerata, ma ciò significa che va corretta e ripristinata nel suo valore esemplare, non cancellata in una pratica di centralismo democratico caratteristica del Pci che di fatto, e inevitabilmente, sbocca in un centralismo che non cessa di essere burocratico per il fatto di essere spesso intelligentemente praticato dai comunisti italiani; ai quali è giusto riconoscere il valore attrattivo che questa pratica ha in questa fase e che permette al gruppo dirigente comunista di aggregare forze e opinioni eterogenee senza accordare loro diritto pieno di espressione organizzata, attraverso la forza di una egemonia di gruppo dirigente, basata appunto sulla pratica del centralismo e della cooptazione; ma in nuce e senza il minimo processo di intenzione alle senza dubbio radicate convinzioni democratiche e pluralistiche dei comunisti italiani, c’è in questa struttura interna qualche cosa che oggi può essere invidiabile, se confrontata ad altri processi dispersivi, ma diviene meno rassicurante per domani. E il domani, il domani socialista, per noi non può essere rinviato né temporalmente a un secolo imprecisato, né territorialmente a realizzazioni storiche che purtroppo sino a oggi sono le sole concretamente visibili e nelle quali ai partiti socialisti democratici (non solo i partiti socialdemocratici) è stata offerta sempre solo la scelta fra la fagocitazione e la scomparsa.
Qualunque prospettiva dunque di trasformazione profonda della società e dello stato esige come condizione necessaria l’unità a sinistra. Condizione necessaria ma che non sarebbe sufficiente ove l’unità non fosse sicuramente dominata da una linea culturale e politica interamente laica che rivendichi non solo il diritto all’errore, ma il diritto di sbagliare essa stessa affidandosi al metodo dell’ ”esperimento e dell’errore” soggetti a permanente verifica democratico e in ciò, “mai soltanto in ciò”, riconoscendo la sua appartenenza al mondo occidentale. Non è indispensabile che tale linea sia “incarnata” e monopolizzata dal partito socialista, ma è certo che non potrebbe esserlo di alcun altro partito. Senza dunque pretese egemoniche di partito, ma con esigentissime pretese egemoniche di linea, la credibilità di una alternativa, comunque configurata, riposa sulla crescita del partito socialista, ma anche nella vastissima area orientata verso il socialismo democratico, di un vasto consenso, anche elettorale, che renda credibile e vincente la costruzione di una società e di uno stato non solo tolleranti ma realmente liberi perché concretamente democratici. In tale contesto la rivendicazione dell’autonomia socialista esprime un significato ben più profondo e impegnativo di quanto ma nei abbia avuto nel passato.
*Questo articolo di Riccardo Lombardi venne pubblicato su “Il Mondo” del 16 ottobre 1975. Si tratta di una risposta al dirigente comunista Paolo Bufalini. Dal libro “Ricardo Lombardi scritti politici 1963-1978. Dal centro-sinistra all’alternativa”, a cura di Simona Colarizi, Marsilio Editori, 1978, pagg. 299